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| << | < | > | >> |IndicePresentazione di Aldo Trione 7 Salvatore Di Giacomo e il suo «piccolo albo» 11 di Laura Donadio A Ellis 19 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Non sono molti i poeti dialettali che occupano un posto di rilievo nella storia della civiltà letteraria. Alcuni sono legati a certa scrittura di maniera, altri tendono a fermare nei propri versi curiosità ed episodi minimi; altri si servono del dialetto per puro divertimento o anche per gioco. La letteratura vernacolare, che non è una malerba come pensava De Sanctis, corre tuttavia sovente il rischio di narrare vicende umane del tutto marginali o di descrivere e «rappresentare» situazioni segnate da evidenti caratteri regionali. È una schiera assai ristretta quella degli scrittori che hanno saputo servirsi del dialetto per dischiudere mondi immaginari o per disegnare realtà sociali e antropologiche cariche di senso. È perciò che quando hanno rivolto la propria attenzione alle opere scritte in dialetto, alcuni storici della letteratura hanno in molti casi considerato «minore» e in qualche misura di poco interesse questo «particolare» territorio dell'arte, della poesia e della scrittura. Giova, tuttavia, rilevare che certi giudizi decisamente critici verso le opere dialettali non sono del tutto arbitrari e immotivati. È necessario comunque portarsi fuori dagli astratti e vaghi accademismi e leggere - saper leggere. È un esercizio, questo, che può riservarci scoperte, condurci per sentieri inesplorati, offrirci straordinarie sorprese. Si pensi a Lo cunto de li cunti di Basile o alle opere di Belli, di Porta, di Trilussa, di Noventa o ai versi semplici e purissimi di Biagio Marin o alle poesie in friulano di Pasolini o, infine, allo sterminato «continente poetico» napoletano, certo non sempre di alta qualità, ma ricco, vario, complesso, che non si lascia catturare in schemi interpretativi accademici, precostituiti. E si pensi, tra gli autori napoletani, soprattutto a Salvatore Di Giacomo, la cui opera costituisce una presenza significativa nella nostra storia letteraria. Lirico finissimo, capace di mettersi di continuo in sintonia con le voci più originali della cultura europea del proprio tempo, sorretto da una «filosofia del vivere» vagamente tardoromantica e qualche volta crepuscolare, egli narra e rappresenta Napoli - città dove si incrociano culture diverse, storie e tradizioni differenti. Non la città che Renato Fucini, nel suo reportage del 1877, Napoli a occhio nudo, descriveva come «un'immensa bottega di rigattiere», ma un universo contraddittorio, raccontato con parole sorrette e animate da forte efficacia espressiva, rivolte a scoprire sensibilità, emozioni, pieghe, che non sempre la lingua dotta riesce a cogliere fino in fondo. Lontano dal bozzettismo di maniera, ancorché indulga talvolta nel descrivere situazioni tipicamente locali – i vicoli, le antiche taverne, le trattorie, i caffè, i teatri – Di Giacomo «compone» questo volumetto come una sorta di calepin du poète. Dove non si ritrova la trama sottesa al suo laboratorio artistico e intellettuale, ma sono raccolte poche canzoni e poesie, e anche frasi occasionali ed estemporanee, alcuni schizzi, autografi di amici (Croce, Mascagni, Ricci, Martoglio, Beltrami, Verga, Boito, Ojetti, Umberto Giordano...). Ci sono poi, bozzetti, disegni, che rivelano efficacia, sobrietà, verismo delle forme, mostrano, in altri termini, quelle che, per Di Giacomo, sono le «qualità» più eloquenti dell'autentica arte figurativa, come emerge dagli scritti sulla cosiddetta Scuola di Posillipo. Le molte firme qui «conservate», alcune frasi conviviali e festose, gettate sulle pagine senza ordine, qualche nota musicale e tante immagini abbozzate, tutti questi frammenti di vita definiscono e disegnano uno strano e suggestivo zodiaco della memoria. È un taccuino, felicemente disordinato, ricco di una intensa musicalità, affidato e dedicato alla sua Elisa, fedele custode dei suoi segreti e delle sue malinconie. Non era destinato alla stampa. Pure se raccoglieva testi noti, Di Giacomo lo considerava un libro segreto. E, forse, proprio per queste intenzioni, esso è inquietante, rivelatore, ricco di sfumature. Indica una linea, un percorso che consente di attraversare un intero itinerario poetico, sentimentale e umano. Arietta, costruita su una sottile trama di emozioni, Na tavernella, scandita in versi ironici e pudichi; e alcuni «pezzi» classici e largamente conosciuti, come a Marechiaro, 'O sbaglio, Marzo, nu poco chiove, sono le tessere di questo piccolo albo, ingenuo e sentimentale, che non pretendeva offrire contributi storici, filologici e letterari di alcun tipo. È un quaderno «personale», una testimonianza struggente, la recherche esistenziale di un protagonista della poesia italiana primonovecentesca, ma è soprattutto il racconto di un'epoca irrimediabilmente trascorsa, che getta ancora su di noi luci... e tante penombre. Aldo Trione | << | < | > | >> |Pagina 15Milan, le 7 luglio 1909Due righe, cara Elisa: sto per partire per Baveno. Iersera, tornando dal Cova, ti volevo scrivere: ma era già tardi: in albergo non era il groom che mette le lettere alla posta e i camerieri dormivano. Tardi per Milano: a quell'ora, a Napoli, (le 11) si comincia a vivere la vita notturna e tutto è più facile. Ma qui è un poco come a Roma, quando l'estate è giunta: gli alberghi son quasi chiusi al pubblico e alle 9 di sera non c'è più un cane per la via. Dunque ti scrivo prima di partire per Baveno. Sono le 8 ant. Metterò io stesso questa lettera alla stazione e partirò più tranquillo. Vorrei non farti mancare ogni giorno notizie del tuo povero Salvatore. Iersera sono stato a pranzo al Cova. Mi figuro l'impressione che ti farebbero questo ultra chic restaurant e le persone che lo frequentano. Le donne sono in maggioranza: toilettes smaglianti; nudità provocanti; loquela sfacciata, come si usa a Milano. Attrici, cantanti, pittrici, letteratoidi, letterati, artisti, pittori, poeti (non milanesi, perché Milano è l'antitesi della poesia), fioraie, musica, e a ogni tavola da pranzo – in un grande giardino pavimentato di ghiaia – un lume elettrico con un grande abat-jour rosso o viola o azzurrino, che pare un ombrello. Le vivande sono squisite e copiose. In grandi cesti, intorno al cui manico ricorrono fiori freschi, si serve la frutta, datteri, pesche, ananas, banani [sic.] e ciliege e prugne splendide. (Ti viene o no l'acquolina alla bocca?) La carne è magnifica e cucinata in tutti i modi: i minestroni freddi sono deliziosi e lo champagne e un certo vino Soave, che tutti bevono, inondano le tavole. Nascosta tra le piante l'orchestra suona waltzers patetici e brani del Faust e della Tosca. Alla mia tavola stanno Arrigo Boito, Giovanni Verga, Marco Praga, il famoso avv. Nasi (simpaticissimo torinese) e il pittore Beltrami, che l'immaginifico loda, perchè gli regala molte belle cose. Verga, elegantissimo, parla col suo accento siciliano spiccatissimo. Boito, gentile, serio, mi guarda ogni tanto attraverso i suoi occhiali, mi mette la mano sulla mano e mi dice: Tanto lieto, tanto lieto! Bel nome ha Lei! E felice Lei che vive a Napoli! Praga saluta tutte le donne che passano e che lo salutano: Ciao, Nina! Angiolo mio! Bellezza mia! E beve il cicchetto e parla forte e taquine tutti, anche Verga, che ha dei momenti di serietà e di raccoglimento. Ho l'albo avanti al piatto del dolce. Verga mi dice: Che cosa è questo? E io dico: Se Lei si vuol firmare mi fa un gran piacere. Ma io sono curioso – dice lui – voglio leggere, voglio guardare. S'accomodi dico. Lui si mette a sfogliare il piccolo albo sulla cui prima pagina vi è il tuo nome, nell' encadrement di Luccio: A Ellis. Verga mi guarda, sorridendo. Poi si mette a leggere le poesie che sono nell'albo. Poi passa l'albo a Boito e gli fa: Tocca a voi, Maestro: firmate. Boito firma, mentre Verga gli dice che la poesia Angeleca è bellissima. Boito se la fa dire da me: tutti sono intenti. Io la dico bene, un po' commosso. E Boito mi copre la mano con le sue due mani, e me la preme, e poi mi dà un colpetto in faccia, commosso mi pare anche lui. Firmiamo nell'albo tutti i presenti – usciamo a passeggiare, dopo, e io prendo un tram che mi porta all'albergo. Sono contento. Metto l'albo in una busta, lo preparo per mandarlo a Ada Negri stamane e la prego di firmarlo. Per Elisa! Questo mio viaggio la conduce con me: io quasi la prendo nelle mie braccia e la levo come una bambina ridente e la presento a tutte le più belle intelligenze, come il fiore del mio cuore un po' triste. A Baveno farò firmare Giordano, che Boito vorrebbe vedere direttore al nostro Conservatorio al posto di Martucci. Mi dicono qui che Baveno è un posto bellissimo e che la villa di Giordano è incantevole. Stasera te ne scriverò: ti darò conto di tutto. Diamine, le sette e un quarto! Ho appena il tempo di vestirmi e correre alla stazione. Arrivederci, Elisa, nasino, cappellino, camicettina, calzine traforatine, medaglina della Madonnina, anellino al ditino della manina!... Arrivederci – io ti voglio tanto bene e ti abbraccio tanto forte!
Salvatore
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