Copertina
Autore Luis Miguel Dominguín
Titolo Per Pablo
EdizioneO barra O, Milano, 2012, gli Antecedenti , pag. 56, cop.fle., dim. 10,3x17x0,4 cm , Isbn 978-88-87510-82-9
OriginalePour Pablo [1981]
PrefazioneJacques Durand, Marco Dotti, Michel Leiris
TraduttoreAlessandro Giarda
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe arte , paesi: Spagna , animali domestici
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Indice


Prefazione di Jacques Durand                7

Per Pablo                                  15

Postfazione di Marco Dotti
L'ultimo spettacolo                        39

Appendice
La tauromachia è più di un'arte
di Michel Leiris                           45


 

 

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Pagina 7

Prefazione


Negli anni Cinquanta, Sessanta e anche oltre, le cronache del gran mondo diffuse dai rotocalchi riportavano regolarmente notizie di una specie di airone altezzoso circondato da donne e da tori morti: Luis Miguel Dominguín misurava i terreni della fama con le sue gambe da compasso. Lo si vedeva insieme ad Ava Gardner all'entrata dell'hotel Claridge a Londra, discutere animatamente con Hemingway sul bordo di una piscina a L'Avana, fare passerella con Rita Hayworth a Hollywood, festeggiare a Vallauris, con un Picasso in pantaloncini, gli ottant'anni del pittore padrino di sua figlia Paola, recitare ne Il testamento di Orfeo di Jean Cocteau nelle grotte di Baux. Rafael Alberti scriveva poemi a lui ispirati. Luis Buñuel cercava di convincerlo del misticismo erotico della corrida. Andava a caccia insieme a Franco che gli domandava notizie di Domingo, suo fratello comunista, faceva di Luchino Visconti il padrino di suo figlio, Miguel Bosé. Niente da ridire. Il nipote di Pilar, che a Quismodo, nei pressi di Toledo, viveva miseramente di ceci raccolti e di qualche furtarello agricolo portando il lutto di dieci figli morti, era del tutto naturalmente un eroe di questo clan in cui si viaggiava su Hispano-Suiza e si curiosava tra gli antiquari di Leningrado. Ben presto l'elegante figura del torero Luis Dominguin è apparsa là dove i semidei della seconda metà del Novecento si divertivano, si amavano, si tormentavano, sparavano alle pernici, spegnevano candeline di compleanno, morivano. Il 28 agosto 1947 egli si trova a Linares, nell'alta Andalusia, per combattere contro i tori di Miura. La mattina della corrida, Manolete, anch'egli in cartellone, gli sussurra: «Ne ho abbastanza!». Qualche ora più tardi, nell'infermeria delle arene, Luis Miguel Dominguín vede una donna delle pulizie asciugare con uno strofinaccio il sangue dell'idolo della Spagna grigia che agonizza in pubblico tra il fumo di sigarette e, come dirà lui, in un ambiente da bar di casinò di provincia.

Nelle pause dal suo personaggio di seduttore globale, Luis Miguel Dominguín si dedicava, senza sforzo apparente, a una tauromachia logica e "scientifica", a essere ciò che era: il miglior matador del dopo Manolete. Con una chimica differente. Manolete era il torero della freddezza enfatica, mentre Luis Miguel sarà quello della dominazione insolente e del potere disinvolto. A dodici anni, suo figlio Miguel, durante un giorno di corrida a Barcellona, gli dirà: «Per te è più facile. Dovresti essere pagato meno degli altri». Più facile? Non è detto. Ma il cadetto della dinastia di toreri dei Dominguín, che aveva sempre l'aria di dare del lei ai tori anche quando iniziava attendendoli in ginocchio a porta Gayola, all'uscita del toril, sembrava voler incarnare nel suo corpo da mantide religiosa la volontà baudelairiana e dandy di essere sublime in ogni istante. Ivi compreso quel giorno dell'estate del '59 a Valencia, quando, durante un mano a mano insieme al cognato Antonio Ordoñez, un toro di Ignacio Sánchez gli squarcia il ventre dall'alto in basso, ventun giorni prima che un altro toro, a Bilbao, stringendolo contro un cavallo dei picadores, lo incorni di nuovo nello stesso punto della ferita non ancora del tutto rimarginata. L'ostinazione è una caratteristica tipica del toro.

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Pagina 34

Lo osservo lavorare, lo ascolto leggere i suoi piccoli quadri scritti, che mi sembrano importanti al pari della sua letteratura plastica, poiché in fin dei conti la pittura è la calligrafia suprema dei sentimenti.

In Pablo ho trovato un essere del tutto diverso dall'immagine che, ahimè, se ne ha comunemente, un essere tanto umano quanto gli individui che possiamo incrociare per strada. Talvolta, sulle gradinate vedo una donna bellissima e automaticamente penso: "Che bel modello per un fotografo". Altre volte mi capita, facendo il giro dell'arena, di dirigere lo sguardo sugli spettatori e di scorgere un individuo che mi sembra "fatto per Picasso". Picasso mi ha rivelato questa prodigiosa virtù che Oscar Wilde attribuiva alla creazione artistica: la natura imita l'arte.

Ecco l'essenza della nostra amicizia, che ha raggiunto l'intimità, quell'umanità che ci si sforza di strappare alle persone celebri. Solo quando ritorniamo a essere noi stessi, solo quando abbiamo terminato l'esibizione nella terribile vetrina che è la nostra professione, possiamo sentirci realmente a nostro agio. E in uno di questi momenti che ho avuto la rivelazione del duende che mi ispira la personalità di Picasso. Per tutto ciò, per la nostra confidenza, c'è una ragione suprema: l'amicizia.

L'arte non ha mai avuto età, e neppure i suoi officianti. Per questo a ottant'anni Goya poteva ancora dipingere e dare prova della sua potenza; per questo Pedro Romero è potuto scendere nell'arena fino a che il suo corpo non è stato davvero vecchio, ed è per questo che io posso dare del tu a Pablo che è nel pieno della maturità artistica, giovane a settantanove anni. Ma non cerchiamo il perché della nostra amicizia e non cadiamo nella volgarità del "ci sarà dietro qualcosa", quel "qualcosa" che è il campo di concentramento nel quale ci si sforza di imprigionare l'amicizia, la generosità, i valori umani, quando questi sono ben al di sopra delle ragioni che possono spingere un uomo a mostrare interesse per un suo simile.

Pablo Picasso e Luis Miguel Dominguín, la storia di un capitolo dell'amicizia nella vita di due uomini. Quando trascorriamo le nostre giornate insieme, le nostre serate a conversare, dimentichiamo totalmente le nostre professioni. O meglio, non si tratta del reciproco oblio della professione dell'altro, ma dell'oblio della nostra stessa professione.

A titolo di curiosità, vi dirò che proprio per questo lascio in sospeso la domanda che mi pose un giorno Picasso: «Perché combatti i tori, Luis Miguel?». È una domanda che ho più volte posto a me stesso e che resterà sempre senza risposta. Sul momento non seppi che dire. Gli domandai: «Perché dipingi, Pablo?», senza attendere la sua risposta che, sapevo, non sarebbe mai arrivata. Credo che l'essenza, il cemento di un'amicizia risiedano sostanzialmente nel rifiuto di ricercare dei perché. Allo stesso modo, l'essenza di una carriera risiede nell'ignoranza delle ragioni che ci hanno spinto ad abbracciarla. Si è quel che si è, perché bisogna pur essere qualcosa. Ciascuno conduce la sua vita sui sentieri che, fin dal principio, furono per lui i più propizi.

Ora, io so perché indosso l'"abito di luce". Indubbiamente per accedere a qualcosa che mi trascende. Se il torero, indossando l'"abito di luce", riesce a ispirare un Goya o un Picasso, si può dichiarare soddisfatto di aver assolto una missione della massima importanza. Basta con le spiegazioni, non cerchiamo altre ragioni. Ciò è sufficiente.

Il mio piccolo scritto giunge qui al termine. Come me, molti attendono che la Capra di bronzo abbia una discendenza. Forse Picasso è il nostro ultimo Don Chisciotte. L'ho visto, nell'intimità, mentre giocava con i miei figli, ritornare bambino e travestirsi con cenci e maschere sempre diversi. E come un ragazzino lui si diverte in un'opera così spontanea.

Do libero corso alla mia immaginazione e me lo raffiguro, la lancia dell'Età del bronzo in pugno, in groppa alla sua capra preferita (che ha potuto crescere sulle aride pietraie della Castiglia) lanciarsi contro i mulini a vento. Picasso, il nostro ultimo Don Chisciotte, non monterà mai tale cavalcatura finché gli altri non saranno disposti, anche in minima parte, a essere Don Chisciotte come lui. Allora, quando tutti noi, gli uomini, ci mostreremo più comprensivi, la Capra che Pablo ha reso feconda nel bronzo e che dal 1950 attende di partorire, allora, ne sono certo, procreerà e dal suo ventre si involeranno bianche colombe di pace.

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Pagina 45

La tauromachia è più di un'arte

di Michel Leiris


Sotto il segno del tragico, e soggetta a canoni molto più rigorosi di ogni genere di sport, la tauromachia, certo, è un'arte, Tutto accade, da un lato, come se si trattasse per gli attori umani di sgranare il più ritmicamente possibile una serie di pose, di muovere armoniosamente le pieghe romantiche della cappa, di agitare soavemente la muleta — drappo rosso che è con la spada lo strumento della messa a morte —, il tutto rivestito dello scintillante "costume di luci" (che situa il torero in un mondo separato, come la maschera dell'attore tragico o il paramento sacerdotale), e sforzandosi, grazie al gioco delle stoffe, d'integrare il toro nella propria danza; d'altro lato, come se la tauromachia nel suo insieme fosse concepita per servire d'esempio alle discipline propriamente estetiche: struttura dell'evento, diviso in tre tercios di cui ciascuno costituisce una parte in sé conchiusa e insieme concorre all'equilibrio dell'intero dramma; economia dei movimenti; ruolo del ritmo, della scioltezza con cui si apportano ai problemi tecnici "soluzioni eleganti"; nozioni di sincerità, di giustificazione di tutti gli atti, della loro necessità rispetto allo scopo perseguito; dominante di pericolo, sia per il creatore (che ad ogni istante deve rischiare di perdersi) sia per l'opera (di continuo compromessa, e costantemente fatta e disfatta). E inoltre, per la nostra stessa concezione della bellezza, la tauromachia si dimostra capace di offrirsi come figura perturbante, sorta d'incarnazione, di trascrizione in atti delle sue diverse componenti. Si avvertirà, tuttavia, analizzando questa figura tauromachica della bellezza – "bellezza tauromachica", come si è parlato di "bellezza convulsa" – che essa affonda le sue radici in un terreno estraneo al dominio strettamente estetico. Allo stesso modo, la tauromachia propriamente detta non può essere considerata soltanto come una manifestazione sportiva o artistica nel senso ristretto del termine, perché, è facile dimostrarlo, essa è dominata da elementi che nessuna arte mette in gioco con altrettanta chiarezza e brutalità.

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