Copertina
Autore Renzo di Renzo
Titolo Un motivo privato
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007 , pag. 128, cop.ril.sov., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-317-9151-9
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe narrativa italiana
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Indice

  9 Il morto in fondo al serbatoio
 21 Il fantasma sul prato del golf
 31 La dama che ama il ballo
 43 Il signore che beve come un matto
 53 L'aspetto affaticato, l'emicrania, il sospiro
 61 La voce argentina che canta dal convento
 71 L'odore che viene dai sambuchi
 77 Le stampe di caccia nell'ingresso
 87 Le gare di croquet in estate
 99 La tosse, il bacio, la stretta di mano

    Coda

111 Un motivo privato

 

 

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Pagina 9

Il morto in fondo al serbatoio



Ogni notte, prima di addormentarsi, l'ultima cosa che vede è una macchia di umidità sul soffitto che prima o poi dovrà decidersi a dipingere. Ogni mattina, al risveglio, quella macchia è ancora la prima cosa che vede. Sono passati sei anni eppure ogni volta è come se fosse passata una notte sola. Gli sembra ancora di sentire quella voce, dietro la porta di casa, ma non ricorda più le parole. Del resto era solo una canzone, una stupida filastrocca: una storia di animali, gli pare.

Ha sete. La cucina è a cinque passi. Il bagno a due. L'appartamento di sopra deve essere esattamente uguale al suo. Anche la disposizione dei mobili deve essere la stessa. O almeno così a lui sembra. E certo saprebbe muoversi a suo agio anche lì, come quando di notte ci si alza al buio o quando si ricorda con le mani il viso di una persona amata e non c'è nessuna ruga nuova da contare, nessuna storia da raccontare.

A lui piaceva molto immaginarsi le cose da fuori. Gli capitava di pensare alla sua stessa vita come uno spettatore. Gli piaceva ascoltare i discorsi assonnati della colazione, con la bocca ancora impastata dalla notte appena trascorsa. Sentiva i saluti distratti e i baci dati in fretta prima di uscire. Poi la porta che si apriva per richiudersi un attimo dopo e all'improvviso aveva l'impressione non solo di sentire, ma di "toccare" il silenzio di qualcuno che restava solo. La vedeva seduta in cucina, le gambe leggermente divaricate, ma ormai senza desiderio, i gomiti sulle ginocchia e le mani sul viso, e gli sembrava di riconoscerne il respiro. Avrebbe voluto rientrare e baciarle gli occhi, ogni volta, per poterla consolare.

Ha sete. La cucina è a cinque passi. Il bagno a due. Da sopra gli arrivano suoni familiari e quotidiani. Il rumore di fondo della vita che scorre, niente di più: tutto così straordinariamente normale. Fino a che succede o non succede qualcosa.

Quella sera aveva deciso di parlare. Stava seduto come sempre nella sua poltrona preferita, quella con i braccioli consumati che gli piaceva sfiorare. Sentiva il velluto liso e si ricordava tutte le parole dette facendo quell'identico gesto della mano. Un movimento continuo, avanti e indietro, non una carezza, piuttosto una prova della sua esistenza, un segnale di vita, fisico e immateriale allo stesso tempo. Parlava con il mento appoggiato al torace, ma non per paura o pudore. Pesava le parole e le faceva uscire lente ma decise, accompagnandole come ospiti che si sono trattenuti troppo a lungo. Parlava a qualcuno che ormai non c'era più, che se n'era andato per sempre e forse non c'era mai stato. Cento, mille volte ancora sentirà la porta aprirsi e cigolare – come avrebbe voluto, ora, averla fatta riparare. Cento, mille volte ancora sentirà il vento freddo provenire dall'ingresso, come un cambio di stagione inaspettato, che ci sorprende con addosso solo un maglione. Cento, mille volte ancora la vedrà scendere le scale di corsa e inciampare, anche se non è mai successo prima e di sicuro è qualcosa che non ha visto.

Ha sete. La cucina è a cinque passi. Il bagno a due. Sente il rumore violento di una porta che si chiude. Se c'è ancora qualcuno, in quella stanza buia, ora, sta parlando da solo e sottovoce.

Certo non avrebbe dovuto pronunciare quella parola, anche se lui si riferiva soltanto alla conversazione. Si era imposto di restare calmo, di guardare le cose da fuori come era solito fare. Forse non avrebbe dovuto mostrarsi così lucido e razionale. Lei non lo sopportava e più lui le diceva è così, non possiamo farci niente, più lei gridava, e gridava di no, che non era vero. E comunque almeno era qualcosa: suoni, urla, parole. Non come adesso. Non come questo buio innaturale. Quando non c'è più niente da guardare, anche il silenzio diventa insopportabile.

Se andavano a trovare í loro amici inciampavano sui giocattoli, distruggevano plastici, macchinine. Guardavano tutti quegli orribili disegni appesi alle pareti e dovunque, e tiravano un sospiro di sollievo. Non sopportavano gli adesivi sulla porta del bagno, le collezioni di mostri, la consolle della play station che ti si piantava nella schiena ogni volta che provavi a sederti sul divano, il tavolo sporco di pennarelli. Eppure, rientrando a casa, guardando quelle pareti perfettamente bianche, i libri ben ordinati, almeno per un attimo avevano la spiacevole sensazione di entrare in un ospedale, ma non ci facevano caso più di tanto, ormai. Era la loro casa, la loro vita: tutto qui. Senza saperlo, forse senza nemmeno volerlo, si stavano semplicemente adeguando alla loro situazione.

E poi, all'improvviso, tutto cambia nuovamente, e devi ricominciare. Reload.

Ha sete. La cucina è a cinque passi. Il bagno a due. Da sopra arrivano dei rumori assordanti e fastidiosi. C'è un grande movimento e una grande euforia. Spostano mobili. Modificano gli angoli. Cambiano colore alle pareti.

Certe notti, lei senza accorgersene cominciava a parlare nel sonno, chiedeva: «Cosa mi hai fatto? Cosa mi sta succedendo? Cos'è questo corpo estraneo che si muove dentro, questa escrescenza immonda? È un cancro, lo so: un tumore, un parassita, un verme, e io sto soltanto morendo piano. È qualcosa di te, qualcosa che mi succhia il sangue dalle vene azzurre, e mi toglie il respiro. È colpa tua, solo colpa tua...» Allora lui cercava di tranquillizzarla, le accarezzava i capelli, le baciava gli occhi, le diceva: «Non è niente amore, niente, è solo un brutto sogno, non ti preoccupare...», e la mattina dopo lei sorrideva come se davvero non fosse successo niente. Gli diceva: «Hai la faccia stanca, dovresti approfittare di dormire, adesso, perché poi, lo sai, non sarà più così facile...» Lo abbracciava da dietro e lo chiamava papà. Avrebbe dovuto capirlo.

Ha sete. La cucina è a cinque passi. Il bagno a due. C'è musica nella stanza di sopra, e in sottofondo una bambina che ride. Quasi inconsapevolmente si trova anche lui a muovere le mani come piccoli serpenti o un'aquila reale.

Alla fine, inevitabilmente, avevano scelto il rosa. Dietro alla porta c'erano dei segni sul muro per misurare l'altezza; vicino al lettino, una lampada con una giostra che girava e girava senza fermarsi mai. Le pareti delle altre stanze però le avevano salvate. Fortunatamente a lei non piaceva disegnare. Ogni sera lui per addormentarla provava a inventarsi una storia diversa, ma lei chiedeva sempre la stessa. Si era perfino informato su cosa fossero davvero quei due liocorni che nessuno aveva più visto, perché alla fine, lo sapeva, lei glielo avrebbe chiesto e lui non doveva dimostrarsi impreparato. Un padre sa sempre tutto. Quasi tutto.

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Pagina 35

Ancora adesso non so come sia potuto succedere. Erano quasi le nove. Come ogni sabato eravamo usciti per andare a ballare. Guidavo io, naturalmente. E di sicuro stavo chiedendoti se avevi controllato il gas, abbassato le serrande, preso le chiavi: la mia solita, noiosa check-list prima di partire, eppure così importante per te, per noi. Tu mi prendevi in giro, lo so, ma se per caso io non avessi pronunciato quelle parole, una sera soltanto, tu avresti cominciato a pensare che tutto ormai era diverso e non aveva più senso nulla, nemmeno stare insieme. Credo di averlo pensato anche quella sera, mentre tu rispondevi paziente di sì. Subito dopo era buio. C'era un sibilo strano, come una pentola a pressione. Fumo. Un silenzio assoluto reso ancor più profondo e irreale da una stupida marcetta, una polka di Casadei in sottofondo. Mi sono girato istintivamente a guardarti. Eri coperta dalla polvere bianca del nostro airbag. Qualche segno sul viso ma niente di preoccupante. Forse è solo il trucco, ho pensato. Hai sorriso.

Che cos'è stato? Cos'è stato? Ricordo che avevo tirato fuori il rossetto dalla borsetta e stavo rispondendo meccanicamente alle tue solite domande. Come sempre, mi avevi fatto fretta e dovevo finire di truccarmi in auto, aiutandomi con la luce di cortesia e lo specchietto sul retro dell'aletta parasole... Non l'ho pensato neanche un istante: il semaforo non poteva proprio essere rosso, anche se in quel momento non stavo guardando la strada. «Mio marito non ha mai nemmeno parcheggiato in divieto di sosta, figuriamoci...» provavo già a spiegare. Forse è stato un guasto, il passaggio di una cometa che ha creato un campo magnetico. Si, di sicuro è stato un guasto. Oppure un cane che è passato senza guardare. Purché non ti tolgano la patente, purché si possa ancora ballare...

Quando siamo in un bar o al ristorante ordini sempre una coca cola alla spina, «mi raccomando». Ora non sopporti nemmeno più il rumore delle lattine che si aprono. Nessun suono metallico. Io non potevo muovermi. Quando ho visto che ti alzavi ho provato a dirti qualcosa ma nessun suono è uscito dalla mia bocca. Ho pensato che eravamo vivi, solo questo.

Sono rimasta un po' in silenzio. Non sapevo cosa dire. Non mi veniva in mente niente. Stavo lì. Sorridevo. Sentivo qualcuno che si lamentava sull'altra auto, perché di sicuro doveva essere stato questo: un incidente, uno scontro. A meno che non ci fosse davvero crollato addosso il mondo. Non riuscivo a capire le parole. Mi sembrava parlasse di un appuntamento. Allora semplicemente mi sono tolta la cintura, ho spinto la portiera che è caduta a terra quasi da sola, e sono uscita.

Quando sono arrivati i primi soccorsi io ero ancora incastrato al posto di guida. Di te avranno pensato che eri stata sbalzata fuori dall'impatto. Eri distesa accanto all'altra auto. Immobile. Ma io ero sicuro di averti vista uscire e camminare.

Mano a mano che mi avvicinavo mi sembrava di cogliere meglio le parole. Era la voce di una ragazzina. Chiedeva aiuto. Diceva: «Io devo andare alla stazione, per favore, devo assolutamente andare alla stazione, ho un appuntamento, alle nove, sì, non ho più molto tempo, per favore, non sento più le gambe, non credo di potercela fare da sola, qualcuno mi può aiutare? Per favore...» Continuava a ripetere: «Ho un appuntamento, un appuntamento... è importante... davvero...»

Mi hai raccontato questa storia solo una volta. Poi non ne hai mai più voluto parlare. Se anche adesso, all'improvviso, fermassi la carrozzina qui, in mezzo al parco, ti venissi di fronte e guardandoti dritta negli occhi ti chiedessi qualcosa dell'incidente, tu faresti il tuo solito gesto con la mano, un gesto così, come per scacciare una mosca o un cattivo pensiero: «Ma quale incidente? Smettila dai, e portami a ballare...»

Ci hanno ricoverate nella stessa stanza, nello stesso ospedale. Lei mi parlava di un piccolo paese di montagna, di un vecchio amico di infanzia e io non potevo fare a meno di pensare a te. Alla nostra vita insieme. A tutto quello che sarebbe potuto succedere. O meglio: "non" succedere. Quando finalmente anche tu sei riuscito ad alzarti e a venirmi a trovare, ti ho detto soltanto: «Io non voglio mai più ballare. Mai più». E dall'espressione sul tuo viso ho capito che sarebbe stato così davvero.

Il dottore ha detto che non avevi nessuna lesione apparente. Che era tutto normale. Eppure da quel giorno non ti sei più ripresa. La diagnosi era piena di parole complicate per spiegare qualcosa che non riuscivano a capire. «Tecnicamente...» mi dicevano. «Tecnicamente» ripetevo io e pensavo: «Peccato solo che non siamo macchine, noi...»

Non era così che credevo di invecchiare. Non così. Eppure guarda come stiamo bene insieme, io e il mio fido scudiero. Don Chisciotte e Sancho Panza. Ridicoli forse, patetici mai. Adesso sì che siamo una cosa sola, noi. Una specie di mostro mitologico a due teste, quattro braccia e due ruote, uno strano tipo di centauro. Adesso non ci sarebbe problema ad incrociare i passi, perché i passi sono solo i tuoi. Non dovresti nemmeno preoccuparti di pestarmi i piedi, come succedeva le prime volte. Pensa che giri di valzer potremmo fare, così.

A volte, mentre ti spingo lungo i viali del parco, persi ognuno nei nostri pensieri, come adesso, accenno a un piccolo passo di danza. Mi appoggio con le mani agli appigli della carrozzina e batto i tacchi. Tu forse stai pensando a Don Chisciotte e Sancho Panza, lo so. Ma per un attimo siamo invece Fred Astaire e Ginger Rogers. E anche questa è una musica.

Per un po' ti ho assecondato. Mi costringevi a consulti, terapie. Siamo stati persino da un mago, uno di quelli della televisione. Ci davamo un contegno. Improvvisamente andavamo a tutti gli eventi mondani. Non potevamo mancare a un'inaugurazione. Firmavamo appelli sociali. Gli amici ci chiamavano sempre, eravamo l'attrazione del momento, il nano e la sua ballerina storpia.

Mille volte ho immaginato il momento in cui ti saresti alzata, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mille volte ti ho vista aspettare muta un mio gesto, come chi sa e non chiede. Allora ti avrei preso semplicemente le mani e ti avrei trascinata al centro della stanza. Ti avrei detto soltanto: «Balliamo questo silenzio, ora, questo buio che si dipana, questo tempo scostante che il nostro respiro incrina».

Io non lo so perché è successo. So solo che non è successo a noi. Noi siamo altri noi, adesso. Per sempre.

A poco a poco la speranza di vederti guarire si è dissolta. I dottori continuavano a insistere che non dovevamo rassegnarci, che non bisognava aver fretta e il tempo avrebbe fatto il suo dovere: è per questo che i malati si chiamano "pazienti"? E poi, davvero, qual è il dovere del tempo se non quello di passare? Sempre e comunque: passare. Lento come acqua di fiume o veloce come una bugia detta male. In ogni caso: passare.

Siamo stati felici. Forse lo siamo ancora. Da giovane mi ero sempre chiesta per quanto tempo ancora si potesse sognare. E se i sogni avessero davvero qualche legame con la realtà o fossero tutta un'altra cosa. Ora lo so. Ancora adesso, certe notti, mi capita di sentire una musica lontana.

Io continuo a ripensare alla tua frase quel giorno in ospedale: non era affatto rassegnazione, lo so, era fredda determinazione. Eppure ogni sera, dopo che ti ho alzata di peso dalla carrozzina e ti ho messa a letto, mi raddrizzo la schiena e resto a guardarti per un po'. Aspetto che ti addormenti e poi, di nascosto, accendo la radio a basso volume, casomai nella notte ti dovesse venir voglia di alzarti e ballare.

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Pagina 71

L'odore che viene dai sambuchi



Ho detto a George di aspettarmi lì, nel punto esatto in cui ci incrociamo, durante le nostre quotidiane passeggiate. Abbiamo preparato il piano con cura, scambiandoci sguardi e messaggi cifrati. Chiedo a Valentina se mi vuole accompagnare e lei si avvicina alla porta: ubbidisce con cura.

George — che stupido nome: d'ora in poi lo chiamerò Tomahawk — è vecchio e molto malato. L'ho capito dai messaggi che lasciava. In qualche modo mi ha raccontato tutta la sua storia. Ad esempio di quando le nuvole riusciva a chiamarle per nome, correndo più veloce di loro.

Ci siamo conosciuti così, come si conoscono i cani: annusandoci il culo. Non posso dire che fosse amore - e del resto chi può dirlo davvero. Ma Tomahawk mi ha insegnato molte cose che prima o poi mi serviranno, lo so. Per il momento le ho nascoste bene, in una buca del cuore.

A Valentina piacciono molto i giardini. A casa siamo pieni di fiori e lei passa il tempo ad annusarli. Credo sia innamorata e credo di aver capito di chi. Mi obbliga sempre a fare degli strani giri. Si ferma all'improvviso e non si muove più.

Appena l'hanno saputo, gli amici hanno deciso di aiutarmi. Tomahawk, in fondo, è un po' come se fosse nostro padre. Si siede tranquillo, ci guarda correre e quando siamo stanchi è come sederci attorno al fuoco ad ascoltare le sue storie.

Lui non sopporta le divise. Ho sentito dire che è per colpa di un vecchio incidente, quando abitava vicino alla ferrovia. Ha preso un brutto colpo e quando ha riaperto gli occhi la prima cosa che ha visto è stato il capostazione. Io non credo sia andata così. Lui non sopporta le divise e basta, così come non sopporta nessun tipo di legame.

Tomahawk ha combattuto molte battaglie. Per ognuna ha conservato un segno, a volte solo un ricordo. Ma le battaglie più belle, dice, sono quelle che ha saputo evitare, che non ha mai iniziato, e che non può raccontare.

C'è un punto, all'altezza della prima strada, in cui è solito lasciarmi un messaggio. Su quello di ieri c'era scritto «la luna calante è per domani: poi sarà buio e io sarò solo una strada». Io vorrei essere la luce alla fine della strada.

Quando sento il profumo dell'aria anch'io penso che un tempo siamo stati nuvole: è un pensiero di Tomahawk, naturalmente. È proprio come tornare a casa. Siamo stati vento: per questo abbiamo ancora il respiro pesante. Sappiamo riconoscere l'odore dei sambuchi.

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