Copertina
Autore Dan Diner
Titolo Raccontare il novecento
SottotitoloUna storia politica
EdizioneGarzanti, Milano, 2007 , pag. 278, cop.fle., dim. 133x206x18 mm , Isbn 978-88-11-68069-7
OriginaleDas Jaharhundert verstehen. Eine universal historische Deutung
EdizioneLuchterhand Literaturverlag, Monaco, 1999
TraduttoreFranz Reinders
LettorePiergiorgio Siena, 2008
Classe storia contemporanea
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Indice


Introduzione                                             9

1. Interpretazioni: due diverse guerre civili mondiali  17

2. Conversioni: nazione e rivoluzione                   63

3. Regime: democrazia e dittatura                      105

4. Cataclismi: memoria e genocidio                     151

5. Dualismi: decolonizzazione e guerra fredda          193

Note                                                   243

Indice dei nomi                                        273



 

 

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Pagina 17

1. Interpretazioni: due diverse guerre civili mondiali



Il 10 novembre 1942, in seguito all'arrivo delle truppe americane in Nordafrica, Ernst Jünger annotò sul suo diario di sentirsi partecipe della storia del suo tempo come uomo coinvolto non tanto in una guerra mondiale (Weltkrieg) quanto in una «guerra civile mondiale» (Weltbùrgerkrieg]. Un siffatto conflitto era, a suo avviso, del tutto diverso dalle guerre altrimenti combattute tra diversi stati nazionali. Queste ultime verrebbero «sbrigate», per così dire, incidentalmente.

L'annotazione di Jünger appare piuttosto singolare. In fin dei conti la Germania nazionalsocialista era da più di un anno in guerra con l'Unione Sovietica, tacciata di «bolscevismo». Questa guerra aveva tutte le caratteristiche possibili e immaginabili di una battaglia ideologica decisiva di portata planetaria. I suoi ordini di battaglia non conoscevano indulgenza. A est veniva combattuta una vera guerra di annientamento. Ma Ernst Jünger attribuiva alla comparsa delle truppe americane sulla scena della guerra europea un ruolo più importante per la storia mondiale. Da cosa veniva quel predicato storico-filosofico di una «guerra civile mondiale»? E perché Jünger si riferiva proprio all'America?

L'intervento americano nel conflitto tra le potenze europee non solo ricorda il suo fatidico ingresso in guerra nella primavera del 1917, questo nuovo intervento tocca una realtà ben più importante: le differenze tra l'Europa e l'America che Jünger considerava difficilmente superabili. L'intuizione del poeta a proposito dell'inizio di una «guerra civile mondiale» trovò presto conferma. Pochi mesi dopo, nel gennaio del 1943, Roosevelt e Churchill annunciarono alla conferenza di Casablanca lo unconditional surrender, la «resa incondizionata». Si escludeva la possibilità di trattare con il nemico, pretendendo che le potenze dell'Asse si arrendessero senza condizioni. Durante una conferenza stampa, i signori della guerra fornirono la spiegazione dell'espressione «resa incondizionata». Il presidente americano illustrò la tradizione che stava alla base dello unconditional surrender. Parlò di Ulysses S. (U.S.)Grant - «unconditional surrender Grant» - il capo supremo delle armate del Nord durante la guerra civile americana, eletto in seguito presidente degli Stati Uniti, l'uomo che aveva imposto al Sud la resa incondizionata.

La resa incondizionata è una forma di sottomissione cui si assiste generalmente alla fine delle guerre civili. Queste guerre escludono un compromesso che permetta a entrambe le parti in causa di continuare a esistere, e ciò con la stessa logica che vieta la presenza contemporanea di due governi in un unico stato. Un'unica comunità sociale non può avere più di una fazione che eserciti i poteri dello stato e del governo. Il partito sconfitto deve abbandonare le sue rivendicazioni oppure soccombere. In una guerra civile le rivalità si acuiscono fino alla sconfitta totale, anzi fino all'annientamento di uno degli avversari. Generalmente le guerre civili sono caratterizzate da un antagonismo tra contenuti di fede, valori e diverse forme ideologiche, e tale antagonismo può contribuire ad accendere e a legittimare la violenza; l'intensità di tale violenza è dovuta però esclusivamente a quella costellazione che esclude a priori qualsiasi compromesso. L'obbiettivo dell'annientamento politico comporta una radicalizzazione quasi illimitata e segna una differenza fondamentale tra la guerra civile e la guerra tra stati. Gli stati sono in grado di riconoscersi a vicenda come avversari, dato che ogni stato è istituzionalmente distinto dall'altro. La violenza inflitta dall'uno all'altro è salvaguardata ed è sottoposta pertanto a una certa regolarità. Questa violenza non mira all'annientamento dell'avversario, ma si limita a sottometterlo, rispettando l'esistenza di entrambi i contendenti. Stato e guerra civile sono due concetti che si escludono a vicenda.

Nella realtà storica le guerre civili si presentano in forme diverse. Questioni confessionali e assiologiche, questioni ideologiche e di principio svolgono un ruolo importante. Pertanto tutte le guerre civili sono anche guerre di valori. Viceversa, una guerra combattuta tra stati in nome di determinati valori può essere caratterizzata da un'intensità tale da renderla simile a una guerra civile.

L'osservazione di Jünger non era dunque così lontana dal vero. Nel corso della sua storia, l'America è stata coinvolta perlopiù in guerre che, essendo state combattute per dei valori, per molti versi assomigliavano alle guerre civili. La tradizione che sta alla base di questi conflitti comincia con la guerra d'indipendenza dell'America, ovvero con una ribellione contro il re d'Inghilterra.

«No taxation without representation», fu lo slogati degli insorti. La guerra civile americana combattuta tra gli stati del Nord e quelli del Sud domina fino a oggi la memoria degli americani. Nella Prima guerra mondiale gli americani intervennero per rendere il mondo «safe for democracy». La Seconda guerra mondiale fu per loro una «crusade for freedom».

E la guerra fredda - un antagonismo tra Est e Ovest che si trascinò per quarant'anni - fu una guerra di valori sui generis. Inconciliabili, i princìpi di libertà e l'ideale di un'uguaglianza presa alla lettera, si affrontarono nell'arena del mondo.

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Inizialmente, la guerra doveva essere combattuta come guerra en forme e si prevedeva uno scontro armato di breve durata. Ben presto, però, cambiò il suo carattere e venne a mancare del tutto qell'autolimitazione nell'uso della violenza che era stata imposta alle guerre «restaurate» del XIX secolo. Questa guerra ruppe con tutte le restrizioni. Finché era possibile offrire al moloc della guerra risorse infinite, nulla sembrava opporsi alla sua durata illimitata. Infine l'intera economia delle collettività coinvolte venne messa a servizio della guerra. E più questa diventava totale, più assomigliava a una guerra civile.

La categoria della guerra civile basta per fornire una descrizione adeguata della guerra mondiale? Di fronte ai fatti accaduti durante la Grande guerra sorgono dubbi in merito a tale classificazione. Nonostante l'enorme dinamica di violenza non si vede un antagonismo tra due avversari che rivendichino, ognuno per sé, il possesso di tutta la verità, non c'è una lotta tra valori, idee e forme di Weltanschauung in contrapposizione - un aspetto che svolgeva invece un ruolo significativo nelle guerre tra confessioni, nelle guerre della Rivoluzione francese e nella Guerra civile americana. Non c'è neppure l'ombra di un conflitto di questo tipo, benché la propaganda di entrambi gli schieramenti contribuisse a favorire un'interpretazione del genere e per quanto i singoli governi pensassero di dover condurre, oltre allo scontro armato, una guerra delle idee. Gli sforzi e i sacrifici richiesti a tutti esigevano, ovviamente, una giustificazione per essere accettati. Era facile trovare le parole utili allo scopo. In quest'ottica gli «eroi» tedeschi si schieravano contro i «mercanti» inglesi, la superficialità francese combatteva contro la profondità del pensiero tedesco, il socialismo tedesco contro il dispotismo russo, la cultura contro la civiltà. Un'interpretazione storico-culturale delle mentalità politiche potrà forse scorgere nella guerra mondiale una lotta tra idee opposte; un'interpretazione del genere non corrisponde tanto alla realtà, quanto invece all'esaltata coscienza che le nazioni avevano di sé quando si accanivano sul campo di battaglia contro i rispettivi avversari. Soprattutto l'inimicizia anglo-tedesca dipinse immagini opulente dell'odio. Il Reich tedesco, per esempio, aveva una coscienza di sé che era, rispetto al resto d'Europa, molto moderna: si considerava come una potenza interessata a cambiare i rapporti di forza esistenti. Nel tentativo di assolvere a tale mandato, il Reich si vedeva ostacolato dall'Inghilterra, considerata come impero ostinatamente conservatore e garante dello status quo politico. Le tradizioni del razionalismo, dell'empirismo e dell'utilitarismo, interpretate con disprezzo come valori inglesi, venivano liquidate come meramente superficiali, addirittura, come ipocrisia, finzione e inganno, in breve come un «liberalismo borghese» i cui esponenti dovevano essere debellati. Di fronte a questa Germania che ostentava la propria superiorità, l'Inghilterra considerava se stessa come luogo della preservazione, fiera della propria missione di portare agli altri «la legge». Nella legge non si rispecchiavano solo le norme e i valori dello status quo rappresentato dall'Inghilterra così come era emerso dall'ordinamento del XIX secolo, e non soltanto il canone delle virtù di tale ordinamento, ossia il dovere, l'onestà, l'affidabilità, la stabilità sociale e le convenzioni dei modi cavallereschi. Agli occhi degli inglesi, questi valori pubblici venivano messi in dubbio dalla presunzione dello stato autoritario tedesco e dalla sua chiassosa modernità. C'era dell'altro: il Reich stava ormai svolgendo quel ruolo destabilizzatore che era stato precedentemente detenuto dalla Francia, madrepatria della rivoluzione. La Germania non aveva d'altronde alcuno scrupolo a imporre una strategia militare volta a determinare in qualunque modo una trasformazione basilare della vecchia Europa. La ragione bellica veniva prima della convenzione bellica. Per fini strategici, il comando supremo dell'esercito non si limitò a lavorare contro la coesione imperiale del suo avversario bellico a est per dividerlo in sezioni fatte di stati nazionali, ma interferì perfino sul suo ordinamento sociale, aiutando Lenin, e quindi i bolscevichi, a ottenere il successo rivoluzionario. Tanto la disgregazione dell'impero russo quanto lo scoppio della rivoluzione rispondevano all'obbiettivo tedesco di spezzare la costellazione di una guerra su due fronti.

Per la Germania la guerra divenne una lotta per la liberazione dalle convenzioni di un mondo e di una vita banali, identificati con l'«odiato nemico» Inghilterra, da un materialismo contrario a tutto ciò che è metafisico, da un mondo ignobile fatto di baratto, commercio e accumulo di denaro. La Germania voleva cambiare il mondo, l'Inghilterra si sforzava di preservarlo: era questa una lotta in cui, in ultima analisi, si scontravano passato e futuro. Di fatto si trattava di uno scontro tra due ordinamenti gerarchici legati a due epoche diverse: tra l'Inghilterra quale potere dominante del secolo che stava tramontando e la Germania che cercava di passare in testa alle forze del Novecento che stava cominciando. Vista così, la guerra mondiale può essere interpretata pure come guerra tra le culture europee o, per dirla con Franz Mare, come «guerra civile europea» combattuta contro un nemico interno e invisibile dello spirito europeo.

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Secondo un'interpretazione sociale della realtà, nel XX secolo si sarebbero scontrati due concetti legati all'Illuminismo ed emersi dalle rivoluzioni del tardo Settecento: libertà e uguaglianza. Il concetto di libertà assemblò innanzitutto i diversi aspetti della libertà dai legami tradizionali di tipo corporativo o sociale. Queste libertà si basano sul principio dell'individuo libero i cui doveri nei confronti della collettività valgono come espressione di una decisione volontaria e autonoma. Un siffatto contrattualismo continua a essere un segno distintivo della filosofia politica occidentale, e in particolar modo delle sue varianti anglosassoni. Il principio di uguaglianza, invece, originariamente inteso come parità nei confronti della legge, si trasformò progressivamente nel contrario della libertà. Questo cambiamento ebbe luogo perché, nei primi trent'anni dell'Ottocento e in seguito al manifestarsi di tendenze radicali insite nella Rivoluzione francese, i due concetti assunsero significati sociali contrapposti. Secondo la tradizione socialista e l'orientamento marxista, tale antinomia corrispondeva al contrasto tra borghesia e proletariato. Questi contrasti vennero successivamente trasposti in ambito internazionale, e le potenze si schierarono secondo i confini tracciati da questi diversi valori: l'opzione per determinati valori coincise con costanti geografiche e con tradizioni radicate in un periodo precedente a quel secolo. Gli ambienti di vita legati a diversi luoghi e le culture politiche scaturite da questi luoghi influenzarono a loro volta la struttura interna delle diverse collettività.

La differenza tra le culture politiche marittime e quelle continentali svolse per molto tempo un ruolo fondamentale. Le civiltà marittime, per esempio l'Inghilterra, erano storicamente propense a respingere il potere assoluto rappresentato dal monarca, a far valere la separazione dei poteri e a dar vita a una cultura più civile. La posizione insulare, un privilegio concesso dalla natura, preservò la collettività da numerosi contrasti ai quali erano esposti invece gli imperi irrigiditi nella forma dello stato autoritario continentale. I conflitti territoriali e gli eserciti permanenti imponevano alle collettività del continente forme di vita e costituzioni che non lasciavano molto spazio alla libertà del singolo. Eminentemente civili all'interno, le collettività marittime ricorrevano tuttavia all'esterno a forme di forza del tutto peculiari. Solo grazie all'intervento delle flotte e all'uso della capacità distruttiva che essi potevano esercitare in un rapporto di distanza fu possibile evitare l'implosione della cultura politica in forme di violenza immediata. L'uso della violenza era senz'altro totale, sia negli effetti prodotti dagli embarghi, sia nell'uso delle armi di lunga gittata, capaci di abbattersi indifferentemente sulle collettività nemiche. L'uso generalizzato dell'intervento aereo condotto con le cosiddette «armi spaziali» è una strategia che corrisponde, in linea di principio, alle modalità operative delle potenze marittime.

Nella Seconda guerra mondiale le potenze anglosassoni basarono le loro azioni contro la Germania e il Giappone in gran parte sull'effetto di armi di quel tipo. Sia le città tedesche rase al suolo dalla strategia delle incursioni aeree, sia il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki furono espressione di una strategia militare che si serviva degli sconfinati spazi aerei per annientare il nemico. Del resto, l'impiego di un'arma totale com'era appunto la bomba atomica ben si adattava alle condizioni di intervento di una potenza insulare costretta a operare militarmente a grandissima distanza. L'uso della bomba atomica avrebbe dovuto evitare la lunga guerra terrestre temuta dalle potenze marittime. All'interno del proprio paese, la cultura politica fu così preservata dal fall-out mentale della violenza: questa si rivolse all'esterno.

Paragonate alle potenze marittime e ai loro mezzi di aggressione utilizzabili a una distanza che garantisce la propria sicurezza, gli stati di tradizione continentale si trovano in condizioni assai peggiori. Per loro l'impiego per lo più tellurico della violenza rende la vicinanza fisica quasi inevitabile. L'immediatezza della violenza produce poi effetti di lunga durata sulla struttura interna della comunità sociale. Le potenze continentali sono per esempio costrette ad avere delle unità militari permanenti; in caso di stato d'emergenza, l'esercito assume mansioni interne proprie della polizia. Nello stato d'emergenza si manifestano le differenze tra le tradizioni marittime e quelle continentali; lo dimostra per esempio un confronto tra il martial law inglese sottoposto al potere giudiziario e l'état de siège francese che dipende dal potere esecutivo. Tradizioni diverse danno vita a scale di valori e si ripercuotono sulle rispettive istituzioni politiche.

In questo secolo, e soprattutto in seguito alle due guerre mondiali, le culture politiche del continente furono investite a più riprese dalle ondate di una «Rivoluzione atlantica». Si trattava soprattutto di valori e di forme politiche anglosassoni che, sotto forma di mentalità, costituzioni, concetti e categorie politiche particolari, si spinsero sempre più verso oriente permeando le civiltà continentali. Era inevitabile che questo spostamento da ovest a est comportasse l'adozione di elementi costituzionali e di strutture relazionali tipiche dell'area atlantica. In Germania questo fenomeno era osservabile dopo il 1918 e dopo il 1945; nell'Europa centro-orientale e nell'Europa dell'est lo si potrà notare dopo il 1989.

Questi elementi atlantici penetrarono nell'Europa continentale in due movimenti di diversa velocità. Il movimento del cambiamento culturale si spingeva lentamente verso est; il secondo movimento seguì la rapida evoluzione della storia politica. Le qualità costanti e culturalmente codificate caratteristiche della lunga durata nacquero dalla tensione tra l'elemento marittimo e quello continentale; i periodi politici di breve durata seguirono invece l'opposizione tra libertà e mancanza di libertà, tra autodeterminazione e autocrazia, tra democrazia e dittatura. Il XIX secolo era segnato dagli antagonismi geografico-culturali tra l'Inghilterra e la Russia e tra la Francia e la Russia. Nel XX secolo questa forma di dualismo fu sostituita e inasprita da uno scontro prevalentemente politico, caratterizzato da una forte carica ideologica, ossia dallo scontro tra le potenze della libertà e quelle dell'egalitarismo. Gli Stati Uniti seguirono le orme dell'Inghilterra e la Russia si trasformò nell'Unione Sovietica. Quando, nel 1989, dopo un periodo piuttosto breve, scomparvero quegli antagonismi ideologici, le tradizioni che si erano formate sul piano geografico-culturale emersero a maggior ragione con la prospettiva di conservarsi a lungo.

Si venne così a creare un complesso intreccio tra premesse geografico-culturali e impeto ideologico. Il contrasto tra i blocchi che seguì il 1945 fu un'espressione estrema di questa mescolanza.

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La Romania era una delle «Termopili della civiltà occidentale», la Polonia era l'altra. L'ondata della rivoluzione bolscevica si infranse contro la Polonia in una guerra che, nonostante il pathos della rivoluzione mondiale, aveva tutte le caratteristiche di un conflitto nazionale. Viscount D'Abernon, ambasciatore inglese a Berlino e capo della missione militare anglo-francese a Varsavia, scorse nella guerra polacco-sovietica del 1920 una delle battaglie decisive per le sorti della storia mondiale. Comunque si voglia valutare questa guerra quasi dimenticata, essa ebbe conseguenze decisive. Solo superficialmente questo conflitto portò a un accordo sui confini tra la Polonia e la Russia sovietica fissato nel trattato di pace di Riga del 1921. In realtà, questo conflitto segna il momento in cui la Rivoluzione russa cessò di proporsi come rivoluzione mondiale.

Definire nuove frontiere non significa soltanto tracciare delle linee. Nuovi confini sono espressione di profondi cambiamenti; nella fattispecie si tratta della trasformazione della Rivoluzione russa nello stato sovietico. La costituzione di questo stato rese necessaria una distinzione tra interno ed esterno che lo slancio rivoluzionario tendeva a ignorare. Dopo la guerra polacco-sovietica, l'Unione Sovietica, che pur aspirava alla rivoluzione mondiale, era comunque costretta a rispettare le modalità della diplomazia. L'accettazione delle norme dello stato comportò di fatto una svalutazione del Comintern, lo stato maggiore della rivoluzione mondiale. Ridivennero prioritarie le esigenze di una potenza statale. Colpisce il gran numero di decisioni fondamentali prese dalla politica sovietica in seguito alla guerra, alla conclusione dell'armistizio e al trattato di pace. Basti pensare alla rivolta dei marinai di Kronstadt, brutalmente repressa da Trockij: una sorta di guerra civile che palesò, all'interno del paese, la forma statale. Fu adottata una nuova politica economica, la NEP, che consolidò l'economia dopo la fine del comunismo bellico. Nel 1922 ci fu finalmente la fondazione formale dell'Unione Sovietica. A ben vedere, la svolta verso il «socialismo in un solo paese» fu compiuta successivamente alla guerra tra la Polonia e la Russia.

La fine della guerra polacca ebbe una rilevanza costitutiva per la politica estera sovietica. Oltre ai trattati commerciali stipulati nel 1921 con l'Inghilterra e la Germania, che rappresentavano delle aperture nei confronti dell'Occidente, divennero molto importanti i rapporti con la repubblica tedesca di Weimar. Al di là di tutte le divergenze ideologiche, emerse una singolare convergenza geopolitica tra la Germania e la Russia, gli stati banditi dall'ordinamento della pace di Parigi, quasi dovesse continuare quella «politica negativa nei confronti della Polonia», un tempo adottata da Prussia e Russia. L'avvicinamento tra Russia e Germania nacque, in effetti, dalla questione polacca e si manifestò con chiarezza nel trattato di Rapallo del 1922. A questo patto fece seguito il trattato di Berlino firmato nel 1926, una conferma della cooperazione tedesco-sovietica anche dopo l'ammissione della Germania alla Società delle Nazioni. Nel 1939 il patto tra Hitler e Stalin cancellò la forma statale della Polonia.

La guerra polacco-sovietica del 1920 rafforzò la coscienza nazionale dei polacchi formatasi durante il XIX secolo e, dopo la fondazione dello stato, definì l'estensione territoriale di questa collettività. In un certo senso può essere interpretata come una tardiva guerra d'indipendenza della Polonia contro la Russia imperialista. Questa guerra fu caratterizzata, da una particolare fusione di contrasti tradizionali di orientamento nazionale, da una parte, e una guerra ideologica tra valori contrapposti radicata negli avvenimenti del 1917, dall'altra. Le parti in causa interpretarono questo conflitto in modo assai diverso. Dal punto di vista polacco, il paese si era difeso con successo dal nemico secolare russo che, di nuovo attratto da Varsavia, era tornato questa volta vestito di rosso. Al «miracolo sulla Vistola» veniva attribuito un significato quasi metafisico. Sembrava quasi che nella guerra polacco-sovietica si fosse realizzato il telos nazionale della storia polacca. Nell'agosto 1920 l'avanzata contro la capitale della Polonia, guidata dal generale rivoluzionario russo Michail Tuchatscevskij, aveva ridestato tutti i ricordi della storia delle spartizioni e delle rivolte polacche del XIX secolo che la Russia aveva soffocato nel sangue. Per i bolscevichi, invece, si trattava innanzitutto di un'azione di difesa nei confronti di un nuovo fronte, aperto dai «polacchi bianchi», nelle guerre interventistiche controrivoluzionarie che erano state loro imposte dall'Intesa imperialista e dagli alleati.

Entrambe le interpretazioni di questi avvenimenti sono corrette. Le rispettive situazioni sono tuttavia ancora più complesse. Mentre alla parte polacca, presa dall'entusiasmo nazionale, era quasi del tutto sfuggito il carattere interventistico di questa operazione, i sovietici, da parte loro, cercarono di rafforzare il pathos basato sulla classe aggiungendo quello basato sulla nazionalità. Nell'atto di difendersi da un intervento dei controrivoluzionari «polacchi bianchi» apparentemente ispirato dagli intrighi dell'Intesa, i sovietici proclamarono una guerra patriottica a difesa della Rossija.

Questa guerra fece riemergere, come delle icone, i grandi eventi patriottici della difesa della patria, gli anni 1610, 1812, 1914 - l'occupazione polacca di Mosca, l'invasione napoleonica e l'inizio della guerra mondiale. Di fronte alla semantica delle guerre civili e interventistiche, basate sull'enfasi della lotta di classe, un simile linguaggio patriottico fu senz'altro un fatto nuovo. Il cambiamento della semantica politica si spiega però con l'importanza che la Polonia riveste per la memoria russa. Il fatto che i «signori» polacchi avessero nuovamente invaso la Russia provocò delle reazioni sorprendenti. Migliaia di ufficiali del vecchio esercito zarista si raccolsero sotto le bandiere (rosse). Disertori dell'Armata Rossa tornarono in massa. Aleksej Brussilov, al cui nome è legata l'unica offensiva russa riuscita in tutta la guerra mondiale, esortò alla difesa della patria.

Lo slogan «guerra ai proprietari terrieri polacchi» fu un omaggio a una forma incipiente di patriottismo sovietico: nazione e classe si intrecciarono. La parola d'ordine fu espressione del rancore che i contadini bielorussi e ucraini dell'area di confine nutrivano tradizionalmente nei confronti dei proprietari delle loro terre, che in maggioranza erano appunto aristocratici polacchi. Nella fase del vuoto di potere, questi ultimi si erano uniti in un «comitato per la difesa del confine» teso a salvaguardare i rispettivi interessi di ceto e di persone di nazionalità polacca. Più in generale, l'intreccio tra appartenenze sociali, etniche e culturali era una caratteristica molto visibile della zona di confine. Così i polacchi eliminarono di preferenza commissari bolscevichi e i sovietici liquidarono preti cattolici. Mentre nella guerra polacca gli slogan della lotta di classe assumevano sfumature nazionali, emersero dissapori tra gli stessi bolscevichi. Si pensi alle tensioni tra i due fronti sovietici: quello occidentale sotto Michail Tuchatscevskij e quello sudoccidentale sotto Aleksandr Jegorov.

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3. Regime: democrazia e dittatura



Il 27 marzo 1930 è una data decisiva per le sorti della storia tedesca contemporanea. In quel giorno cadde l'ultimo governo parlamentare della repubblica di Weimar: una data decisiva anteriore al 30 gennaio 1933, destinato a diventare un punto di riferimento storiografico negativo: il giorno della consegna del potere a Hitler. La seconda data dimostrò anche ai contemporanei che era avvenuto un passaggio, gravido di conseguenze, in una nuova epoca della storia tedesca. Il 27 marzo 1930 acquista un significato fatalmente infausto solo retrospettivamente e nell'interpretazione storiografica. Nelle dimissioni dell'ultimo gabinetto parlamentare, che era stato sostenuto dalla grande coalizione del cancelliere socialdemocratico Hermann Mueller, non era riconoscibile l'inizio della catastrofe. Quest'ultima fu resa universalmente visibile soltanto al momento del cancellierato di Hitler; prima si sarebbero susseguiti diversi gabinetti presidenziali, mentre la giostra della crisi di Weimar aveva cominciato a girare vorticosamente. Perché dunque sottolineare la data in cui crollò il governo Mueller, visto che i contemporanei non potevano rendersi conto della sua importanza storica che sarebbe emersa solo più tardi?

La risposta sta in una particolarità della storiografia su Weimar. Vi si nota un singolare atteggiamento: la ricostruzione dell'accaduto, realizzata con disciplinata oggettività, è accompagnata da una domanda impellente: c'erano alternative possibili a ciò che sarebbe effettivamente accaduto? Tanto nella questione delle eventuali alternative a Hitler, che è stata posta infinite volte, quanto nella ricerca sugli avvenimenti drammatizzati soprattutto in seguito come via crucis della storia tedesca contemporanea, emerge in continuazione la domanda se c'erano possibili vie d'uscita. In questo modo la storiografia su Weimar ha sviluppato una specifica modalità di porre i problemi: era davvero necessario che accadesse quello che è accaduto?

La domanda se ci fossero effettivamente alternative ai fatti realmente accaduti dimostra che la storiografia su Weimar è di natura eminentemente politica. Lo si desume anche dalla sua durata: la storia di Weimar si svolse in un lasso di tempo assai ridotto. Verso la fine di questo periodo l'interesse degli storici si focalizza su settimane, giorni e perfino ore. Il campo d'azione politico e costituzionale si restringe sempre di più e il numero delle persone che lo occupano cala in continuazione. Cresce l'importanza delle inclinazioni, ossessioni e idiosincrasie dei protagonisti in condizioni che si trasformano con ritmi crescenti. L'osservatore viene progressivamente attratto verso una realtà che rimanda ai modelli della politica di corte. Anche nell'esame della politica economica e sociale, dei movimenti ciclici congiunturali, delle ondate inflazionistiche e della disoccupazione, degli effetti prodotti da teorie economiche e da riflessioni sulla politica economica e finanziaria, sempre, l'interesse dei contemporanei che guardano indietro e quello dei posteri sconcertati è rivolto alla stessa questione subliminale e quasi epistemologica: era inevitabile che le cose andassero come sono andate? E non solo. La storiografia su Weimar è politica anche perché ricorre a un arsenale di esperienze canonizzate dalla seconda repubblica, quella di Bonn, e considerate valide per la dottrina costituzionale nonché per la cultura e l'agire politici. Almeno a partire dal 1949 Weimar era diventata l'incrollabile punto di riferimento della Repubblica Federale Tedesca: Bonn doveva diventare ciò che Weimar non aveva potuto essere. In questo modo Weimar fu elevata al rango di un istituto di esperienza storica costitutivo della seconda repubblica. Non sarebbe dovuto accadere mai più ciò che era accaduto allora.

Le conclusioni politiche tratte dall'esperienza storica di Weimar produssero poi una pioggia di dottrine secondarie. Certezze storiche reali o presunte acquisite in merito a quel passato portarono ai risultati storiografici che si impressero profondamente nell'autocoscienza della seconda repubblica tedesca. Una di queste certezze storiche su Weimar accettate ormai per abitudine riguarda innanzitutto la tematica della democrazia o, per essere più precisi, la netta contrapposizione tra democrazia e dittatura. Questa dicotomia viene presentata come una sorta di contrassegno del periodo interbellico, un contrassegno che sarebbe valido ben al di là dei confini tedeschi. Essa è uno dei risultati fondamentali dell'esperienza di quell'epoca. Dopo il 1945, le società «postfasciste» d'Europa, e soprattutto la Repubblica Federale Tedesca, avevano bisogno di una secca contrapposizione politica tra democrazia e dittatura, anche ai fini di una «rieducazione popolare». Tuttavia alla luce di un esame più approfondito, sembra difficile che i risultati derivati da tale contrapposizione possano spiegare appieno l'insorgere della dittatura nazionalsocialista. Se si considerano la forma compiuta del nazionalsocialismo, che si manifestò solo più tardi, e gli orrendi crimini contro l'umanità perpetrati da quel regime, una spiegazione imperniata sulla contrapposizione tra democrazia e dittatura non appare molto convincente. Sarebbe opportuno chiedersi se, di fronte alla catastrofe scaturita da Weimar e dalla disgregazione delle opzioni repubblicane e parlamentari avvenuta negli anni 1930-1932, non si debba forse partire da una prospettiva storica basata sulla contrapposizione tra dittatura e dittatura e non invece da una dicotomia, idealmente definita, tra dittatura e democrazia. Per comprendere la fine di Weimar una prospettiva del genere potrebbe contribuire a chiudere il divario, eccessivo per la ricostruzione di causalità politiche, tra un discorso sulle strutture che si spinge fino agli avvenimenti del XIX secolo cercando di illustrare la «via particolare» percorsa dalla Germania da una parte e i dati storici emersi alla fine della repubblica di Weimar dall'altra. La questione di una via particolare tedesca si porrebbe in modo meno drammatico se si smettesse di cercare i presupposti di eventi abbastanza recenti sempre in un lontano passato. Tutto ciò non toglierebbe nulla alla forza inquietante delle questioni di continuità e contingenza, di necessità e caso e, in ultima analisi, della domanda di quale natura fossero le condizioni che portarono al più grave di tutti i casi gravi possibili. Anche in una prospettiva spostata dall'opposizione dicotomica tra democrazia e dittatura alla contrapposizione tra dittatura e dittatura - ossia, vista la radicale realizzazione del nazionalsocialismo, in una prospettiva del tutto cambiata - resta la domanda se le cose dovessero davvero andare così come sono andate.

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4. Cataclismi: memoria e genocidio



Il 15 maggio 1919 pone una grave ipoteca sulla triste cronaca dei rapporti tra greci e turchi. In quel giorno le truppe greche approdarono nella città di Smirne nell'Asia minore. Poco tempo prima le stesse unità facevano ancora parte delle forze d'intervento antibolsceviche inviate, sotto comando francese, nella Russia meridionale; ora, invece, provviste di un mandato del consiglio supremo delle potenze alleate e associate di Parigi e accompagnate da formazioni navali inglesi e americane, dovevano assumersi una missione nazionale. Con il pretesto di prevenire un intervento italiano nell'Anatolia occidentale, le truppe greche cercarono di conquistare per lo stato nazionale greco in fase d'ampliamento quel territorio ricco di antiche memorie ellenistiche, abitato da greci ortodossi e da turchi musulmani.

Le loro aspettative vennero deluse. L'attacco greco-nazionale alla regione di Smirne e l'avanzata all'interno del paese terminarono con un'amara sconfitta inflitta ai greci dai turchi nazionali comandati da Mustafà Kemal. In seguito a questi eventi più di un milione di abitanti di etnia greca fuggirono o vennero scacciati dall'Anatolia dove si stava formando uno stato nazionale turco. Le velleità di ispirazione panelleniche precipitarono la popolazione greca in una catastrofe.

L'impresa che terminò tragicamente con la fuga e l'espulsione dei greci dall'Asia minore, dalla Tracia e dal Ponto, non era iniziata sotto buoni auspici. Era stata segnata da una sanguinosa strage perpetrata dalle forze armate greco-nazionali nei confronti della popolazione turca di Smirne. Il giorno in cui, vicino a un edificio amministrativo ottomano abbandonato, qualcuno sparò un colpo verso le due colonne di truppe elleniche in marcia dal porto verso il centro della città, ci fu un massacro. I militari greci aprirono subito il fuoco e spararono indistintamente sulla folla. I soldati ellenici, non conoscendo le usanze del luogo, avevano scambiato il fez, comunemente portato dagli uomini di quelle zone, per un copricapo esclusivamente musulmano e turco. In effetti, nelle guerre balcaniche e soprattutto nel novembre 1912, quando i greci conquistarono Salonicco in Macedonia, la popolazione musulmana riconoscibile dal fez era stata isolata e cacciata nelle regioni orientali. A Smirne, nell'Asia minore, la carneficina durò per due giorni, durante i quali i greci del posto si distinsero saccheggiando e incendiando le case e gli averi dei loro vicini musulmani; in quell'occasione il fez scomparve dalle teste di tutti, musulmani, greci, armeni o ebrei che fossero.

La violenza scoppiata a Smirne tra questi gruppi etnici si estese alle zone circostanti. Incitati dalle notizie sulle atrocità commesse dai greci nei confronti dei musulmani, turchi indignati di Aydin e dei villaggi vicini si vendicarono ferocemente sui loro compaesani greci. La popolazione greca fu colpita da un'orgia di violenza. Senza alcuna distinzione furono trucidati uomini, donne e bambini. Più i combattimenti tra greci e turchi penetravano nell'interno del paese e più le crudeltà assumevano i caratteri di un'operazione ben organizzata, soprattutto quando ci si aspettava un'offensiva militare del nemico e quando si profilava una sconfitta. La violenza usata nei confronti della popolazione avversa si sprigionò come pulizia demografica lungo linee di confine che si spostavano in continuazione o come cieca brama di vendetta in seguito alle sconfitte subite.

La strategia militare, che comprendeva azioni di «pulizia etnica» e la cacciata di parti della popolazione da un luogo del paese all'altro, faceva pensare alla violenza delle guerre balcaniche combattute negli anni 1912-13. Mentre nell'Anatolia degli anni 1919-1922 si affrontavano ortodossi e musulmani, ovvero greci e turchi, la situazione era molto più complessa in Macedonia, a quei tempi patria di un maggior numero di etnie. Durante la seconda guerra balcanica, che vide anche la partecipazione della Turchia, furono soprattutto comunità sociali ortodosse a battersi per il possesso di territori che esse avevano prima sottratto all'impero ottomano. Si trattava di una strategia militare di tipo etnico soprattutto perché le parti coinvolte difendevano le loro rispettive rivendicazioni territoriali, pretendendo di dover liberare i «compatrioti» delle diverse popolazioni macedoni definite in base alla lingua parlata, alla chiesa di appartenenza o a qualche origine fittizia. Per esempio i pomachi, una popolazione musulmana di lingua slava, venivano spacciati per figli perduti della Bulgaria, che, originariamente cristiani, in un lontano passato sarebbero stati costretti a convertirsi.

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5. Dualismi: decolonizzazione e guerra fredda



I1 21 febbraio 1947, un venerdì, nel tardo pomeriggio, poco prima della chiusura degli uffici, Loy Hendersen, capo del nuovo dipartimento Near Eastern and African Affairs presso lo State Department, ricevette una telefonata urgente proveniente dalla rappresentanza inglese di Washington. La telefonata annunciò la visita del primo segretario dell'ambasciata. Dopo appena mezz'ora arrivò l'automobile di Herbert M. Sichel che consegnò due documenti di portata storica: la comunicazione formale con cui il governo inglese annunciava che il 31 marzo avrebbe posto termine al suo impegno nei Balcani e nel Levante; l'allegato alla nota specificava che l'Inghilterra si vedeva impossibilitata nel continuare a sostenere la Grecia e la Turchia.

Dal punto di vista storico, quella visita, che si svolse secondo le modalità di una procedura diplomatica di routine, porta i segni di una svolta epocale. Il bastone del comando nella gestione di un dominio planetario passò dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti: una transatio imperii dell'età contemporanea. Non solo le insegne di questo impero passarono da una potenza marittima all'altra, questo passaggio trasformò anche l'intera codificazione semantica degli avvenimenti mondiali, sostituendo le tradizionali cifre geopolitiche della filosofia dell'equilibrio con il linguaggio dei valori ideologici. A partire da quel momento l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti si dovettero affrontare nell'area, da sempre critica, degli stretti, sui confini tra la Grecia e la Turchia; era avvenuta una sorta di aggiornamento dello storico antagonismo tra Russia e Inghilterra. L'antagonismo ideologico tra Est e Ovest partì dalla zona dei contrasti europei e imperiali tradizionali che si estende dai Balcani fino all'Asia centrale e partendo da lì diventò globale. La contrapposizione tra Est e Ovest divenne un fenomeno onnipresente. L'area degli stretti è la culla della guerra fredda. Il suo atto di nascita fu stilato il 12 marzo 1947 dal presidente americano Harry S. Truman in un discorso, tenuto davanti alle camere riunite del Congresso, che suscitò grande scalpore. Truman chiese di sostenere la Grecia e la Turchia. Allo stesso tempo annunciò la disponibilità degli Stati Uniti a impegnarsi per i principi della libertà ovunque questa fosse minacciata dal dominio totalitario. Senza nominare l'avversario sul campo della politica mondiale, il presidente americano parlò della contrapposizione tra due modelli di collettività: uno che si fondava su istituzioni liberamente scelte e un altro nato dalla violenza esercitata da una minoranza. In quella situazione della storia mondiale — queste le parole del presidente americano - ogni nazione avrebbe dovuto scegliere tra uno dei due modelli di società. Truman promise l'aiuto degli Stati Uniti a tutti coloro che si opponevano ai soprusi. Soprattutto le collettività della Grecia e della Turchia, ritenute più esposte a una situazione di rischio, avrebbero goduto di un generoso aiuto.

La «dottrina Truman» e il piano Marshall per la ricostituzione economica dell'Europa, annunciato a giugno, incontrarono ben presto l'opposizione dello schieramento orientale che a sua volta si stava costituendo politicamente. Nel settembre 1947 i rappresentanti dei partiti comunisti europei decisero di fondare il cosiddetto Cominform. Per venire incontro ai suoi alleati occidentali, nel 1943 Stalin aveva sciolto il Comintern. L'istituzione dell'Ufficio di informazione comunista indicò la riattivazione del contrasto ideologico sospeso durante la guerra. Per Zhdanov, responsabile per l'ideologia e la propaganda, si trattava di due mondi contrapposti: da una parte lo «schieramento imperialista e antidemocratico» e dall'altra lo «schieramento antimperialista e democratico». Con questa «dottrina dei due mondi», per certi versi simile a una dottrina teologica, lo schieramento comunista rispose alla sfida della dottrina Truman. Il contrasto in atto sul piano della politica dei rapporti di potere venne convertito in un contrasto ideologico.

La dottrina Truman segnò la fine dell'era isolazionistica dell'America e l'inizio di una politica di interventi attivi. Per il mondo questa svolta introdusse l'epoca della guerra fredda che per quarant'anni avrebbe creato una contrapposizione tra Est e Ovest, un bipolarismo sostenuto dalle armi nucleari. Tra i blocchi era poi osservabile una fusione tra due livelli conflittuali: il contrasto tra sistemi di potenza articolato secondo i vecchi modelli e la rivalità ideologica veicolata da diversi sistemi di valori e visioni del mondo. L'universalizzazione del contrasto si spiega a partire dalla componente ideologica. Questa contrapposizione non ha limiti nello spazio: incide all'interno della comunità politica così come al suo esterno. Colpisce invece il fatto che il contrasto mondiale si consolidasse proprio in quell'area geografica dove per generazioni si era registrato a livello mondiale lo scontro tra la grande potenza continentale della Russia e quella marittima dell'Inghilterra.

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