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| << | < | > | >> |Pagina 11All'inizio sognavo tutte le notti Mai Ling. So che la sognavo e che era lei, Mai Ling, erano suoi gli occhi allungati nel viso chiaro, sua la treccia che le pendeva davanti mentre si chinava su di me, suo il sorriso. Soprattutto questo vedevo, il suo sorriso, e lei che si chinava e mi parlava; io tentavo di risponderle, cercavo le parole, annaspavo nel sogno, spasimavo, ma per quanto facessi nessun suono mi usciva dalla gola, era come se qualcosa mi impedisse di parlare. Allora lei scompariva, a poco a poco scomparivano gli occhi e la treccia un po' disfatta che le pendeva davanti nel chinarsi, per ultimo rimaneva il sorriso, solo quello, un sorriso senza quegli occhi allungati e quel viso chiaro chino su di me. Poi anche questo dileguava nel buio. E allora mi svegliavo.
Ci mettevo un po' a capire dov'ero. Con gli occhi
cercavo d'istinto il braciere in mezzo alla jurta, dove lo
sterco secco si era ridotto a una polvere scura. Nelle
notti d'inverno, quando il freddo minacciava il nostro
tepore, Mai Ling si alzava di tanto in tanto ad
aggiungerne altro; al suo gesto il braciere mandava un
improvviso bagliore, il reticolo di legno della jurta
sembrava rianimarsi e il rosso dei tappeti si accendeva un
istante, per ricadere subito nell'ombra quando la fiamma si
acquietava nel fondo del metallo.
L'aria si riempiva allora dell'odore acre che ben conoscevo,
un misto di fieno bruciato e di terra, e del fumo sottile
che faceva tossire gli ospiti non avvezzi a vivere come noi.
Cercavo il chiarore del lumino a olio davanti all'immagine
del Padma Sambhava, una luce fioca, che rischiarava appena i
petali di loto del piedistallo, le gambe incrociate e le
dita che sfioravano la terra, mentre il busto, le braccia e
le orecchie che gli arrivavano alle spalle si indovinavano
nel buio e lasciavano scorgere l'oro che li ricopriva.
Rosso e oro era pure l'armadietto laccato dove le donne
tenevano i gioielli e i pochi documenti di cui eravamo
forniti, e di un rosso caldo i tappeti sul graticcio delle
pareti e sulla porta, dove pendevano le frange:
persino l'ombra dentro la jurta sembrava aver assorbito le
sfumature del rosso. Al mattino poi, quando entravano i
primi raggi e andavano a posarsi sulla sella da festa appesa
alla parete facendone rilucere il bordo, l'ottone delle
staffe e la seta, tutta la jurta sembrava riempirsi d'oro.
Di sera, sdraiata nella parte riservata ai più giovani,
seguivo con gli occhi i meandri dei tappeti, le curve delle
corna di cervo, la scia del corso d'acqua tessuto con un
filo più chiaro.
Tutto intorno, sui materassi di feltro, ognuno dormiva al
posto che gli spettava, a destra gli uomini, a sinistra le
cugine Haysce, Yesügen e Yesü e mia zia Qada'an con l'ultimo
figlio, Temüjin, che era ancora un lattante. D'inverno,
vicino all'entrata della jurta si metteva un piccolo
recinto: gli animali appena nati dormivano con noi, protetti
dal freddo e dai lupi. Ogni tanto allungavo un braccio,
lo infilavo tra le asticciole e toccavo i riccioli di un
agnello neonato, lisci come la seta, tastavo il corpo caldo
dell'animale, lo sentivo sollevarsi e abbassarsi,
incerto se fidarsi o no della mano che l'accarezzava. Il
respiro di tutti quei corpi mi rassicurava. Anche se fuori
c'era il vento e i cani abbaiavano inquieti, l'ombra della
jurta era colma di presenze note e non tardavo a chiudere
gli occhi.
Ora li aprivo a fatica e nel buio distinguevo il bianco dei mobili intorno e del piumino che mi pesava addosso. Lo scostavo con un gesto deciso e alzavo la testa dal guanciale. La federa, bianca e rigida di amido, era attraversata nel mezzo da una scritta obliqua, traforata: gute Nacht. Ogni sera affondavo le guance in quella buonanotte ricamata, senza intenderne il senso, perché a quel tempo le lettere erano segni che non conoscevo. Sprofondavo in un sonno pesante, un sonno da bambina stanca per le troppe emozioni. Mi svegliavo d'improvviso a notte fonda, perduta nel mucchio di piume, e mi chiedevo se per caso non fossi morta e il bianco che mi ricopriva non fosse quello della tunica con cui mio fratello Ginchin era sceso nel regno di Erlig Khan.
Subito sgusciavo fuori dalla grotta che mi ero scavata
sotto il piumino, poggiavo i piedi sullo scendiletto, mi
avventuravo sul freddo pavimento. Mi infilavo poi tra le
ali della tenda, ben accostate davanti alla fìnestra. Anche
le tendine erano traforate di scritte. Io le spostavo con
cautela, e mi trovavo dinnanzi al gelo dei vetri. Non osavo
aprire le finestre: a quel tempo avevo sempre paura di far
rumore; avrei voluto potermi muovere senza toccare niente,
meglio ancora, senza essere vista, tanto temevo al più breve
fruscio di veder comparire alle mie spalle lo sguardo
ansioso della mia nuova madre o quello, tra il premuroso e
l'infastidito, di una delle cameriere. Ogni volta
sussultavo alla loro presenza improvvisa, quasi fossero
state
jinn
scesi dal Monte Kuchi-Kaf ai confini della terra
per farmi del male.
Dall'angolo liberato dalla tendina guardavo fuori e il
mio fiato formava sul vetro un cerchio opaco, che cancellavo
col dorso della mano. Sagome d'alberi, così tanti alberi
che il cielo si vedeva appena. Un cielo nero, solo un poco
più chiaro degli alberi, mentre da noi è lucente anche di
notte. Un cielo chiuso: non solo dentro i muri si
soffocava, nelle stanze chiuse in cui non penetrava
il vento e solo di quando in quando si permetteva all'aria
di entrare, ma anche sotto quel cielo si respirava a fatica,
chiuso com'era tra corone di alberi e tetti. Non sapevo a
quel tempo che mai il cielo sopra Colonia era stato tanto
aperto come in quegli anni, che mai era stato tanto ampio
come allora, che non c'erano edifici a porsi frammezzo.
Ignoravo com'era fatta una città da questa parte del
mondo, conoscevo solo le città delle oasi, dove i minareti
sono l'unico ostacolo al cielo. Nella steppa non c'è niente
che gli impedisca di espandersi, che lo limiti, che gli si
opponga: quando si è in piedi o a cavallo si ha
l'impressione che non ci sia nulla più alto di noi stessi.
Qui il cielo mi riempiva di sgomento, gli alberi che si
agitavano mi facevano paura. Brividi di freddo mi
riportavano al tepore sotto le piume. Le mani strette fra
le ginocchia e le gambe piegate verso il mento, mi
raggomitolavo su me stessa come un animale atterrito e
cercavo rifugio dai
jinn
che mi attorniavano. Ma appena chiudevo gli occhi vedevo il
chiarore rosso trapunto d'oro della jurta che respirava
tiepidamente, come i corpi addormentati accanto al mio.
Ho dimenticato la mia lingua. Si dice che la lingua materna non si dimentichi, ma non è vero. Anche la lingua si perde, quando è legata a un'infanzia così lontana nello spazio quanto lo è stata la mia. Mentre la mia storia mi si presenta davanti nella sua integrità, la lingua che l'accompagnava non è che un insieme di frammenti che faccio fatica a mettere insieme, spezzoni, più che discorsi completi. Ho dimenticato la mia lingua. Non so più le parole con cui ci chiamavamo noi bambini tra una jurta e l'altra, quelle che mi diceva Mai Ling, che mi faceva da madre, e quelle di mio nonno Bairqan, quando ricominciava ogni volta daccapo la sua storia e la nostra: "Noi tunciàn siamo i veri discendenti dei tatari". Le parole mi sono sfuggite, rimangono invece dei suoni sparsi, le erre che uscivano sonore dalla gola e i suoni alti e liquidi in cui la lingua a volte si impennava. O quello era l'accento particolare di Mai Ling, la terza sposa di mio nonno, che era una manciù di Buhara? Ricordo la compunzione con cui cercava di ripetere le parole che le insegnavamo, l'indecisione davanti a ogni erre che le si parava davanti, come se il modellarla le costasse un intimo strazio; ricordo come, ogni volta che doveva pronunciare il nome del marito, le si leggessero in viso lo sforzo per riprodurlo nell'adeguata sonorità e l'angoscia di non riuscirci, quasi che quel suo modo di liquefare i suoni costituisse un'offesa alla dignità del khan. Mi pare di risentire le voci e le grida di allora, ma se cerco di tradurle in parole ne vengono fuori solo dei suoni di cui indovino il senso, senza riuscire a rimettere vocali e consonanti nell'ordine giusto. È come se sentissi parlare nella stanza accanto e riconoscessi le voci e le persone dalle voci, come se sapessi di che argomento stiano parlando, ma non riuscissi a distinguere le parole una dall'altra, solo poche affiorando chiare e intere alla superficie del discorso. Alcune parole sono rimaste, superstiti nel gran naufragio della mia lingua materna - ma ci sarà ancora chi la parla? Non si tratta ormai di una lingua scomparsa, come le altre che l'hanno preceduta dall'una e l'altra parte dell'Amu Darja? Una delle parole-isole che ho sottratto all'oblio è kuraj.
Ho seguito quest'indizio, ho cercato quest'unico suono
ordinato e preciso frugando nei dizionari, lasciandomi
trascinare in un gioco di continui riferimenti,
addentrandomi in un labirinto di segni poco noti,
approdando alle rive dei più insoliti significati. Come
rintracciare nel mare delle lingue un
kuraj?
Sapevo che cosa significasse da noi e mi ostinavo a cercarne
una conferma scritta, quasi si trattasse di una civiltà
sepolta, che cessi di essere fantasia di un archeologo solo
nel momento in cui venga riportato alla luce un pezzo di
muro o un frammento di vaso. Con ostinazione cercavo
la traccia che mi portasse a
kuraj:
steppa, piante della steppa, erbe della steppa, cespugli che
d'inverno perdono rami e radici e si abbandonano al vento,
così spargendo i loro semi,
sàlsola cali,
in russo
perekatipole,
"campo che corre". Ecco, questa era la traccia che cercavo!
Sfogliando le pagine sciupate di un vecchio dizionario russo
e decifrando a fatica i caratteri ne è venuto fuori il nome,
senso e fonema corrispondenti l'uno all'altro:
perekatipole,
nella lingua dei kirghisi e degli altri popoli della steppa,
kuraj.
È stata una specie di rivelazione, come se a un tratto il
mio passato trovasse conferma e cessasse di esistere solo
come elaborazione di memorie, chissà quanto travisate e
rifatte dall'immaginazione nel corso degli anni. Ora il
kuraj,
quell'unica parola sicura della mia lingua, era davanti ai
miei occhi, nitida e inconfutabile nella pagina del
dizionario. Mi sentivo emozionata e felice, quasi avessi
trovato tra quelle righe fitte di segni pressoché
sconosciuti il nome del clan a cui appartenevo, quello di
coloro che abitavano nella mia jurta, il ritratto di me
stessa con la treccia lunga fino alle ginocchia, il
copricapo puntato alla nuca da uno spillone, gli stivaletti
di feltro ornati di perline. La parola era vera e
confermava irrefutabilmente il mio passato!
Noi chiamavamo kuraj i cespugli secchi che in primavera l' afghanetz solleva e fa rotolare nella steppa; sono valanghe di cespugli che si muovono e la steppa allora "cammina", anzi, corre, tanto da far spaventare i cavalli e dar l'impressione, a chi guardi da lontano, che un drappello di cavalieri si avvicini al galoppo. Kuraj però significa anche "flauto" e indica un flauto rozzo, da pastore nomade, ricavato da una semplice canna; per estensione poi designa anche il suonatore del flauto e, fatto un passo più in là, anche un giullare col flauto - un menestrello, un poeta di versi improvvisati, un rielaboratore di antichi epos, chissà -, in ogni caso un personaggio caro ai popoli della steppa e che anch'io conoscevo. Ma non basta: c'è anche un terzo significato, in qualche modo intrinseco agli altri: una persona senza fissa dimora e senza volontà propria, che si lascia trascinare dal caso. Più che un nomade è un vagabondo privo di radici, alla mercé del vento come un cespuglio di sàlsola, come il kuraj, insomma.
Ma la parola mi chiama alla memoria un altro senso
ancora, più misterioso degli altri e forse solo lontanamente
legato a essi.
"Kuraj, kuraj, kuraj",
diceva lo sciamano al termine delle sue invocazioni, e la
parola rotolava su di noi rievocando il correre dei
cespugli nella steppa. Forse il
kuraj
dello sciamano non aveva altro legame con gli altri
kuraj
che il suono, forse significati diversi si erano fusi col
tempo in quell'unica parola che li riassumeva tutti e che
più di ogni altra mi rimanda alla nostra esistenza di
nomadi.
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