Autore Paolo Di Stefano
CoautoreMassimo Siragusa [fotografie]
Titolo Respirano i muri
EdizioneContrasto, Roma, 2018 , pag. 152, ill., cop.rig., dim. 16,5x23x1,8 cm , Isbn 978-88-6965-733-7
PrefazioneGoffredo Fofi
LettoreElisabetta Cavalli, 2018
Classe narrativa italiana , fotografia , regioni: Sicilia , regioni: Lombardia









 

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Indice


Introduzione di Goffredo Fofi               7


Le case, le cose                           25


Le case (e le cose) perdute               101


Le immagini                               147


Note biografiche                          151
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Pagina 25

Le case, le cose

Respirano i muri come respirano gli uomini e le donne. Respirano le case, assorbono l'aria, il fiato, l'alito, l'odore di chi le abita, gli urli, i pianti, le risate, i corrugamenti facciali, i gesti e gli sguardi dei vecchi, gli scatti d'ira e gli slanci di gioia, gli aromi del cibo e dei ricordi, l'acido, il chiuso dei vetri, le confidenze, l'intimità che si libera dalle bocche dagli occhi dalle mani. E i nostri polmoni respirano quei muri, intonaci scrostati, mattoni sfarinati, tufi rosi dalla salsedine. Respiriamo le cose, le case, e le case inspirano le nostre parole che, se capita, diventano memoria. Così, uomini e muri, siamo fatti della stessa materia polverosa. Ma l'odore. Riconoscerei le case in cui ho vissuto dall'odore: l'odore dei corpi, dei nostri corpi, che si mescola all'odore dei legni, dei pavimenti, dei marmi, delle pareti, delle tende, dell'aria che filtra dalle finestre, delle finestre e delle porte, della luce.

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Che cosa si salva di una casa? I muri assorbivano il tanfo di pecora. E anche i nostri polmoni, quando andavamo a trovare i nonni paterni: cavagne di ricotta, siero, formaggi pendenti. Per esempio, dov'è finita la credenza del nostro tinello che occupava una parete di corso Gaetano D'Agata? Ante bianche con due oblò al centro, cornici di un verde pallido, la credenza aveva nella parte superiore due lunghi vetri scorrevoli. Da quando nostro padre, alla vigilia di una delle tante partenze verso nord, cedette il mobile ai suoi genitori afflitti e inconsolabili per il distacco, quei vetri scorrevoli servirono a trattenere le cartoline illustrate spedite dal continente. Prima dalla Brianza manzoniana, poi dalla Svizzera: erano laghi all'alba o al tramonto, giochi di luci sul lago, fontane zampillanti, la fabbrica della Moto Guzzi, Lugano by night, il Monte Brè, il San Salvatore innevato e tanti aff.mi saluti da noi tutti... Ritrovavamo le cartoline, in bella vista sotto vetro, quando si tornava d'estate respirando quell'odore di pecora aspra, puzzolente. Saranno ancora lì, schiacciate tra la nostra memoria e il vetro, nella casa di via Torino 5, rimasta chiusa dal giorno della morte del nonno, 12 maggio 1980?

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Il primo grande viaggio verso il Nord ci portò in una casa vecchia sul lago di Como, via al Porto 2, la casa della darsena a Mandello del Lario, un giardino di erbacce, i panni stesi all'aperto, soprattutto pannolini di stoffa, nostra madre con le mani nei capelli da pazza, sembrava sempre incazzata col mondo, ma lo era solo con una parte di mondo, quella del marito nostro padre. Accoglieva ospiti di passaggio, amici, cugini arrivati dalla Sicilia in cerca di lavoro o in divisa militare, zii e nipoti in ferie o in villeggiatura, colleghi celibi di papà, Franco Piccione il balbuziente, Lorenzo Giallongo il chimico, e Rina Latella, giovane angolosa professoressa di matematica, calabrese sola, magra, moderna, fascinosa con i suoi grandi occhiali a farfalla. I bambini in triciclo tra le erbacce, urlanti e festosi. "Eravamo felici senza saperlo", dice ancora oggi zio Ernesto, ripensando a quegli anni, a quella casa con giardino e sterpaglia. Poi tutto sarebbe precipitato nel buio e nel dolore. Eravamo in bilico senza saperlo.

Era una vecchia casa sul lago, grigia, dai muri scalcinati e le porte-finestre verdi, i battelli che viaggiavano davanti a noi e la Grigna che incombeva alle spalle. Gruppo di famiglia in un esterno visibilmente invernale. Tutti in braccio a zio Salvatore, il fratello di nostra madre: seduto su un gradino davanti al portone, ha sulle gambe tre bambini in contorto movimento, il primo, il secondo e il terzo nipote, tra le dita una sigaretta e nella mano destra regge un bicchiere. Eppure sorride nello sforzo dell'equilibrio: potrebbe essere un bell'attore giovane del neorealismo italiano. Dietro di lui quattro donne serissime, ingrugnite quasi minacciose ognuna a suo modo: zia Liliana le mani in tasca come un uomo, alla sua destra un'ignota signora anziana con ampio collo di pelliccia, a sinistra nonna Mariannina le mani suoresche chiuse sulla pancia, la mamma imbacuccata nei suoi pensieri, maglione bianco di lana e le braccia incrociate al petto, una cugina tozza, Franca, la preferita di nonna. Fastidioso ghiaietto ai nostri piedi.

La vecchia casa a due piani faceva paura alla nostra mamma, troppo grande e troppo vecchia, troppa carta da parati di velluto bordò o verde, troppo piena di mobili accatastati ovunque, troppa polvere, forse anche troppi topi e niente gatti, 8.000 lire al mese quando papà, insegnando italiano storia e geografia nella scuola media statale Alessandro Volta, guadagnava 60.000 lire, ricorda nostra madre: "C'era un'entrata grandissima e fredda per noi che venivamo dalla Sicilia, mi ricordo che papà un giorno è andato a Lecco con suo nipote Paolo per comperare una stufa da sistemare li, una grossa bruciatutto a carbone e legna che si chiamava Warm Morning, perché nella casa non c'era riscaldamento elettrico o a gas: dentro tutta quella casa a due piani noi vivevamo solo in due stanze del pianterreno, quelle entrando a destra, nella prima abbiamo messo una cucina a gas, si mangiava lì su un tavolo rotondo, l'altra era la camera da letto con due lettini per voi tre, un armadio e un letto per me e per vostro padre. Era una casa enorme ma senza spazio per noi: le altre stanze rimanevano chiuse, erano occupate dai mobili antichi della padrona, una comasca cattiva, e anche il piano superiore, io non ci andavo mai, mi faceva paura quella casa, mi sembrava abitata dai fantasmi, e non vedevo l'ora di trasferirmi". Warm Morning: marchio commerciale di una serie di stufe in ghisa con materiale ceramico brevettate negli anni Trenta negli Stati Uniti, commerciate dalla Locke Stove Company di Kansas City, costruite in Italia dalle Fonderie e Officine di Saronno.

La casa era buia, si faceva fatica ad abitarla. Per fortuna c'erano i parenti e gli amici, che arrivavano in treno, in moto o in vespa a farci compagnia e allegria il sabato o la domenica. Tanta Avola in pochi chilometri. Zio Salvatore e zia Liliana, sigaretta tra le dita, arrivavano su una vespa bianca da Milano. Zio Ciccino, fratello maggiore di papà, arrivava in moto da Busto Arsizio con le orecchie ad ala e la faccia scavata di Eduardo De Filippo, portando a sua cognata la tuta della settimana, sporca di grasso e di unto, da lavare a mano. Paolo il cugino arrivava in bicicletta da Abbadia Lariana, dov'era elettrauto in un'officina: indossava camicie bianche e qualche volta la cravatta. Zio Pierino e zia Paoletta arrivavano sulla Seicento da Lecco, dove lui era magazziniere gommista e dandy. Zia Paoletta subito si tirava su le maniche fino al gomito e si metteva un grembiule per aiutare la nostra mamma in cucina, lì si mangiava spalla a spalla attorno al tavolo rotondo, mentre i bambini impazzavano rotolando tra le gambe dei grandi, suonavano la trombetta, facevano correre le macchinine sul pavimento freddo o tiravano calci al pallone contro i muri polverosi.

E i muri? Respiravano tutta quella serenità irreale del Lago di Como. La respirano ancora: sono andato anni fa, da Milano, a vederla la casa enorme e squadrata sulla darsena e i muri respirano ancora a pieni polmoni dopo cinquant'anni. Devi proprio abbatterli i muri per togliergli il respiro, ci vuole una bomba, a differenza degli uomini, che vanno a pezzi per un niente.

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[...] Era l'energia meridionale di zia Paoletta che sceglieva le pietanze, dopo aver consultato nostra madre al telefono nella settimana, era lei che faceva la spesa, comandava in cucina e organizzava il pranzo: la quantità non cambiava, cioè per venti-venticinque persone, anche quando eravamo poco più della metà. Le polpette di patate, con prezzemolo, non mancavano mai, per cominciare, perché piacevano ai bambini, erano croccanti e morbide all'interno, quasi una crema che si scioglieva lenta tra lingua e palato. E non mancava il torrone alla fine. In mezzo, nel chiasso assordante, di tutto: maccheroni al ragù (piacevano al nonno) o pasta al forno (ancora per accontentare i bambini) e, sempre, spaghetti al pesto (piacevano a zio Salvatore e zia Liliana), poi arrosto (piaceva a zio Pierino) e pesce al forno con patate (lo preferiva nostro padre), peperoni arrostiti sempre (piacevano a tutti) anche fuori stagione, carciofi arrostiti o in umido il più possibile (ne andava pazzo sempre zio Pierino, molto esigente). Olive piccanti ovunque, e peperoncini rossi e verdi. Tutti parlavano con tutti, si incrociavano urla e risate, sfottò, battute, barzellette (soprattutto quelle piccanti di nostro zio Pierino), solo il nonno restava in silenzio nei suoi pensieri. A capotavola, nonno Paolino, che si accucciava sul piatto guardandosi a destra e a sinistra e stendendo un braccio sul tavolo quasi a protezione del bottino, come se qualcuno volesse portarglielo via. Dall'altra parte le donne, che si alzavano e si sedevano in continuazione, mentre gli uomini ordinavano rumorosamente: una forchetta pulita, per favore, il vino (di solito un vinello rosso portato dalla Sicilia, che dava sull'acido), olio, nell'insalata ci manca il sale... Le donne scattavano, tranne zia Liliana, che fumava tranquilla fra un piatto e l'altro. Non mancavano le imprecazioni politiche, il governo ladro, le tasse, la Dc il Psi e il Pci, tutti uguali, tutti ladri e cornuti, ammazzarli tutti, Fanfani, Andreotti, Berlinguer, tutti cornuti, i sindacati che ci hanno rovinati, le promesse mancate, si salvava Almirante e qualche volta, non si sa perché, i socialdemocratici, per nostro padre il siciliano La Malfa e i repubblicani. Gli operai e i finti operai che facevano il doppio e il triplo lavoro, cornuti anche loro, infamoni, approfittatori bastardi, italiani bastardi, falsi invalidi, furbi e ignoranti. Dovrebbe tornare lui, per sistemare l'Italia, ci vorrebbe di nuovo lui, perché solo con lui gli italiani, caproni, avevano obbedito.

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In Svizzera si respirava quel misto di rabbia e nostalgia di nostro padre. Per i primi trent'anni vissuti in Svizzera, nostro padre ebbe il pallino della casa di proprietà: la sua infelicità era dover pagare un affitto a fondo perduto. Lo ripeteva ogni giorno, tre quattro volte al giorno a fine mese, quando andava in posta per versare l'affitto alla Fidinam, lo ripeteva fino all'ossessione: "Vorrei una casa mia". Era quella la sua infelicità. E la nostra: "Una fottutissima casa mia". Era un tarlo: "Non voglio pagare l'affitto agli svizzeri", come se la federazione elvetica ogni 28 del mese si desse appuntato nell'ufficio postale di Viganello per spartirsi il versato del professore di Avola. Non voleva saperne, ogni mese una scenata, per anni. La casa a Fontane Bianche non gli bastava: "Al mio paese posso permettermi la casa, in Svizzera no: che ci sono venuto a fare in Svizzera se non posso neanche abitare in casa mia?". Non c'era risposta a quella domanda, non avevamo risposte anche perché quella non era una domanda. Se la prendeva con i fottuti svizzeri che godevano del suo affitto mensile e non gli permettevano di farsi una fottuta casa tutta sua: "Con tutti i sacrifici che abbiamo fatto...". Minacciava di tornare a vivere al paese: "Finché non avrò una casa, qui mi sentirò uno straniero, che ci sto a fare senza una casa mia?". Ne faceva una questione personale, contro gli svizzeri e contro di noi e contro nostra madre, che eravamo l'unica ragione che lo tratteneva in terra straniera: fosse stato per lui, sarebbe tornato al paese, diceva più o meno ogni giorno, a vivere in casa sua.

Il suo desiderio di casa divenne un dramma quando decise di investire in azioni i pochi risparmi, 20.000 franchi svizzeri, su consiglio di un impiegato di banca romano con passaporto elvetico che gli assicurò che non avrebbe rischiato nulla e che al peggio quei soldi gli sarebbero tornati in tasca intatti. Sperava di poterli rimpinguare con un investimento prudente e invece andarono in fumo in poco tempo: furono strali contro le fottutissime banche svizzere, e dovette ricominciare da capo. Passavano gli anni e la sua ossessione si ingigantiva, premeva su quel poco di stabilità quotidiana con l'idea di una casa tutta sua: accusava il destino di avergli fatto lasciare la sua terra, inveiva contro i figli e la moglie che non capivano quella sua necessità vitale: "Avere una casa mia". Il possessivo era al singolare: "Una casa mia". In realtà, la prima casa che aveva fatto costruire con i suoi risparmi svizzeri fu, nel 1968, la cappella di famiglia, nel cimitero del paese, per andare a seppellirci, in auto, suo figlio Claudio. Quella di Fontane Bianche sarebbe venuta dopo qualche anno, già arrugginita e precaria, appena costruita e già sfarinata dalla salsedine. Ma non bastavano: "Voglio vivere in casa mia, tra i miei muri, sotto un mio tetto".

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