Copertina
Autore Luca Doninelli
Titolo Il crollo delle aspettative
SottotitoloScritti insurrezionali su Milano
EdizioneGarzanti, Milano, 2005, Saggi , pag. 184, cop.fle., dim. 137x210x15 mm , Isbn 978-88-11-62044-0
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe citta' , citta': Milano
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Indice

Prefazione                                                 5

Una ragguardevole piccolezza. Ricognizioni                 9

    Albette di luce, 9;
    «Nello sbadiglio immenso di Milano», 12;
    Postilla. Il gioco del rovescio, 14;
    L'economia del visibile, 17;
    Congregavit nos in unum Christi Amor, 19;
    Ma mi, 24;
    Le acrobazie della disonestà, 29

Nell'ombra di quella luce. Passeggiate                    37

    Case milanesi, 37;
    Edilizia popolare. 37;
    Dove c'è Milano c'è casa, 39;
    Abitazioni decorose, 41;
    Monaci e barbari, 45

Gli eroi del lunedì. Note sul carattere dei milanesi      53

    L'irrequietezza, 53;
    L'impresa come azione quotidiana, 55;
    Il rodimento, 59;
    Il familismo, 63;
    Il magone, 66;
    Il «baüscia», 69;
    La brevità del tempo, 72

Missa solemnis, missa horribilis. Le cattedrali di Milano 77

    Una città-donna, 77;
    L'altra cattedrale, 83;
    Un'umanità a parte, 86;
    La Scala, tempio e rudere, 92;
    Le cattedrali perdute, 95

Istantanee                                               101

    Corpi e anime, 101;
    La chimica dell'anonimato, 105;
    Dove si trova Milano?, 110;
    Borsette, 126

Cambio di stagione                                       133

    Processi, 133;
    Università, 137;
    Modelli culturali, 144;
    Il modello romano, 151;
    E mo?, 154;
    L'altro progetto, 158

I meriti pregressi                                       163

    Ingegneri, 163;
    Una città vincente?, 166;
    Milano e Leonardo, un rapporto controverso, 169;
    L'ingegneria della grandezza (con una brevissima nota
    su Carlo Emilio Gadda), 173

Ringraziamenti                                           177

 

 

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Pagina 5

PREFAZIONE



Perché Il crollo delle aspettative? Proprio adesso che lo skyline cittadino sta per essere allietato da tre grattacieli? Proprio adesso che i vecchi spazi della Breda diventano il nuovo formidabile padiglione dell'arte, la nuova expo del post-Disastro? Proprio adesso che la Scala, che la Bovisa, che la Bicocca? Perché questo malanimo così poco anticonformista e così eccessivamente milanese?

Il fatto è che, dopo anni in cui covava la voglia di scrivere qualcosa su Milano, ci siamo accorti, io e qualche amico, che il problema stava proprio lì: nel crollo delle aspettative. C'è stato, in altre parole, un momento in cui le aspettative di questa città riguardo al proprio futuro sono crollate, e Milano ha smesso di nutrire stima verso sé stessa. Un problema che per ora non sembra essere stato adeguatamente affrontato.

L'emblema di questo crollo si trova in quello che io chiamo «il grande sterro»: un'area piuttosto limitata, popolata di erbacce, sottoponti, locali fighetti, ritrovi per giovani rampanti, cavalcavia pedonali da periferia sperduta, ristoranti modaioli, nella quale si può toccare con mano il tiepido abisso in cui l'assenza forzata di un progetto credibile e la quasi impossibilità - culturale e storica - di reperirne uno in tempi ragionevoli ha sospinto una delle città più importanti e, purtroppo, più complicate d'Europa. È l'area che comprende le ex Varesine, la stazione di Porta Garibaldi, fino alla porta omonima, che include il brevilineo corso Como. Qui una Milano da happy hour si scontra, nel giro di pochi metri, con tutto ciò che avrebbe dovuto essere, e che la parola «centro direzionale», espressione dal meaning ormai pesantemente nostalgico, riassume alla perfezione.

Non è un'area in cui si possa fare una passeggiata, questa. Ecco lì due grattacieli inutili, ecco qui un ponte pedonale in cemento grezzo, stile afghano. Ed ecco i locali chic, con tutta questa gente che se ne sta lì fuori, si direbbe ad aspettare.

Oggi Milano sembra fatta apposta per una tipologia umana molto ristretta: trentenni, single, impiegati, gente che esce la sera ma prima passa da casa a cambiarsi d'abito, e prima di passare a casa a cambiarsi si ferma per l'happy hour - dove in pratica, tra stuzzichini e assaggi, si può cenare a pochissimo prezzo, cosa che a Milano piace anche a chi ha molti soldi. Una tipologia umana che però non può permettersi di fare la storia di una città, e che qui, allo sterro, mentre aspetta di poter entrare nel celebre locale, si trova faccia a faccia con il sogno perduto: quello - databile tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta - in cui Milano, già ricca, pensò di poter diventare anche una città potente.

Direzionale. Milano poteva legittimamente ambire (e qualcuno vi ambisce ancora) a diventare la capitale del Sud Europa. Perché esiste, questo si sa, un potere dei soldi, ma potere e soldi non sono la stessa cosa. Per unirli ci vuole una cultura, ossia un'immagine di sé, ci vuole uno specchio, ci vuole una città a misura della ricchezza, ci vuole una rappresentanza. Altrimenti i soldi danno alla testa.

Un uomo ricchissimo che vive da pitocco in settanta metri quadrati non è la stessa cosa di un uomo ricchissimo che vive in una reggia. Forse i costi di gestione della reggia renderanno questo secondo un po' meno ricchissimo dell'altro, forse saranno tutti e due ugualmente potenti (anzi), ma su quale dei due contribuirà alla potenza della sua città, non ci sono dubbi.

Milano è sempre stata fatta soprattutto da uomini del primo tipo, santi e imprenditori, uomini che comunque se ne stanno perlopiù nascosti, poco amanti dell'immagine, gente che non ha tempo di e per. Alcuni di questi uomini però, a un certo punto della storia milanese, cercarono - lo si deduce dai ruderi - di trasformarsi in uomini del secondo tipo. Cominciò così lo sterro da cui sarebbe dovuto sorgere il segno tangibile della potenza milanese.

Era un bisogno inderogabile, ma lì Milano si accorse che la sua propensione a produrre, a fare, non era sufficiente a sostenere un simile progetto. Al momento decisivo, al momento del Grande Salto, qualcosa si rivoltò dentro di lei, e il diavolo che fingeva di ignorare, e che le era cresciuto in corpo come un figlio legittimo, si svegliò. Città industriale, si era identificata con lo smog (espressione che a tutt'oggi vive solo se accompagnata dai nomi di Londra e di Milano) fino a esserne aggredita. Era lo smog della sua stessa storia, lo smog da lei stessa prodotto: fatica, disagio, ingiustizia sociale. Al punto che, diradata la nuvola nociva proveniente da Sesto e dintorni, una volta riapparso il sole, Milano ebbe molti problemi a ritrovarsi.

Sostando sul marciapiede con l'aperitivo in mano, mentre discutiamo di sesso o di calcio, noi ignoriamo la forza sovversiva di questa città. Il Sessantotto, se altrove rappresentò la ribellione di una generazione compressa, qui costituì anche l'autoritratto completo della città: la sua energia lavorativa, la sua discendenza mercantile ma anche fondiaria, il suo cristianesimo, il suo paganesimo, la sua barbarie, il suo male di vivere.

Quelli che vennero dopo furono tentativi pallidi e un po' demenziali di fabbricare un'immagine della città pronta per l'uso. La Milano anni Ottanta fu questa cosa: il prodotto di una classe che a differenza della grande borghesia industriale di vent'anni prima, poteva identificarsi solo con i propri particolari interessi. Fu lì che Milano tentò di diventare una città a misura di stilisti e modelle e divenne sicuramente una città insopportabile, dove la cura del particulare esplose senza più alcun ritegno. Milano modaiola, Milano tangentista: due facce diverse per una sola antropologia.

Di una cosa occorre discolpare quegli anni, quello stile, quel mondo. Che nacque quando le aspettative, quelle vere, erano già crollate, quando lo sforzo per trasformare Milano, definitivamente, in una delle città più importanti del mondo era già fallito. Milano aveva già smesso di amarsi e di aspettarsi da sé stessa qualcosa di grande.


Una postilla necessaria. Milano è anche la città della resistenza e della rivolta. Lo ha dimostrato tante volte, nel corso della storia. Il diavolo che ha in corpo dorme, forse, ma non si è dissolto.

Lo dico con certezza, perché questo libro è sicuramente figlio di quel diavolo.

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Pagina 17

L'economia del visibile


1 - Lungimiranza

Se una città è bella, sarà bella anche la sua topografia, la sua pianta, la sua toponomastica. Le grandi città hanno mappe meravigliose. La mappa di New York, quella di Roma, quella di Parigi, quella di Londra, quella di Madrid. Molti anni fa decisi di visitare Barcellona perché la sua pianta mi aveva entusiasmato. Quel suo centro medievale ma profano, attraversato da un torrente coperto, quell'ingrandimento («Eixample») pieno di follia parigina e religiosità mediterranea, pieno di Madonna e di Belle Epoque. E poi i nomi delle strade: «Carrer del Rosselló», «Travessera de Gràcia», «la Diagonal», «Avinguda de Meridiana», «Avinguda de Paral-lel», e così via. E poi i monti che la guardano: Montjuic, Tibidabo, che è nome latino e vuol dire «ti darò». Allo stesso modo, dovendo recarmi in Sudamerica, prima a Buenos Aires e poi a Montevideo, fu la pianta (oltre che il nome) di quest'ultima ad affascinarmi, suggerendomi un'idea dl quieta malinconia, che e poi quella che v'incontrai.

Anche la mappa di Milano è bella, e dice molte cose. Vi s'indovina la qualità fondamentale della città, oggi sepolta sotto l'irrazionalità dei numeri, della ragioneria e del commercialismo, ma incisa nei pregi e persino nei difetti della sua civitas: la lungimiranza, il guardar lontano. Qualità economica, ma prima ancora religiosa, meglio: economica perché religiosa, laica perché cristiana. Il cristianesimo appartiene infatti alla struttura, alle fondamenta di Milano.


Ci sono molte cose che rendono Milano unica al mondo. Per esempio, una certa economia del visibile. Nella tradizione europea, la città è il punto in cui la società, e i singoli che in essa primeggiano (detti «notabili», gente dunque che si nota, gente che si fa vedere), acquistano una visibilità maggiore. Il ricco, il potente, amano la visibilità perché la visibilità fa parte della loro stessa forza. Le città europee sono cresciute quasi tutte con questa vocazione alla maggior visibilità, secondo - direi - un grande rispetto (ri-guardo, risguardo) della visibilità, il grande rispetto della visibilità, che è il rispetto dell'Occidente, alle cui origini c'è la curiosa uguaglianza tra «io so» e «io ho visto», che sospinge l'essere nel cuore della visibilità e la visibilità nel cuore dell'essere.

Per Milano non vale la stessa regola. Qui vige un'altra modalità del visibile. Se la modalità dominante in Occidente è quella dell' hic et nunc, in altre parole quella della presenza, di ciò che è patente, di ciò che si documenta in un tempo e in uno spazio totalmente verificabili, Milano propone il modello, ben diverso, della lungimiranza. Ossia del veder lontano, del vedere oltre la cerchia del documentabile, dell'esibibile, secondo una tradizione più giudaica che greca, più biblica che classica (Milano è una delle città più anticlassiche del mondo), più profetica che filosofica. Si capisce che la storia di questa città appartiene anche alla storia sacra, non solo a quella profana.

La forma di Milano conserva questa radice sacra. Uno è il punto visibile: il Duomo, anzi, per l'esattezza la Madonnina. Tutti gli sguardi devono poter giungere a quel punto, là debbono essere rivolti.

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Pagina 55

L'impresa come azione quotidiana

Come vive il milanese? Il lombardo accusa, generalmente, una certa difficoltà nel maneggiare parole come «vivere», «vita» et similia. La traduzione dialettale è talmente poco usata (éta, íta) che si può dire non esista. L'impressione è che l'uomo lombardo usi malvolentieri queste parole, che viceversa abbondano nel veneto, nel romano, per non parlare di Napoli e del Sud, dov'è tutto un trionfo di vita, cuore, amore. «Ahi vita, ahi vita mia» non appartiene soltanto al soldato innamorato, lo dicono anche la madre e il padre al proprio bambino.

Il milanese (parlo del milanese storico, quello che ha edificato la città) vive facendo, perciò «fare» è il suo sinonimo di «vivere».

L'identificazione del «fare» e del «vivere» piu che lombardo è essenzialmente milanese. Il lombardo è grande lavoratore, non c'è dubbio, però il lavoro resta in lui un'azione impura. Il lavoro è un mezzo per accumulare denaro, per avanzare socialmente, però il rapporto rimane di sottomissione: il lombardo è sottomesso al lavoro. Anche quando inventa imprese geniali, resta in lui il retaggio del contadino, del servo della gleba, la maledizione. Il lombardo si definisce in rapporto al lavoro come la risultante di una consumazione, che alla fine della giornata lo rende stracco. Parola-chiave, «stracco». Mentre in dialetto lombardo essa traduce esattamente l'italiano «stanco», nel ritorno all'italiano - che è una continua, infinita e inesorabile riflessione sul pool delle sue pluralità linguistiche e dialettali, idiolettiche ecc. - si è mantenuta a causa di una differenza semantica di natura antropologica. Essere stracchi non significa essere stanchi. Dopo due ore di jogging si è stanchi ma non stracchi.

Esiste una stanchezza attiva, creativa, una stanchezza che è la migliore premessa per un'azione energica. L'uomo stracco è, piuttosto, l'uomo che accusa un certo sfinimento, l'uomo che ha concluso ogni possibile pensiero giornaliero, perché i mille pensieri della giornata lo hanno consumato. L'uomo stracco la sera non sa bene cosa dire alla famiglia, perché riesce solo a star seduto in poltrona a leggere il giornale, o a guardare la tv: quando il ritorno a casa dovrebbe coincidere con un nuovo start, con l'apertura di una riserva di energie tenuta gelosamente riposta per tutta la giornata. L'uomo stracco, il lombardo stracco, è essenzialmente, quantunque miliardario, un uomo sconfitto dal lavoro. Ama lavorare, ama il frutto del proprio lavoro, ma non riesce a sentirsi del tutto esente da una vena di stupidità. Il romano, il napoletano lo guardano, e in quello sguardo il milanese indovina un tono di commiserazione. Ridono di lui, bonariamente (ma la bonarietà, si sa, è la più sottile delle perfidie), e lui subito introietta quello sguardo, non sa perché lo guardino a quel modo, ma sa perfettamente che non si tratta solo di un pensiero malevolo: loro hanno visto qualcosa che c'è, che è dentro di lui, e lui comincia a sentire questa cosa, a intuirne se non la natura almeno le coordinate geografiche, comincia a individuare la regione in cui ha sede la bruttura che fa ridere i suoi compatrioti.

Questa potenziale umiliazione, che rende il lombardo edotto circa la propria sottomissione - di più: circa la propria natura di sottomesso - non appartiene, viceversa, alla cultura milanese. Il milanese torna a casa stanco per il lavoro, ma in lui il servo della gleba si è emancipato, e ora non se ne vede quasi più la traccia. Quando il milanese si sente stracco, c'è di che preoccuparsi: è in arrivo per lui l'esaurimento, la depressione. L'essere stracco non è, infatti, una sua condizione normale. Perché a Milano ci si è sempre andati per cercare proprio l'emancipazione, la liberazione dalla stracchezza. Questo è Milano: una possibilità di rescindere un legame di sottomissione, la vittoria del matrimonium sul patrimonium - ossia di un legame scelto, voluto, contro ogni legame imposto al patrimonium rurale, all'inventario delle proprietà, alla rendita fondiaria.

Città-moglie, città-figa, città-puttana. Emancipazione significa tante emancipazioni, tanti tipi di emancipazione, buone e cattive, morali e immorali, lecite e illecite, legittime e illegittime, legali e illegali. Milano è il territorio, il templum del riscatto, dove il lombardo accede a un nuovo livello di vita. L'agire, il fare, il lavorare sono, a Milano, espressioni di sé, atti non già per la vita, bensì atti di vita. Tanto compiutamente la vita si identifica con l'azione dentro il mondo, con il rischio pieno di fiducia nel futuro, pieno di padronanza del futuro, tanto «vita» e «impresa» coincidono, che la stessa parola «vita» risulta alla fine quasi pleonastica.

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Pagina 74

La città che più di ogni altra, in Italia e in Europa, ha fondato il proprio mito sulla solidità d'impresa, sulla continuità del lavoro, sull'etica della fatica e del sacrificio (anche nel benessere), insomma sulla dura libertà, è, in realtà, quella che meglio conosce la nostra estromissione da ogni eternità guadagnata o comunque meritata. Milano sa che il paradiso non si merita, mai. L'uomo, per quanto geniale e virtuoso, non è in grado di produrre il più piccolo barlume di senso, la più piccola unghia di salvezza. Questo nonostante le tentazioni calviniste della sua borghesia, che periodicamente si sono riaffacciate ma che puntualmente hanno trovato profeti laici in grado di smascherarle.

Se Roma è la città eterna, Milano è la città più lontana dall'eternità che si possa immaginare. Ma proprio perciò il suo bisogno di miracoli ha lasciato un segno così profondo, in parole e soprattutto in opere, muri, cancelli, porte a scatto, portinerie, sale, saloni, camere, uffici, furgoni, camion, aerei. Miracolo a Milano. Solo Dio è eterno, solo il cielo che corre sopra le nostre teste, solo il filo che lega l'oro della Madonnina all'oro del Monte Rosa. A Milano accadono i miracoli perché Milano non è un miracolo, per questo il miracolo fa notizia: ma come, perfino qui, a Milano? Immaginatevi un film: Miracolo a Roma. Insensato: Roma è già tutta un miracolo, è il centro dei miracoli, è la capitale, il punto conclusivo, l'indirizzo ultimo di tutto lo smistamento mondiale dei prodigi.

La caduta, l'incendio, la peste, la prostituzione, lo sterminio, tutto questo è dentro lo sguardo milanese di ogni giorno, è il sentimento che Milano c'ispira. Non c'è altro modo di parlare della città se non traendo - dalla memoria, alla letteratura, dalle Sacre Scritture o anche soltanto dalla propria fantasia - queste immagini. Persino il crollo delle aspettative non va inteso come delusione (Milano non sarà mai una città di delusi), ma come quel sentimento acre e non acido, scettico e non cinico, che fonda la ripresa del cammino. I milanesi cambiano, un po' fanno e tanto distruggono. Tra non molto Milano sarà una città non solo napoletana, romana, torinese, barese, sarda, palermitana, catanese, ma anche marocchina, senegalese, egiziana, cingalese, indiana, filippina, cinese, giapponese, russa, rumena, curda, moldava, bielorussa; eppure, chiunque si dica milanese, quale che sia la sua origine, riconosce anche solo implicitalmente che qualcosa la città gli ha attaccato addosso. Sicuramente sono i milanesi che fanno Milano, e quindi Milano cambia, ma anche Milano fa i milanesi, e quindi i milanesi rimangono uguali. Così quello che ci si è attaccato addosso è questo sentimento di strazio, di perdita, di caduta.

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Pagina 114

2 - Dove nacque Milano

Sera di tardo inverno o di prima primavera, il cielo sereno e ancora chiaro. Cammino lungo via Morigi, via Cappuccio, via Santa Marta, via Circo (dove ebbe sede il primissimo nucleo di Milano) via San Maurilio, piazza Borromeo - insomma la parte più bella della città. I negozi sono radi, ancor più radi i bar, che chiudono presto. L'illuminazione, qui, si mantiene discreta. In prossimità dei lampioni il cielo si oscura, la notte si affretta, ma nelle campiture di buio tra un lampione e l'altro il cielo rinasce, con Venere e Giove, o la luna tra un comignolo e un'antenna. Le vetrine sono poco illuminate, dietro s'intravede un mobile antico, un frullatore, il bastone di una tenda.

Notte nella stessa via, l'asfalto bagnato per la recente pioggia, che insiste ancora, fine fine, avvolgendo i globi di scintille. La luce gialla è tutta schiacciata a terra, calpestata dai radi passanti. I lampioni tracciano lunghe pennellate sull'asfalto. È bello camminare nella pioggerella, anche senza riparo sulla testa. Il termometro segna undici gradi. Piazza Sant'Alessandro è un ricordo romano nella città più antiromana del mondo.

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