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| << | < | > | >> |IndicePrologo 9 1. La necessità di una teoria dell'evoluzione cognitiva 13 L'architettura mentale come fenomeno emergente 13 Cultura come prova dell'esistenza di strutture cognitive 18 L'organizzazione di questo libro 24 2. La tesi darwiniana 30 Continuità e discontinuità 30 Teorie predarwiniane 34 Darwin sull'intelligenza animale 37 La tesi darwiniana sulle origini del linguaggio 43 Conclusione: un puzzle multidisciplinare 56 3. La macchina di Wernicke 59 Modelli di linguaggio modulari e unitari 59 Aspetti neuropsicologici dell'evoluzione 74 Il caso di frate John 101 Il cervello in assenza di linguaggio 106 Conclusione: la macchina di Wernicke nell'evoluzione 110 4. Cronologia dei mutamenti anatomici e culturali 116 Pietre miliari nella cronologia dei mutamenti 116 Bipedismo: le australopitecine 125 Encefalizzazione: gli ominidi 128 Linguaggio verbale: un'innovazione recente 139 Conclusione: la questione degli stadi cognitivi 144 5. La cognizione dei primati: cultura episodica 149 Capacità delle antropomorfe: una sintesi 149 Cultura episodica: definizione 177 Cultura ed evoluzione 188 Conclusione: la mente episodica 190 6. Prima transizione: dalla cultura episodica alla cultura mimica 193 Cultura mimica: l'anello mancante 193 La cognizione umana in assenza di linguaggio 197 Capacità mimica 200 Conseguenze sociali della rappresentazione mimica 206 Modalità dell'espressione mimica 211 Considerazioni neuroanatomiche 230 Conclusione: cultura mimica come strategia di sopravvivenza 234 7. Seconda transizione: dalla cultura mimica alla cultura mitica 238 Linguaggio e nascita della cultura umana 238 Invenzione simbolica 255 L'adattamento per il linguaggio verbale 278 Che cosa è localizzato? 306 Conclusione: cultura mitica e usi del linguaggio 314 8. Terza transizione: immagazzinamento di simboli nella memoria esterna e cultura teoretica 316 La cultura mitica cede il predominio alla cultura teoretica 316 Invenzione visuografica 323 Dispositivi della memoria esterna: un cambiamento nell'hardware 359 La comparsa della cultura teoretica 387 Conclusione: la mente attuale è un ibrido 412 9. Coscienza e indeterminatezza 418 Oltre la mente episodica 418 Localizzazione dopo la terza transizione 431 Conclusione: materialismo esuberante 440 Ringraziamenti 443 Bibliografia 445 Indice analitico 465 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Nella maggior parte dei campi scientifici il nucleo del dibattito è costituito dalle teorie sulle origini: la ricerca dell'origine del sistema solare, della Terra, dei continenti, delle montagne, della vita e dello stesso genere umano è il fine principale di molte discipline, che vanno dall'astronomia alla zoologia. Tuttavia il problema dell'origine della mente umana non ha ancora assunto una centralità nella scienza cognitivista. Questa si fonda soprattutto sullo studio di due tipi di mente molto specializzati e comparsi in epoca recentissima: la mente degli adulti anglofoni scolarizzati e il computer. Nella ricerca sul mondo animale abbiamo già da tempo imparato una lezione importante: per rendere giustizia alle facoltà mentali degli animali bisogna studiare una gran varietà di specie e collocarle in un contesto evolutivo. Non è possibile comprenderne le capacità cognitive senza tenere conto del loro posto nell'ordine biologico. Per qualche motivo, la ricerca cognitivista sul genere umano sembra non aver imparato questa lezione, e spesso procede come se l'uomo non possedesse una cultura, una significativa variabilità, una storia. Questa lacuna potrebbe, in parte, riflettere un'avversione per le teorizzazioni, ma la proscrizione dell'indagine filosofica dalla scienza, giustificata dallo strano concetto che non possedere alcuna nozione sia meglio che averne poche, è stata storicamente improduttiva. Tradizionalmente, il lavoro sperimentale è stato prefigurato, sintetizzato e ispirato da teorie organiche sulle origini. Queste hanno spesso preceduto i solidi dati confermativi su cui avrebbero dovuto reggersi o crollare; la loro funzione è stata euristica e immaginativa, e il loro pregio è consistito più nella capacità di indicare una direzione che nella loro esattezza. La scienza cognitivista ha bisogno che queste teorie si moltiplichino, e deve portare ammirazione e rispetto a tutto ciò che ha elevato altri campi della conoscenza a straordinarie altezze. Questo libro si propone di riflettere su quale sia lo scenario più probabile della comparsa della cognizione umana. Prenderò in considerazione dati offerti da più discipline e, sulla loro base, proporrò un'ipotesi che avrà per oggetto specifico l'origine della mente dell'uomo attuale. Anche se i dati archeologici e antropologici forniscono indicazioni decisive, l'evento principale è da ricercarsi nell'evoluzione delle capacità cognitive che, essendo il tramite fra cervello e cultura, devono essere state il motore e il luogo del cambiamento. Tutto ciò è facile a dirsi, ma la cognizione umana è complessa e sfaccettata. Come possiamo affrontarne l'evoluzione? Esiste una vasta letteratura in cui particolari aspetti del comportamento umano - fra cui i riflessi, gli istinti, le capacità percettive, il comportamento condizionato, la capacità di risolvere problemi, l'intuito, la curiosità, la comunicazione, il linguaggio, l'intelligenza sociale e la memoria - vengono confrontati con quelli di altre specie. Ma purtroppo il continuum dai rettili ai mammiferi ai primati e all'uomo non sempre è uniforme: alcuni animali si dimostrano più capaci sotto un aspetto, alcuni sotto un altro. Per questo motivo gli studi comparati hanno fornito un quadro alquanto confuso. Tuttavia è possibile un diverso approccio, basato sulla struttura sottesa alla mente. Durante la recente rivoluzione della scienza cognitivista si è sviluppato un nuovo modo di concepire la mente, che potremmo definire «strutturale». Uno dei principali obbiettivi del modello strutturale è descriverne l'architettura modulare, cioè la configurazione d'insieme delle componenti che ne formano la totalità. I dati clinici offerti dalla neuropsicologia sono di fondamentale importanza per questo tipo di modello in quanto riguardano il disgregamento o le disfunzioni delle capacità cognitive: talvolta componenti diverse della mente «si guastano» indipendentemente l'una dall'altra, offrendo indizi sulla loro localizzazione nella struttura globale. L'essenza della mia ipotesi è che la mente dell'uomo attuale si sia evoluta da quella dei primati attraverso una serie di grandi adattamenti, ognuno dei quali portò alla comparsa di un nuovo sistema rappresentativo. Ciascun nuovo sistema di rappresentazione successivo si è conservato intatto nell'architettura mentale attuale: la nostra mente è quindi un mosaico delle vestigia cognitive dei primi stadi dell'evoluzione umana. Tali vestigia evocano il principio evoluzionistico della conservazione delle prime conquiste e, almeno in teoria, sono paragonabili a molti dei nostri comportamenti residuali, come digrignare i denti per la rabbia o «ululare» per il dolore. Di conseguenza sosterrò che la moderna struttura rappresentativa della mente umana racchiude in sé le conquiste sia di tutti i nostri progenitori ominidi sia di alcune specie di scimmie antropomorfe. Ben lungi dall'essere una tabula rasa, l'architettura cognitiva dell'uomo attuale è fortemente differenziata e specializzata. E, nonostante la nostra stretta parentela genetica con le antropomorfe, la distanza cognitiva fra l'uomo e queste specie è immensa, più di quanto l'anatomia comparata possa lasciare immaginare. Qui la parola chiave è rappresentazione. L'uomo non ha semplicemente sviluppato un cervello più grande, una memoria espansa, un lessico o un particolare apparato fonatorio, ma ha anche evoluto nuovi sistemi di rappresentazione della realtà. Durante questo processo il nostro apparato di rappresentazione ha in qualche modo intuito l'utilità dei simboli e li ha inventati dal nulla: in natura non esistevano simboli cui ispirarsi. Il problema del riferimento simbolico è sempre stato il tallone di Achille dell'approccio computazionale al linguaggio. La difficoltà è la seguente: per comprendere o utilizzare appropriatamente un simbolo in un certo contesto bisogna innanzitutto comprendere che cosa esso rappresenti, ma questa comprensione referenziale è per sua natura non simbolica. Per esempio, per comprendere perché sia spiritoso chiamare «Raskòl'nikov» un cane da caccia che ama starsene da solo, bisogna sapere qualcosa del romanzo di Dostoevskij, qualcosa della natura malinconica e poco socievole dei cani da caccia e qualcosa dell'umorismo contemporaneo. Nessuna di queste nozioni può essere ottenuta ricorrendo ad altri simboli. Molti degli algoritmi computazionali, invece, possono fare soltanto questa operazione: dal momento che il computer di per sé non possiede alcuna conoscenza, il programmatore o colui che utilizza il programma devono fornirgli i significati. Il problema non potrà essere risolto nemmeno ricorrendo a un modello di computer non rappresentativo (Brooks, 1989); questi sistemi, in ultima analisi, hanno gli stessi limiti degli animali privi di intelligenza simbolica. Nello stesso modo in cui i tradizionali programmi IA non usano altro che simboli, molti animali non sono affatto in grado di utilizzarli, e nessun animale eccetto l'uomo ha mai inventato un sistema simbolico nel proprio ambiente naturale. L'interrogativo è il seguente: come ha potuto l'uomo, con la sua eredità non simbolica di mammifero, arrivare a rappresentare il proprio sapere in forma simbolica? Quali sono stati gli stadi di questo sviluppo? Come è stato possibile per l'uomo superare l'enorme distanza che separa il pensiero simbolico dalle forme di intelligenza non simbolica tuttora dominanti nel resto del mondo animale? Durante il periodo relativamente breve della transizione all'uomo la struttura mentale propria dei primati fu radicalmente alterata, o piuttosto gradualmente rivestita da nuovi sistemi di rappresentazione e inglobata in un apparato cognitivo più ampiamente sviluppato. Un aspetto inusuale di questo libro consiste nell'avere ricondotto fattori sia biologici sia tecnologici entro un singolo continuum evolutivo. Dimostrerò che i recentissimi cambiamenti nell'organizzazione della mente umana sono fondamentali quanto quelli avvenuti nel corso di precedenti transizioni evolutive; questi, tuttavia, invece di essere codificati geneticamente nel cervello vengono mediati da nuove tecnologie di memoria. Gli effetti di tali cambiamenti tecnologici sono simili a quelli delle prime trasfonnazioni biologiche in quanto possono produrre mutamenti dell'architettura della memoria umana. La mente attuale, quindi, è una struttura ibrida che contiene sia le vestigia dei primi stadi della transizione all'uomo sia le nuove strutture simboliche che ne hanno radicalmente modificato l'organizzazione. La relazione strutturale fra le singole menti umane e la tecnologia delle memorie esterne continua a cambiare; questo libro intende fornire un primo schema concettuale entro il quale si possa osservare la nostra evoluzione mentale tuttora in atto. | << | < | > | >> |Pagina 13L'architettura mentale come fenomeno emergente La neuropsicologia e le scienze cognitiviste si occupano soprattutto della struttura fondamentale della mente dell'uomo attuale. Quantunque questa sia stata studiata prestando anche una certa attenzione alla successione filogenetica dei mutamenti che la riguardano (vedi per esempio Anderson, 1983), la ricerca è stata focalizzata prevalentamente sulla struttura attuale delle capacità mentali umane, senza riferimento agli aspetti evolutivi. Non è eccessivo affermare che le teorie della struttura cognitiva sono costruite in gran parte su studi della mente umana così come essa si manifesta nelle società alfabetizzate postindustriali e su studi condotti nel campo dell'intelligenza artificiale. La straordinaria varietà di teorie che ne è derivata è stata costruita prevalentemente al di fuori dei vincoli cui sono assoggettate le ipotesi evolutive: la continuità con le forme ancestrali, la rispondenza a pressioni selettive, la cautela circa il numero e la complessità dei successivi adattamenti e così via. Il risultato è una proliferazione di modelli mentali strutturali - vale a dire modulari - che non tengono conto della credibilità biologica, e ciò accade persino nell'ambito della neuropsicologia. Nella prassi della biopsicologia e della biologia comparata, d'altro canto, l'uomo è sempre stato considerato «dal basso», ovvero in rapporto ai mammiferi che lo precedettero. I ricercatori che operano nell'ambito di queste due discipline hanno posto la costruzione di filogenesi al centro dei propri studi, oltre a dedicarsi con impegno all'edificazione del fondamentale «ponte» concettuale fra la struttura mentale delle scimmie antropomorfe e quella dell'uomo. Un esempio recente è rappresentato dal tentativo di Lieberman (1984) di specificare gli adattamenti che condussero alla comparsa del linguaggio nell'uomo. Poiché le antropomorfe, e in particolare gli scimpanzé, sono geneticamente molto simili all'uomo, la chiave interpretativa dell'unicità dell'intelletto umano viene ricercata nel confronto con la mente di questi grandi primati. Ciononostante, le teorie proposte dai biopsicologi e dai biologi comparati sono tutt'altro che ricche di dettagli sulla struttura mentale, e ancor meno sulle funzioni cognitive superiori. Ciò è in parte dovuto al fatto che la terminologia usata per descrivere le capacità cognitive degli animali non umani non sempre combacia con quella utilizzata per l'uomo. L'unitarietà terminologica, d'altra parte, nei casi in cui è stata applicata ha spesso mancato di fare giustizia alla complessità dell'intelletto umano. Ma che una data teoria dell'evoluzione cognitiva si inizi «dal basso» oppure «dall'alto», finirà comunque per far proprio uno dei due diversi approcci alle funzioni superiori, quello «modulare» o quello «unitario». Le teorie modulari, da taluni denominate teorie delle facoltà, propongono un certo numero di «moduli» cognitivi quasi-indipendenti responsabili per ciascun aspetto dissociabile o isolabile delle funzioni superiori. La specifica disposizione dei moduli in ciascuna teoria è variabile, ma in genere ciascun modulo mentale comprende una funzione mentale superiore definibile, o almeno un suo stadio. Possono esservi strutture separate (e, conseguentemente, adattamenti evolutivi separati) per l'apprezzamento spaziale, la capacità matematica, il talento musicale, l'abilità fonologica, il lessico orale, il lessico scritto, le immagini mentali visive, il pensiero non verbale e quello verbale, per citarne solo alcune. Le teorie modulari dell'evoluzione del linguaggio affondano le loro radici biologiche negli scritti di Darwin (1871) e di Wernicke (1874), entrambi convinti dell'esistenza di una serie di specifici adattamenti umani sfociati nella capacità di linguaggio verbale. Nella nostra epoca queste nozioni hanno trovato espressione nelle teorie biologiche del linguaggio proposte da Lenneberg (1967) e da Lieberman (1975, 1984). Il più recente esempio autorevole di approccio modulare è costituito dalla teoria neurolinguistica di Shallice (1988). Le teorie unitarie, per converso, sostengono generalmente che l'uomo è pervenuto alle funzioni superiori mediante una singola struttura cognitiva, vale a dire un singolo adattamento, ma talora ammettono che i meccanismi del linguaggio periferici, o sensoriali-motori, possono rappresentare un'eccezione. Anderson (1983) ha sostenuto in modo convincente questa linea di pensiero in The Architecture of Cognition. La sua difesa dell'approccio unitario poggia su tre argomentazioni: (1) le funzioni superiori dell'uomo hanno una storia evolutiva molto breve, e non vi sarebbe stato tempo per l'evoluzione di particolari facoltà, come ad esempio quelle matematiche; (2) l'intelligenza umana è altamente plastica, o flessibile, e mostra una varietà di capacità particolari imprevedibili nel corso dell'evoluzione; (3) le diverse funzioni cognitive superiori dell'uomo hanno numerose caratteristiche comuni. | << | < | > | >> |Pagina 18Cultura come prova dell'esistenza di strutture cognitiveUn elemento che spesso trascuriamo quando tentiamo di costruire modelli delle nostre capacità cognitive è la cultura, vale a dire l'insieme di comportamenti acquisiti che caratterizzano una specie e che sono condivisi dai suoi membri. Ma le capacità cognitive degli animali influiscono direttamente sul tipo di cultura cui essi danno origine, e nel caso dell'uomo è vero anche l'inverso: alcuni tipi di cultura influiscono direttamente sulle capacità cognitive del singolo individuo. Di fatto si potrebbe affermare che l'unicità del genere umano risiede non tanto nella capacità di linguaggio quanto in quella di produrre rapidi mutamenti culturali. Volendo porre la questione in termini ancora più precisi, ciò che l'umanità evolse fu innanzitutto una generica capacità di innovazione culturale. Parte di questa fu la comunicazione verbale e parte fu la capacità di pensare e di rappresentare l'ambiente. Si tratta di una questione molto facilmente sostenibile dal punto di vista della teoria evoluzionistica, poiché i vantaggi selettivi che sarebbero derivati a una specie capace di innovazione culturale sarebbero stati immensi. Le testimonianze archeologiche e antropologiche convergono nel sostenere il concetto che il ritmo di mutamento culturale si accrebbe nel corso dell'evoluzione ominide, all'inizio lentamente (Homo erectus cambiò ben poco nell'arco di un milione di anni), poi più rapidamente (i primi rappresentanti di Homo sapiens conseguirono parecchie innovazioni importanti in 200.000 anni) e infine con un'accelerazione costante per quanto riguarda Homo sapiens sapiens, l'uomo attuale. Dunbar (1990) ha recentemente proposto che l'encefalizzazione fu promossa non dalle esigenze cognitive correlate alla fabbricazione di strumenti o al possesso di una mappa mentale dell'ambiente ma dalla crescente dimensione dei gruppi sociali. In altri termini, non fu l'intelligenza strumentale ad avviare l'espansione encefalica, bensì l'intelligenza sociale. Una società complessa richiede molto alla memoria: l'organizzazione di un gruppo numeroso esige che un gran numero di rapporti sia analizzato, compreso, memorizzato e intrattenuto regolarmente. Con alcune eccezioni, i primati più in alto nella scala evolutiva tendono a formare i gruppi più numerosi; il fenomeno culmina con la capacità umana di organizzare e mantenere gruppi di amplissime dimensioni. Può darsi che le capacità intellettive necessarie per questo scopo siano identiche a quelle occorrenti per l'innovazione culturale. I primi adattamenti avvenuti sulla linea evolutiva degli ominidi potrebbero essere stati promossi dalla necessità di formare gruppi, e le innnovazioni culturali potrebbero esserne state il corollario. [...] Un corollario è che l'evoluzione delle strutture cognitive a livello modulare potrebbe essere proseguita molto oltre il limite raggiunto dall'evoluzione fisica. Le culture ristrutturano la mente, non solo in termini di contenuti specifici - palesemente determinati dalla cultura - ma anche nella sua organizzazione neurale fondamentale. Che questa organizzazione si presenti sotto forma di un insieme parallelo di specifici adattamenti cerebrali oppure no (e palesemente talora non lo è), possiamo affermare che il cervello pone al processo di evoluzione cognitiva minori vincoli di quanto si pensasse in precedenza. La cultura può letteralmente riconfigurare i modelli di utilizzazione del cervello, e dalla nostra attuale conoscenza della plasticità cerebrale riteniamo di poter dedurre con una certa affidabilità che tali modelli hanno un ampio ruolo nel determinare, in termini di strutture cognitive, la straordinaria plasticità che caratterizza il sistema nervoso centrale dell'uomo. | << | < | > | >> |Pagina 24L'organizzazione di questo libroQuesto libro avanzerà due proposte: (1) una tesi evolutiva che espone l'ipotesi migliore sul modo in cui l'uomo è pervenuto alla sua attuale condizione, e un corrispondente modello cognitivo della transizione dalla condizione delle antropomorfe a quella umana; e (2) una proposta strutturale, intesa come tentativo di comprensione dell'architettura cognitiva suggerita dallo scenario summenzionato. Lo scopo di questo esercizio intellettuale, con tutti i rischi che esso comporta, è di produrre un modello delle strutture cognitive superiori compatibile con le testimonianze cognitive e neurolinguistiche di cui disponiamo, entro i vincoli convenzionali della teoria evoluzionistica. L'approccio qui adottato fa ricorso a relativamente pochi adattamenti biologici fondamentali, ma non è così semplice quanto un semplice modello unitario. È difficile conciliare un approccio unitario con i dati neurolinguistici esistenti. Tuttavia la complessa struttura modulare rivelata da questi dati non deve essere interamente attribuita ad adattamenti geneticamente determinati. Come abbiamo già spiegato, alcune delle strutture neuropsicologiche osservate nell'uomo attuale possono essere interpretate come il prodotto dell'evoluzione biologica e altre come l'imposizione di vincoli culturali e tecnologici sulla maturazione e sulla crescita neuropsicologica. Ma, anche dopo aver considerato come i fattori culturali potrebbero spiegare alcune strutture cognitive, i restanti fattori biologici continuano a richiedere più di un semplice adattamento unitario, quale potrebbe essere un encefalo più espanso. Non sorprende che il punto di inizio di questa avventura sia Charles Darwin. Nel 1871 egli propose alcune idee sull'evoluzione cognitiva umana che da allora sono state in gran parte dimenticate. Nel Capitolo 2 rivedremo queste idee e alcune delle loro precorritrici. Le proposte di Darwin, quantunque basate su informazioni molto inferiori a quelle di cui disponiamo attualmente, hanno il vantaggio di essere state costruite su un'ampia visione delle testimonianze; il suo approccio fu intrinsecamente interdisciplinare, ed egli attinse a ogni fonte che avesse rilevanza per la sua argomentazione: botanica, geografia, zoologia, psicologia, scienze sociali e medicina. Lo stesso si può dire dell'approccio qui adottato; il problema dell'evoluzione cognitiva impone di ricorrere alla più vasta gamma di informazioni disponibili, ma oggi comprende nuovi campi che al tempo di Darwin non esistevano come discipline distinte: la neurolinguistica, l'antropologia, la paleontologia, la neuroanatomia e specialmente la psicologia cognitivista. Il Capitolo 3 presenta la dimensione neuropsicologica dell'evoluzione cognitiva umana. Esso si inizia con Wernicke ma si sposta rapidamente nell'era attuale e compie una ricognizione dei dati disponibili della struttura sottostante a ciò che Churchland (1986) chiama - con una denominazione al contempo appropriata e sgraziata - la «mente-cervello». Il Capitolo 4 contiene una breve esposizione di alcuni dati archeologici fondamentali e tenta di stabilire una sommaria cronologia dei mutamenti cruciali avvenuti negli ominidi per poi passare alla discussione dei tentativi compiuti dagli antropologi di ricostruire le culture degli ominidi arcaici. La tesi centrale inizia a svilupparsi nel Capitolo 5, dove vengono analizzate la mente e la cultura delle grandi antropomorfe e le analisi vengono utilizzate come punto di partenza per la costruzione di un ponte cognitivo-evolutivo verso la mente e le culture dell'uomo attuale. La proposta evolutiva in sé, comprendente tre ipotetiche transizioni occorse durante l'evoluzione del cervello e della mente umani, è descritta nei Capitoli 6, 7 e 8. In essa sono ipotizzati due adattamenti biologici fondamentali, l'uno verificatosi durante l'evoluzione di Homo erectus e l'altro durante l'evoluzione di Homo sapiens. Viene proposto anche un terzo adattamento - in quanto necessità logica - per Homo sapiens attuale, ma l'hardware sottostante è più tecnologico che biologico. Ciononostante il terzo adattamento è stato non meno reale e rivoluzionario, in termini di architettura delle funzioni cognitive, dei primi due. | << | < | > | >> |Pagina 116Pietre miliari nella cronologia dei mutamenti La ricostruzione della preistoria umana è una componente necessaria quando si voglia risalire alle origini della nostra mente, ma molte delle testimonianze disponibili sui primati e sulle più antiche forme del genere Homo sfiorano appena il nostro studio, e io tenterò di soffermarmi selettivamente sulle scoperte più significative per la comparsa del pensiero e del linguaggio. Si potrebbe dedurre da questa premessa che lo studio dei grandi cambiamenti anatomici sia irrilevante. Il bipedismo, il pollice opponibile, un elaborato apparato vocale e persino un cervello espanso non sono in sé né necessari né sufficienti per il linguaggio. Ciascuno di questi caratteri può essere osservato in qualche misura in altre specie che non possiedono nulla di somigliante al linguaggio umano, ed è stato dimostrato che l'uomo ha capacità di linguaggio in assenza (causata da anomalie genetiche o malattie) di alcuni di essi, o anche di tutti. Lo stesso tentativo di trovare un semplice rapporto di causa ed effetto fra il tratto vocale sopralaringeo dell'uomo attuale e il linguaggio articolato sarebbe un esercizio inutile. Wind (1976) ha trattato questo tema in modo convincente. Ma nell'evoluzione un visibile cambiamento anatomico indica sempre un concomitante mutamento funzionale, quindi lo studio della morfologia può contribuire a stabilire quanti importanti stadi evolutivi hanno segnato la nostra filogenesi fino a quello attuale, e quando ciascuno venne raggiunto. L'anatomia è stata, prima di ogni altra cosa, la testimonianza utilizzata per stabilire la successione di specie nel cammino filogenetico, e ci offre il mezzo per dare una collocazione cronologica ai mutamenti di grande portata. Un mutamento quale la comparsa del tratto vocale nell'uomo fa parte di un quadro biologico più ampio ed è un prodotto di interazioni con mutamenti culturali continui. Il tratto vocale non comparve isolatamente come frutto di un radicale cambiamento nella comunicazione fra ominidi, né tale cambiamento sarebbe potuto comparire se non fossero già esistite facoltà cognitive appropriate. | << | < | > | >> |Pagina 119Tav. 4.1. Cronologia approssimativa della successione di ominidi espressa in anni dal presente. 5 milioni di anni: la linea evolutiva degli ominidi e quella dello scimpanzé ancestrale si separano da un progenitore comune 4 milioni di anni: prime australopitecine finora note * postura eretta * spartizione del cibo * divisione del lavoro * famiglia nucleare * prole numerosa * svezzamento più tardivo 2 milioni di anni: le più antiche testimonianze di Homo habilis * come sopra, con la comparsa di rozzi strumenti * capacità cranica variabile, ma con tendenza all'espansione encefalica 1,5 milioni di anni: Homo erectus * encefalo molto più voluminoso * strumenti più elaborati * migrazione fuori dell'Africa * accampamenti stagionali * uso controllato del fuoco, costruzione di ripari 0,3 milioni di anni: Homo sapiens arcaico * secondo accrescimento encefalico di rilievo * l'anatomia del tratto vocale inizia ad assumere una morfologia moderna 0,05 milioni di anni: Homo sapiens pienamente moderno | << | < | > | >> |Pagina 144Conclusione: la questione degli stadi cognitiviEntrambe le linee di ragionamento sull'origine del linguaggio hanno una base logica e fattuale. Le testimonianze in nostro possesso indicano sia che il QE si accrebbe in una serie di cambiamenti successivi sia che l'apparato vocale comparve tardi nel corso dell'evoluzione umana, approssimativamente in coincidenza con un'improvvisa e rapida accelerazione del ritmo di innovazione culturale dell'uomo. È possibile che l'encefalizzazione possa spiegare da sola gran parte delle basi fisiche del linguaggio, e che il nostro particolare apparato vocale non sia stato solo un completamento, qualcosa di utile per migliorare una capacità che era emersa gradualmente. Ma è possibile anche l'opposto, cioè che la cultura ominide sia stata essenzialmente quella delle antropomorfe fino a tempi molto recenti, quando il linguaggio verbale comparve sulla scena, e che lo sviluppo dello speciale apparato vocale in grado di conferirci la capacità di parlare sia stato una sorta di spartiacque della nostra evoluzione cognitiva. Tutto ciò conduce a un dilemma che si presenterebbe a chiunque tentasse di costruire una teoria dell'evoluzione del linguaggio priva di una base razionale di natura cognitiva. Se il teorico si affida interamente, o in gran parte, a testimonianze archeologiche e morfologiche per ricostruire gli stadi di sviluppo, gli sarà difficile scegliere fra le alternative che emergono dai dati fisici. Lieberman, ovviamente, si affidò a qualcosa di più dei dati fisici, e così fece Passingham, ma entrambi gli approcci si rivelarono più biologici che psicologici, e comunque non guidati da alcuna teoria cognitiva. Tuttavia il dominio cognitivo è palesemente l'arena appropriata per un dibattito sulla genesi del linguaggio. Questo è un riflesso dell'intelligenza del parlante, ed è limitato dalla sua memoria, dalle sue conoscenze e dalle sue capacità. Il linguaggio trae il proprio significato dai più vasti domini cognitivi dell'esperienza e del contesto ed è, in un certo senso, secondario all'evoluzione delle facoltà cognitive fondamentali. Il dibattito sulla sua comparsa si identifica quindi con il dibattito sulla comparsa di tutti gli stili di rappresentazione peculiarmente umani. [...] In conclusione, il cammino dell'evoluzione umana è segnato da eventi, sia anatomici sia culturali, che collocherebbero i mutamenti di maggior rilievo a 4 milioni di anni, a 1,5 milioni di anni e a circa 200.000 anni or sono. Fra questi eventi «marcatori» vi furono lunghi periodi di cambiamento più lento, durante i quali si verificarono variazioni meno vistose sia nell'anatomia che nella cultura degli ominidi. La comparsa delle australopitecine e di tutti i mutamenti anatomici e culturali che l'accompagnarono, datata a 4 milioni di anni fa, fece sì che si affermassero alcune delle strutture sociali essenziali che ancora oggi caratterizzano le società umane, e particolarmente il legame di coppia che riduce l'aggressività all'interno del gruppo e la cooperazione sociale nell'approvvigionamento del cibo e nella cura della prole. Se non fossero intervenuti questi cambiamenti nelle strategie di sussistenza, il bipedismo avrebbe esposto le australopitecine al pericolo di una rapida estinzione. A partire da circa 2 milioni di anni or sono si verificarono sia un'imponente espansione encefalica che un radicale cambiamento culturale, e in conseguenza di ciò gli ominidi iniziarono ad accumulare capacità che avrebbero condotto alla nascita di industrie litiche distintive, alla caccia di gruppo sistematica, all'allestimento di accampamenti stagionali, alla diffusione fuori dell'Africa e all'uso controllato del fuoco. Simili cambiamenti culturali implicano radicali cambiamenti cognitivi; ne consegue che il primo importante marcatore cognitivo dovrebbe essere collocato intorno a 1,5 milioni di anni, con la comparsa di Homo erectus. Il secondo dovrebbe invece essere collocato in corrispondenza della speciazione di Homo sapiens, intorno a 200.000 anni or sono, quando sia l'anatomia sia la cultura subirono un altro radicale cambiamento. Il cervello si espanse ulteriormente giungendo alla dimensione attuale, e anche l'apparato vocale subì mutamenti. L'innovazione culturale si fece molto più rapida, conducendo l'uomo prima al Neolitico e poi a quel serrato ritmo di mutamento culturale che caratterizza la nostra epoca. Vi è concordanza generale sul fatto che il linguaggio simbolico rapidamente articolato sia un'innovazione recente, e ciò implica che anche le facoltà cognitive basate sul linguaggio sono di origine recente. Vi è altresì una considerevole discordanza su che cosa, precisamente, la recente acquisizione del linguaggio comportò in termini di strutture cognitive fondamentali e di strutture neurali. Questo interrogativo è strettamente correlato all'ordine di successione dei cambiamenti cognitivi. In qual modo il linguaggio si situò nell'architettura cognitiva degli ominidi già esistente? La risposta a questo importante interrogativo dipende da quali capacità cognitive siano attribuite a Homo erectus, vale a dire da quali aspetti attribuiamo alla più rilevante cultura ominide intermedia. Ammettendo che le capacità intellettive di Australopithecus fossero ancora molto simili a quelle dei primati, e che Homo sapiens arcaico fosse biologicamente molto vicino all'uomo attuale, l'architettura cognitiva di Homo erectus e di altre specie intermedie come Homo habilis diventa la questione centrale. Se vi fu uno strato intermedio di funzioni - un cervello ominide arcaico, quasi ma non del tutto umano - quale fu la sua struttura, e che cosa essa permetteva a Homo erectus di fare? A quale genere di cultura questa intelligenza umana prelinguistica avrebbe dato luogo? Per rispondere non potremo fare a meno di iniziare dalla struttura cognitiva, e dalla cultura, delle antropomorfe. | << | < | > | >> |Pagina 193Cultura mimica: l'anello mancante Nel presente capitolo proporrò che una cultura arcaica ma inequivocabilmente umana abbia mediato la transizione dalle antropomorfe all'uomo. Questo strato culturale intermedio viene definito mimico sulla base del modo di rappresentazione predominante. Sebbene le prove al riguardo siano indirette, io le ritengo persuasive; di fatto, uno strato intermedio di cultura cognitiva è una necessità logica che si affaccia nel corso della costruzione di uno scenario credibile dell'evoluzione umana. La nozione specifica di una cultura mimica a sé è congruente con il concetto di vestigia cognitive, e più avanti sosterrò che nella società umana attuale sono rimaste tracce dei modelli di uso delle rappresentazioni mimiche distinguibili da quelle dell'uso delle nostre acquisizioni cognitive susseguenti. La nostra cultura, in effetti, racchiude tuttora le vestigia della cultura mimica, nello stesso modo in cui quelle della mente mimica sono racchiuse nell'architettura complessiva della mente dell'uomo attuale. Un adattamento cognitivo dell'umanità arcaica assolve diverse importanti funzioni nella concatenazione delle ipotesi evolutive. Da una parte è possibile costruire sistematicamente tali ipotesi a partire dalla cultura episodica delle antropomorfe e, dall'altra, ciascuna ipotesi può essere fatta collimare con la nostra conoscenza della struttura cognitiva e culturale dell'uomo biologicamente moderno. Ma, e forse è ugualmente importante, un adattamento cognitivo dell'umanità arcaica dovrebbe fornire una solida base per le innovazioni cognitive succedutesi nel corso dell'evoluzione umana. Conseguentemente dovremmo poter constatare che la transizione dalla cultura dell'uomo arcaico a quella dell'uomo moderno avvenne nel modo più naturale e continuo. Considerati questi vincoli, dovremo tenere presenti tre ricche fonti di testimonianze: il punto di partenza (cultura episodica), il punto d'anivo (l'uomo biologicamente moderno) e i resti archeologici direttamente collegabili alle capacità cognitive dei nostri progenitori. [...] Un riassunto delle conclusioni tratte nei capitoli precedenti può essere di aiuto. Una conclusione, basata su considerazioni strettamente anatomiche, era stata che il linguaggio verbale fluente fu un'innovazione relativamente recente, nonché una caratteristica peculiare di Homo sapiens. Poiché un rapido cambiamento culturale è così strettamente legato alla comparsa di un linguaggio simbolico, appare improbabile che Homo erectus, i cui cambiamenti furono piuttosto lenti, lo possedesse in qualche forma. Ciononostante sembra che egli si fosse liberato di alcuni vincoli posti dalla cultura episodica e avesse compiuto un importante progresso cognitivo. Un'altra conclusione era stata che prima dell'evoluzione di un sistema rivoluzionario quale fu il linguaggio umano, dovette affermarsi uno stadio cognitivo. La comparsa del linguaggio dovette avere un fondamento razionale immediato, poiché i meccanismi dell'evoluzione non hanno il dono della preveggenza. La pressione adattativa immediata per questo nuovo carattere doveva avere uno stretto rapporto con le strutture già affermatesi nella cultura precedente. Di conseguenza la cultura dei primi ominidi dovette non solo costituirsi sulle culture episodiche delle antropomorfe ancestrali e delle australopitecine, ma anche possedere proprietà che servirono da base per la successiva comparsa del linguaggio tipicamente umano. Per creare uno scenario di questo adattamento - la forma arcaica, originaria, della cultura ominide - non è sufficiente indicare alcune caratteristiche della mente o del cervello dell'uomo (per esempio l'encefalizzazione, la lateralizzazione emisferica, il controllo motorio seriale, la capacità fonologica, la coscienza, il generativismo, la sintassi o l'intenzionalità) e tentare di costruire un modello intorno a quelle caratteristiche, ma dovremmo piuttosto cercare un modello di adattamento completo e autosufficiente da interporre fra la mente/cultura dell'uomo attuale e la mente/cultura episodica precedente. Un'ulteriore conclusione, derivata in gran parte da evidenze neuropsicologiche, è che il linguaggio è una capacità isolabile, anche nell'uomo attuale. Frate John fu probabilmente il più importante caso clinico in cui si poté studiare la mente umana privata della parola, della lettura, della scrittura e del linguaggio interiore. Ma ne sono stati studiati anche altri in cui una perdita parziale della capacità di linguaggio rivelò qualcosa sulle attività mentali non linguistiche. Inoltre anche nel bimbo in età preverbale si scorgono segni di intenzionalità, e i resoconti sui sordomuti analfabeti del passato ci hanno permesso di intravedere aspetti della mente umana in assenza di linguaggio simbolico. Tutte queste testimonianze, quantunque frammentarie, conducono alla stessa conclusione: anche in assenza di linguaggio la mente umana è incomparabilmente superiore a quella delle antropomorfe e possiede proprietà capaci di infrangere la struttura tipica della cultura episodica. | << | < | > | >> |Pagina 237In conclusione, la capacità mimica rappresentò un nuovo livello di sviluppo culturale, poiché condusse a una varietà di importanti nuove strutture sociali, compreso un modello comune della società. Essa fornì sia un nuovo mezzo di controllo e di coordinamento sociale, sia la base cognitiva per l'affermarsi della capacità pedagogica e dell'innovazione culturale. Nel cervello del singolo individuo la mimica fu in parte il prodotto di un nuovo sistema di rappresentazione di sé e per la maggior parte il prodotto di un sistema di controllo mimico sopramodulare in cui le azioni del sé possono essere impiegate per modellare le rappresentazioni di eventi percettivi. Molte delle caratteristiche cognitive di solito identificate esclusivamente con il linguaggio erano già presenti nella mimica, come la comunicazione intenzionale, la ricorrenza e la differenziazione del riferimento.La cultura mimica ebbe un successo pratico con la manifattura di strumenti e con attività socialmente coordinate quali la caccia, la gestione di accampamenti stagionali, l'uso controllato del fuoco. Ma la sua massima importanza risiede nel modellamento collettivo, e quindi nella strutturazione, della stessa società ominide. La cultura mimica fu un adattamento stabile e riuscito, una strategia di sopravvivenza attuata dagli ominidi per più di un milione di anni. Essa fornì le fondamentali strutture sociali e semantiche cui, in seguito, si sarebbe aggiunto il linguaggio simbolico. Le strutture cerebrali sottostanti all'azione mimica, osservabili solo nella linea evolutiva dell'uomo, fanno parte del cervello degli ominidi arcaici, quello stesso cervello che si sarebbe ulteriormente modificato per incorporare la capacità linguistica nel proprio armamentario di sistemi e di moduli. | << | < | > | >> |Pagina 238Linguaggio e nascita della cultura umana La cultura umana, nelle sue manifestazioni più fondamentali, è un modello integrato di adattamento, una strategia di sopravvivenza che può definirsi completa. Essa forma la più ampia struttura entro la quale devono situarsi le sue varie componenti cognitive, compreso il linguaggio. È un concetto difficile da collocare in prospettiva, considerando il ruolo dominante solitamente ricoperto dal linguaggio nei modelli cognitivi dell'uomo. Il linguaggio viene quasi sempre posto alla sommità della piramide cognitiva, ma non dobbiamo dimenticare che esso si evolse, e continua a essere impiegato, in un più vasto contesto culturale. Per comprendere quale valore adattativo il linguaggio ebbe all'inizio del proprio sviluppo dobbiamo considerare il modello complessivo della cultura umana originaria. Il problema è molto simile a quello della comparsa del bipedismo o delle capacità mimiche: poiché facevano parte di un più ampio modello di adattamento, né l'uno né le altre avrebbero avuto senso presi isolatamente. Lo stesso possiamo dire con certezza del linguaggio. Nella cultura umana il linguaggio è predominante, anche se non viene usato in ugual misura in tutte le aree di attività e anche se non è il solo mezzo di comunicazione e di pensiero. Esso potrebbe essere descritto come un sistema «dedicato», cioè specializzato per applicazioni particolari, e non come un dispositivo generico. Lo stesso vale per la capacità di pensiero che ad esso si associa. La capacità mimica possiede numerose proprietà comuni al linguaggio. Se noi la collochiamo in una posizione intermedia fra la cognizione episodica e il linguaggio dobbiamo anche domandarci quale fu l'apporto preciso di quest'ultimo. Al pari degli adattamenti cognitivi precedenti, il linguaggio venne innestato su una cultura e su un'architettura cognitiva preesistenti. Presumibilmente esso non si sostituì a ciò che già funzionava bene, ma si sviluppò in risposta a nuove pressioni selettive. Il linguaggio faceva parte di un adattamento culturale complessivo e di una più ampia architettura cognitiva. Dal punto di vista della scienza cognitiva, la sua essenza risiede nei modi in cui esso cambiò la fondamentale struttura della mente. | << | < | > | >> |Pagina 316La cultura mitica cede il predominio alla cultura teoretica I concetti di cultura episodica, mimica e mitica sono ampi e unificatori, ed esprimono la qualità cognitiva dominante della mente del singolo in relazione alla società. Le due precedenti transizioni hanno rappresentato grandi discontinuità qualitative rispetto al passato cognitivo. Una terza transizione cognitiva, di cui tratteremo nel presente capitolo, è anch'essa contraddistinta da un profondo discostamento dal modello culturale precedente, cioè dalla predominanza della lingua parlata e da un pensiero di tipo narrativo. Fin dall'inizio, e per necessità di semplificare, abbiamo presupposto che ciascun adattamento cognitivo verificatosi nella storia evolutiva dell'uomo sia stato conservato sotto forma di vestigio pienamente funzionale. La più semplice ipotesi di lavoro, fino ad ora, è che quando acquisimmo l'apparato richiesto prima per la mimica e poi per il linguaggio verbale conservammo le strutture cognitive, e le conseguenze culturali, di adattamenti precedenti. Un corollario è che non avremmo trovato le testimonianze dei cambiamenti fondamentali entro le espansioni dei sistemi rappresentativi esistenti, ma avremmo dovuto cercarle nei nuovi sistemi e nelle nuove classi di output cognitivo. Inoltre, per stabilire le precedenti transizioni cognitive avevamo utilizzato un criterio strutturale: esse furono accompagnate da fondamentali mutamenti dell'architettura cognitiva, il che attesta la sovrapposizione di una diversa organizzazione superordinata. Quindi potremmo sentirci giustificati per avere postulato un nuovo livello di funzionamento cognitivo se fossimo in grado di dimostrare che nel cervello umano si svilupparono nuovi sistemi rappresentativi e che la cognizione umana assisté a una riorganizzazione della propria architettura complessiva. | << | < | > | >> |Pagina 412Conclusione: la mente attuale è un ibridoSe potessimo ridurre l'era attuale a una singola dimensione caratterizzante, questa sarebbe la sua ossessione per i simboli e per il loro uso. I grandi passi avanti compiuti dalla logica e dalla matematica hanno permesso l'invenzione di elaboratori digitali e hanno già cambiato la vita umana. Ma in ultima analisi essi hanno anche il potere di trasformarla, poiché rappresentano uno spostamento potenzialmente irreversibile in direzione di una dominanza della struttura cognitiva completamente basata sul SISE [sistema di immagazzinamento simbolico esterno]. La computer graphics di cui attualmente la ricerca scientifica si avvale, gli effetti speciali utilizzati dal cinema e diverse altre capacità simili sono estensioni dirette di ciò che la vista può fare e per cui può essere usata. Tutte le forme umane di rappresentazione - dalla nostra antichissima base di esperienza episodica alla mimica e al linguaggio verbale fino alle più recenti capacità visuografiche sono ora perfezionabili ed espandibili con l'aiuto di mezzi elettronici. La mente dell'uomo attuale è dunque una mente ibrida, una combinazione altamente plastica di tutti i precedenti elementi dell'evoluzione cognitiva umana, permutati, combinati e ricombinati. Noi siamo ora mitici ora teoretici, e talora balziamo indietro alle radici episodiche dell'esperienza esaminando e ristrutturando gli effettivi ricordi episodici di eventi con l'aiuto della magia del cinema. Altre volte, invece, scivoliamo nel nostro antico io narrativo fingendo che nulla sia cambiato. Ma tutto è cambiato. Finora la crescita del sistema della memoria esterna è stata molto più rapida dell'espansione della memoria biologica, e non è eccessivo affermare che noi siamo indissolubilmente legati alla nostra grande invenzione, in una simbiosi cognitiva che non trova altri esempi in natura. La memoria esterna è il pozzo della conoscenza da cui noi attingiamo, la forza motrice della nostra incessante capacità inventiva e innovativa, la fonte di ispirazione in cui le generazioni che si succedono trovano scopo e orientamento e in cui noi custodiamo le nostre acquisizioni cognitive. Paradossalmente (poiché qualsiasi simbiosi con elementi esterni appare estranea alla natura umana), l'individualità dell'uomo si è ampiamente accresciuta con l'espansione del SISE, forse perché detiene una più ampia riserva di alternative fra cui ciascuna persona può scegliere, e perché, nonostante la presenza nella società di elementi mitici legati alla tradizione, è una sfida a trovare maggior significato nell'esistenza individuale che non nella vita di gruppo. L'insegnamento che possiamo trarre dalla storia della terza transizione - dall'invenzione visuografica alla gestione di dispositivi della memoria esterna fino allo sviluppo e all'addestramento nelle capacità metalinguistiche - è che essa non fu un dono della natura umana ma fu piuttosto una struttura dipendente sia dall'invenzione simbolica sia dall'hardware tecnologico. La natura non biologica dell'hardware non ha alcuna rilevanza dal punto di vista di una storia naturale della cognizione, poiché il risultato ultimo fu una transizione evolutiva non meno fondamentale delle precedenti. Quando i dispositivi della memoria esterna furono presenti e quando la nuova architettura cognitiva comprese un circuito della memoria esterna illimitatamente espandibile e perfezionabile, erano state gettate le fondamenta delle future strutture teoretiche. Dobbiamo dunque ammettere il seguente corollario: nessuna spiegazione della capacità umana di pensiero che ignori la simbiosi fra memoria biologica e memoria esterna può essere considerata soddisfacente. Parimenti, non può essere accettata alcuna spiegazione che non sia in grado di stabilire in modo convincente l'ordine storico in cui l'invenzione simbolica si sviluppò.
Questa storia naturale dello sviluppo della
cognizione umana, e particolarmente l'ultima parte dello scenario, iniziò come
impresa fortemente speculativa. Ma di fatto vi è stata minore libertà nel
costruirne un resoconto evolutivo di quanto ci si sarebbe potuto aspettare.
Ciascuna delle tre transizioni ha comportato la costruzione di un adattamento
rappresentativo interamente nuovo e relativamente a sé stante, un modo di
rappresentazione del mondo umano capace di confermare l'esistenza di un certo
livello di cultura e di una strategia di sopravvivenza cui il genere umano era
pervenuto. Ciascuno stile di rappresentazione acquisito nel corso
dell'evoluzione umana è stato conservato, formando una cerchia sempre più ampia
di pensieri rappresentativi. Il risultato è un sistema di canali mentali al
contempo rappresentativi e paralleli in grado di elaborare il mondo
congiuntamente.
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