Copertina
Autore Patrizia Dogliani
Titolo Il fascismo degli italiani
SottotitoloUna storia sociale
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008 , pag. 372, cop.ril.sov., dim. 15,5x23,5x3 cm , Isbn 978-88-02-07946-2
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe storia contemporanea d'Italia , storia sociale , paesi: Italia: 1900 , paesi: Italia: 1920 , paesi: Italia: 1940
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Indice


VII Prefazione


  3 Capitolo 1 - Uscire dalla Guerra - Entrare nel Fascismo

    - Uscire dalla Guerra, p. 3
    - La presa del potere, p. 15
    - Verso uno Stato totalitario, p. 28
    - I nuovi alleati: chiesa ed esercito, p. 38
    - La repressione, p. 47

 51 Capitolo 2 - Gli italiani e il partito fascista

    - Il Partito nazionale fascista, p. 51
    - La classe dirigente fascista, p. 63
    - Un partito di soli uomini, p. 72
    - Il Mussolinismo, p. 79

 93 Capitolo 3 - Uomini e donne nel Fascismo

    - Uomini o soldati?, p. 93
    - La famiglia fascista, p. 102
    - Il corpo degli italiani, p. 114
    - La donna fascista, p. 118

125 Capitolo 4 - L'Italia fascista

    - Un paese moderno?, p. 125
    - Un paese in movimento, p. 130
    - La «nuova frontiera», p. 136
    - Un territorio ridisegnato, p. 145
    - Il «Bel paese», p. 154
    - Terre di confine/o, p. 162

167 Capitolo 5 - Crescere sotto il Fascismo

    - Fascistizzare la gioventù, p. 167
    - Assistere, sorvegliare e punire, p. 179
    - Scolarizzazione, p. 186
    - Istruzione superiore ed Università, p. 192

199 Capitolo 6 - Tempo libero e cultura di massa
                 degli italiani sotto il Fascismo

    - Sport e Nazione, p. 199
    - Cultura popolare, p. 213
    - Informazione e spettacolo, p. 222
    - Un'arte al servizio delle masse, p. 233
    - Una cultura al servizio del regime?, p. 239

247 Capitolo 7 - La grande nazione fascista

    - L'idea fascista di patria e nazione, p. 247
    - Una nazione = Una lingua, p. 259
    - Fascistizzare le comunità italiane all'estero, p. 263

281 Capitolo 8 - Italiani e non italiani

    - Italiani per forza, p. 281
    - Colonialismo e razzismo, p. 293
    - Razzismo e sessimo in madrepatria, p. 300
    - Antisemitismo ed ebrei italiani, p. 309

319 Capitolo 9 - Dalla grande avventura alla grande catastrofe

    - Politica estera/politica interna, p. 319
    - La guerra in Spagna, p. 327
    - Gli italiani nuovamente in guerra, p. 336

341 Bibliografia ragionata
361 Indice dei nomi

 

 

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Pagina VII

Prefazione



Questa è una storia sociale del Fascismo, una tra le tante e diverse storie sociali sul Fascismo che si potrebbero scrivere, e che non sono ancora state scritte da storici italiani; a differenza di quanto hanno fatto autori soprattutto tedeschi ed anglosassoni per la storia del nazismo, Detlev Peukert tra i primi e più innovatori. Un mio precedente libro, apparso nel 1999: L'Italia fascista 1922-1940, conteneva in nuce tale carattere di storia sociale ma l'impianto dato alla collana nella quale esso si collocava mi aveva impedito di svilupparlo pienamente. Questo lavoro, che riprende il precedente, privilegia la storia sociale e la integra con quella politica e culturale. Sono convinta che non sia possibile scrivere la storia di una società senza tenere interamente conto delle condizioni politiche ed economiche che l'hanno determinata; e non si può descrivere íl Fascismo solo nei suoi aspetti culturali, come sembrano aver preferito negli ultimi anni storici soprattutto statunitensi, convinti che le forme di rappresentazione di un regime politico siano di per sé sufficienti per spiegarlo.

Si potrebbero, e ci auguriamo che avvenga presto, scrivere altre storie sociali del Fascismo che privilegino, più di questa mia ricostruzione, la quotidianità degli italiani sotto il regime e le forme: atti, pensieri, parole, di adesione e di adattamento ad esso o di resistenza apolitica e di non conformismo, utilizzando a pieno nuovi fonti soggettive: testimonianze orali, epistolari e diari. O costruire storie che considerino i temi dei consumi popolari, delle mode, dell'alimentazione, delle tecniche lavorative, delle culture e delle mentalità, dei rapporti di genere e la sessualità più di quanto è stato possibile qui sintetizzare. Sono pertanto consapevole dei limiti contenuti ma anche delle potenzialità offerte dal mio lavoro; esso tenta di ricostruire un quadro generale indicando questioni e piste ed affida ad altre letture e soprattutto ad altri studi che verranno l'approfondimento di alcune di esse. Pochi sono stati i precoci ed innovativi studi di città durante il Fascismo (penso soprattutto a quello sulla Torino operaia di Luisa Passerini) che non hanno avuto seguito; alcune città «culle» del Fascismo non hanno ancora ricevuto un'adeguata ricostruzione storica della loro vita urbana durante il Ventennio: la città di Bologna, ad esempio, ma anche la capitale: Roma, così attentamente studiata nelle sue trasformazioni urbanistiche ed architettoniche necessita ancora di un approfondimento della sua vita sociale. Non possediamo ancora nessuna ricostruzione «modello» della storia sociale urbana di piccole comunità sotto il Fascismo, come al contrario lo storico statunitense William S. Allen aveva condotto negli anni Sessanta su una cittadina tedesca indagata nel suo scivolamento nel nazismo. Inoltre, a lungo la storia dell'antifascismo è stata scissa dalla storia del Fascismo; oggi se il binomio è riemerso in buoni studi storici, esso mantiene sostanzialmente la parvenza di antitesi. Continuando a studiare Fascismo ed antifascismo come antitetici riserviamo la nostra osservazione essenzialmente a convinte élite di fascisti e di antifascisti, privandoci di una migliore conoscenza invece dell'ampiezza, dei limiti e degli andamenti del consenso al regime. Inoltre, ancora oggi i due decenni del Ventennio sono spesso studiati separatamente: si continua a conferire maggiore attenzione all'avvento al potere del Fascismo, alla crisi dello Stato liberale e alle forme di violenza politica sviluppatesi nel paese nei primi anni Venti, mentre ancora arduo è protrarre l'osservazione agli anni Trenta, agli anni di consolidamento del consenso e delle forme di violenza legittimate dal sistema politico.

E contrariamente a quanto è stato intrapreso in ottimi lavori di divulgazione storica d'origine anglosassone, la cui narrazione è rivolta ad un largo pubblico da autori che non tralasciano di attingere con cura a fonti storiche e ad una storiografia professionale, in Italia si è invece diffusa una letteratura leggera di vena evocativa, del «come eravamo», appannaggio essenzialmente di giornalisti e pubblicisti dalla penna veloce e con preparazione inadeguata. Si tratta di una letteratura che da almeno una ventina d'anni sembra non smentirsi nel presentare il Ventennio fascista come un'epoca da ricordare come più genuina ed ordinata della presente, «quando eravamo povera gente» perché la massima aspirazione dell'Italiano medio era, come diceva una canzone in voga al tempo, di guadagnare «mille lire al mese»; le frasi virgolettate sono titoli di libri che ispirano nostalgia per quel tempo semplice, e in fin dei conti poco conflittuale. Un recente libro presenta anche un'Italia dove «non c'erano solo i ladri ma un avversario nuovo da combattere, l'opposizione politica antifascista, che in verità non rappresentò mai un serio pericolo per lo Stato totalitario» (Romano Bracaloni,

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Pagina 79

Il Mussolinismo

Nella liturgia politica che il Fascismo elabora, il Capo è l'elemento chiave. La presenza del duce, del condottiero, dell'uomo che rappresenta il movimento politico ed insieme lo Stato fascista, la sua politica interna ed estera, e l'intera comunità degli italiani, conferisce solidità al potere e ne rafforza i principi gerarchici, d'autorità e di deferenza. Questa liturgia viene perfezionata in atti collettivi, che i fedeli erano chiamati ad interpretare sotto la guida attenta di un sacerdote, depositario della religione stessa. Il ducismo rappresenta la prima esperienza europea in tal senso, e in quanto tale appare ancora imperfetta rispetto ad altre successive. Esso è favorito da un insieme di fattori precoci e concomitanti rivelatisi in Italia tra il 1915 e il 1919, tra i quali la debole popolarità della casa regnante dei Savoia uniformemente in tutte le regioni d'Italia e soprattutto la mancanza di carisma esercitato da parte del governo civile e militare sulla popolazione durante la guerra, a differenza di quanto era avvenuto in altre nazioni combattenti, almeno sino al 1917. Inoltre, la rapida svolta della debole democrazia italiana in senso autoritario avviene prima che i giovani partiti di massa avessero il tempo di divenire rappresentanti di istanze sulla base di un pluralismo di presenze e di sentimenti nei confronti della nazione. La dolorosa esperienza bellica, con il suo carico di orrori e di perdite e le epidemie scatenatesi a guerra finita avevano vivificato nelle masse un senso religioso degli eventi e dei destini che a tratti sconfinava nella superstizione, tanto che frequenti furono nel corso della guerra episodi ed apparizioni che vennero considerati miracolosi dal popolo, nonostante la prudenza della stessa Chiesa. La guerra aveva inoltre rivelato la impreparazione degli alti comandi militari e soprattutto la loro scarsa affidabilità in momenti difficili. Alla fine della guerra, era convinzione comune che la guerra fosse stata vinta non per l'abilità dei generali, ma grazie al sacrificio e all'unità dei combattenti e dei loro ufficiali di complemento. Il ducismo che divenne culto della personalità di Mussolini, dunque Mussolinismo, nasce in questo contesto di vuoto ideologico e referenziale. Mussolini apparve come un messia della politica, colui al quale il comando non era stato conferito per diritto dinastico, bensì per carisma e per attitudini evidenziatisi in momenti eccezionali. Al fronte, l'affidabilità del camerata e del proprio diretto superiore era essenziale per sopravvivere. Mussolini ripropone questo modello di affidabilità nella vita civile. Si trattava di un modello arcaico e moderno nel contempo; poteva trasformarsi in democrazia elettiva, si ritorse in populismo e in dittatura personale.

La Grande guerra e le rivoluzioni e controrivoluzioni che seguirono in Europa avevano conferito all'atto e alla orazione politiche una nuova forma di creatività atta a rigenerare i popoli e a conferire spirito e comunicazione alle masse tumultuanti, suggerendo espressioni e simboli. Negli ultimi decenni, è stata condotta una rivalutazione storica e culturale del poeta e prolifico scrittore Gabriele D'Annunzio, inserendolo in un più ampio contesto europeo di fermenti ed innovazioni delle forme dell'espressione politica d'inizio secolo e pertanto sottraendolo al giudizio liquidatorio dei suoi contemporanei, in particolare antifascisti, quali ad esempio Emilio Lussu che sempre in Marcia su Roma e dintorni ne tracciò un profilo duro ed impietoso. D'Annunzio è stato considerato il maestro di Mussolini per l'arte di comunicare alle folle, per l'istrionismo, per la «giusta messa in scena» della politica. D'Annunzio inaugura con la Grande guerra la fase di individuazione degli scenari dell'arringa alle folle, ad esempio la piazza del Campidoglio al centro della Roma antica, non lontano dal balcone di palazzo Venezia sull'omonima piazza che sarà il pulpito per Mussolini; rinverdisce i culti guerrieri, i vessilli e le bandiere che tanto sarebbero piaciuti ai capi del Fascismo, sino a fare delle bandiere dei nemici interni (delle camere del lavoro, delle leghe contadine, delle case del popolo) e poi stranieri i più ambiti bottini di guerra. D'Annunzio fu inoltre tra i primi ad associare nel culto patriottico i morti della Grande guerra con i caduti nelle imprese fiumana e squadriste del dopoguerra. L'allievo politico avrebbe poi rapidamente superato il maestro poeta; già dal 1921, l'uomo propenso a vivere i momenti eccezionali, avrebbe dovuto lasciare il posto a colui che sapeva dominare la pratica e i compromessi della quotidianità politica. Elitarismo conclamato nelle scelte e populismo commisto a demagogia rimasero comunque gli aspetti salienti della personalità politica di Mussolini che sviluppò dell'eredità dannunziana; sostituendo alla creatività letteraria il messaggio verbale ed oratorio e la drammaturgia.

La figura di Mussolini catalizzò almeno tre funzioni: d'esempio, di identificazione e di protezione. Egli cercò d'imporsi in primo luogo come modello di e per l'«Italiano nuovo», per forza d'animo, volontà e resistenza fisica: identificarsi con lui, con il capo del Fascismo e dello Stato, significava far parte di una comunità di eletti, di un corpo mistico consolidato da virtù guerriere e civiche. Mussolini si presentava inoltre come il garante, il protettore per conto di uno Stato che interviene nella vita pubblica, lavorativa ed economica dei singoli cittadini. In Italia si impone uno Stato assistenziale non ugualitario né basato sui principi di cittadinanza politica, bensì uno Stato che accetta e premia solo coloro che si mostrano fedeli e credenti nella nuova collettività e nazione fasciste. In questo senso, il culto della personalità prende aspetti di paternalismo. La corruzione faceva parte integrante del sistema politico liberale e continuava, nonostante che Mussolini ed altri dirigenti fascisti l'avessero aspramente criticata a parole, a fare parte dello Stato fascista. Come vi apparteneva il familismo nei legami di potere e di dipendenza tra potente e beneficiario, quali retaggi di una società arcaica e feudale. Mussolini funge da garante di tale sistema. Egli non diviene solo il capo al di sopra del partito, ma anche l'arbitro al di sopra delle parti.

Era a lui che gli italiani, secondo un tradizionale rapporto di deferenza nei confronti dei potenti, si rivolgevano per lettera essenzialmente quando subivano torti e soprusi, quando le promesse non venivano mantenute. La figura del capo garante alleggeriva le responsabilità del sistema, facendo cadere colpe di negligenze e corruzioni sugli uomini che lo circondavano, e lo «tradivano». Spesso i messaggi di singoli cittadini che giungevano alla sua segreteria particolare, amministrata da abili giornalisti ed esperti in comunicazione, contenevano non solo lusinghe e devozione, ma anche accuse nei confronti di responsabili del partito e dei sindacati fascisti. E mettevano in guardia il duce dalle persone delle quali egli s'attorniava, come se vi fossero cospirazioni che minassero obiettivi e qualità del programma fascista.

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Pagina 118

La donna fascista

Tutta la politica fascista nei confronti della donna, impostata tra il 1926 e il 1929, si basò sulla tesi dell'inferiorità biologica della donna rispetto all'uomo, e sul suo predeterminato destino ad occuparsi essenzialmente della cura degli uomini e dell'infanzia, in casa e nella società, e a procreare. Compiuta la svolta conservatrice, l'ideologia fascista si nutrì di diverse correnti culturali e letterarie e di pensiero politico, principalmente nazionalista, fortemente misogine ed antifemministe, oltre che di teorie di scuola antropologica e medica, formatesi nel clima positivista di fine Ottocento, che definivano la differenza del genere femminile in termini di incompletezza fisiologica e sessuale, di instabilità emotiva, di inferiorità psicologica ed intellettuale.

Chi qui scrive è convinta che le posizioni personali di Mussolini e dei suoi principali collaboratori cambiarono nel tempo solo per opportunità politica. Non credo che si possa parlare di un Mussolini protofemmista nel 1919 e di un Mussolini antifemminista successivo al 1925. L'intero movimento, una volta liberatosi di componenti e frange libertarie, fu fortemente maschilista, convinto delle doti superiori del genere maschile rispetto a quello femminile, benché si avvalesse di figure femminili di militanti e di intellettuali per conquistare e detenere il potere. Non lasciamoci quindi fuorviare dall'iter per il suffragio femminile che giunge finalmente alla legge del 22 novembre 1925, con una elaborazione iniziata nel 1923, dopo la presa del potere da parte del Fascismo. Tale legge riconosceva il diritto amministrativo alle donne che avessero compiuto i 25 anni d'età e sulla base delle loro possibilità economiche (censo, iscritte alle liste erariali del comune) e dell'educazione. È sì una legge fortemente voluta da un Mussolini ancora laico che si ispira a criteri d'ordine morale e politico, ma che riconosce non il diritto pieno delle donne ad esercitare il diritto di voto attivo e passivo (che sarà concesso solo nel febbraio 1946) ma essenzialmente il sacrificio della popolazione femminile durante la Grande guerra, soprattutto delle madri e delle vedove di caduti, e una maturità cresciuta durante il conflitto nella quotidianità che consente loro di detenere la patria potestà e di impegnarsi nell'educazione e nella sanità in assenza dei propri uomini. È essenzialmente a queste donne, prive del necessario supporto degli uomini, cittadine «autonome» per necessità, che l'ancora giovane leader Mussolini pensa nei primi anni che seguirono alla guerra. Egli, come la grande maggioranza degli uomini italiani del suo tempo, rimaneva convinto dell'inferiorità naturale dell'essere femminile, come appare evidente dal discorso fatto alla Camera nella seduta del 15 maggio 1925 con il quale egli chiedeva il voto amministrativo per le donne, ma nello stesso tempo lo minimizzava, ridicolizzando i soggetti che avrebbero dovuto esprimerlo: «Qualcuno crede che l'estensione, il riconoscimento di questo diritto provocherà delle catastrofi. Lo nego. Non ne ha provocate nemmeno, in fin dei conti, quello maschile, perché su undici milioni di cittadini, che dovrebbero esercitare il loro diritto sedicente, ben sei milioni non ci pensano nemmeno (approvazioni). [...] Così accadrà delle donne. Metà forse soltanto vorranno esercitare il loro diritto di voto. Non accadrà nulla nell'ambiente famigliare, per una ragione molto semplice. La vita della donna è dominata sempre dall'amore: o per i figli, e per un uomo. Se la donna domani ama il marito, vota per lui, per il suo partito. Se non lo ama, gli ha già votato contro! (Vivissima ilarità). In ogni caso, questo avvenimento fatidico si verificherà ogni quattro anni!». Il progetto di legge del 1925 escludeva comunque le donne alle cariche di sindaco, assessore e l'accesso ad uffici elettivi, perché essi «per la loro natura, per i caratteri delle funzioni ad essi inerenti e anche per i poteri giurisdizionali che in taluni casi conferiscono, mal si adattano ad essere esercitati dalle donne»; e confermava in concetto dell'inferiorità della donna come soggetto politico. Lo stesso Mussolini ribadì tale convinzione innumerevoli volte; esso ebbe anche risonanza internazionale grazie all'intervista rilasciata a Ludwig, allorché dichiarava che «la donna deve obbedire [...]. Essa è analitica e non sintetica. Ha forse mai fatto dell'architettura in tutti questi secoli? Le dica di costruire una capanna, non dico un tempio! Non lo può! Essa è estranea all'architettura, che è la sintesi di tutte le arti, e ciò è un simbolo del suo destino. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione ad ogni femminismo [...]. Nel nostro Stato essa non deve contare». Mussolini prendeva in prestito considerazioni e persino parole di un suo «maestro», Alfredo Oriani, che le aveva espresse nell'opera Il matrimonio. Due anni dopo ribadiva perentorio, in un discorso in parlamento, la netta divisione di ruoli: «La guerra sta all'uomo come la maternità alla donna».

Il connubio tra Fascismo e Chiesa cattolica aumentò il peso del pensiero cattolico conservatore nell'atteggiamento fascista nei confronti delle donne. Virilismo e cattolicesimo conservatore composero la miscela atta a rendere la donna subalterna alla volontà maschile, ma il Fascismo la rese anche essenziale alla realizzazione della società che concepiva.

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Pagina 319

Capitolo 9
Dalla grande avventura alla grande catastrofe



Politica estera/politica interna

La tesi più forte tra quelle che hanno mirato a minimizzare o peggio a giustificare le responsabilità politiche del Fascismo è quella che indica come unico errore di percorso l'alleanza con la Germania nazista e di conseguenza l'entrata in guerra dell'Italia al suo fianco. In breve, senza tale svolta, il Fascismo avrebbe potuto sopravvivere come sistema autoritario e populista, cogliere i frutti a più lungo termine della sua politica economica e sociale, divenire un argine costante all'espansione del comunismo in Europa, mantenere in buona sostanza un ruolo d'equilibrio europeo e mediterraneo. La dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, dell'Italia fascista alla Francia e Gran Bretagna non fu un colpo di testa, né un atto dovuto agli impegni presi con l'Asse italo-tedesco, fu invece un evento lungamente preparato e conseguente alla linea di politica estera che l'Italia fascista sviluppò nel corso della sua storia; politica estera sempre più determinata dalla politica interna, sociale ed economica del paese, e dalla propaganda rivolta al mantenimento del consenso. Il Fascismo optò per azioni diplomatiche e militari per risolvere crisi sempre più acute che si avvicendavano nel paese (nel mercato del lavoro come nei fabbisogni energetici e di materie prime), in coerenza con nuovi schieramenti ed equilibri internazionali, e al venir meno del compito regolatore della Società delle Nazioni. Tranciante era stato già nel 1932 (ancor prima che la Germania nazista entrasse in scena) il giudizio dato da Salvemini su tale politica e sul suo principale responsabile: «l'entusiasmo di molti stranieri per Mussolini consiste per metà di entusiasmo verso il "grande uomo" e per metà di disprezzo per il popolo che egli governa». Il pregiudizio delle principali nazioni occidentali era che «gli italiani pensano solo a nutrirsi e a moltiplicarsi». E concludeva: «di tutti i delitti che i fascisti hanno commesso contro la loro patria, questo gli italiani non dovranno perdonare mai: la diffamazione sistematica che essi hanno fatto della intera nazione, per innalzare un solo uomo su un piedistallo di adulazione e di menzogna».

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