Copertina
Autore Gillo Dorfles
CoautorePaolo Priolo
Titolo Questioni di gusto
SottotitoloCritica dell'acritica
EdizioneAllemandi, Torino, 2008, Parola di ... , pag. 48, ill., cop.fle., dim. 12x19,3x0,5 cm , Isbn 978-88-422-1551-6
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe critica d'arte
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Indice


  7 Introduzione

  9 Questioni di gusto

  9 Lingua, letteratura e sopravvivenza
 12 Tv: condanna e assoluzione
 15 Italiani brava gente?
 18 Crocifissi e globalizzazione
 22 Viaggiare solo su invito
 25 Eleganza, vanità ed esibizionismo
 28 Moda e design
 30 Lo stato dell'arte
 35 Sul mercato, l'artista non è un poeta
 37 Hit parade: questioni di gusto
 41 Un pittore clandestino
 43 Architettura, architetti e kitsch

 47 Bibliografia essenziale di Gillo Dorfles


 

 

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Pagina 9

Questioni di gusto


LINGUA, LETTERATURA E SOPRAVVIVENZA

PP: Professore, partiamo dai libri. Che cosa sta leggendo in questo momento?

GD: I libri su cui concentro la mia attenzione sono spesso tre o quattro nello stesso momento: c'è il libro che devo recensire, il classico che riprendo in mano con piacere di tanto in tanto, il romanzo che leggo per divertirmi o il saggio più impegnativo che studio con interesse. Non è semplice risponderle.

PP: Quali sono, allora, i libri che ha scelto di leggere nell'ultima settimana?

GD: Proprio ieri ho terminato Enduring Love di Ian McEwan, un libro bellissimo, e ho iniziato Il mistero della donna scomparsa di Alberto Beonio-Brocchieri, il primo romanzo di un noto professionista e studioso del mondo della comunicazione. Poi, dati i miei interessi linguistici, ho pensato di dedicarmi a un saggio di Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue.

L'ho cominciato circa una settimana fa. E un libro molto interessante: parla delle lingue morte, di quelle che resuscitano come l'ebraico e il creolo, di quelle morenti come la lingua incaica e degli idiomi che prendono il sopravvento come l'inglese e il cinese.

PP: A proposito, come sta la lingua italiana?

GD: L'italiano non sta male, ma potrebbe stare molto meglio. La sua situazione è curiosa, in un certo senso unica. È la lingua neolatina più simile all'idioma parlato dagli antichi romani, quella di più diretta discendenza. Questo primato avrebbe potuto garantirle il diritto di essere la lingua neolatina più diffusa ai giorni nostri, ma così non è stato.

PP: A chi è toccato questo destino?

GD: Allo spagnolo, ormai divenuta la lingua europea più importante e parlata dopo l'inglese.

PP: Come mai l'italiano, oggi, è meno diffuso dello spagnolo?

GD: La colpa è degli italiani che non hanno saputo valorizzarlo e promuoverlo adeguatamente all'estero. In un Paese come l'Argentina, ad esempio, la cui popolazione è più che per la metà d'origine italiana, la nostra lingua avrebbe potuto avere ben altra diffusione, se solo fosse stata valorizzata nel giusto modo. Non avrebbe ovviamente soppiantato la lingua dei colonizzatori spagnoli, che dal XVI secolo hanno provveduto a occupare il territorio argentino, costituendone per secoli la classe dirigente, ma sarebbe stata meno isolata. Detto questo, bisogna considerare che l'italiano ha assunto un ruolo sempre più prestigioso e riconosciuto come lingua colta. La cultura classica e la storia dell'arte italiane, ammirate in tutto il mondo, hanno incoraggiato lo studio della loro lingua madre. Il numero di iscritti ai corsi di lingua promossi dagli istituti italiani all'estero è molto aumentato negli ultimi anni. D'altro canto, la decadenza del francese, che fino a cinquant'anni fa primeggiava con l'inglese e ora perde sempre più terreno, ha spostato l'attenzione sulla nostra lingua: chi un tempo sceglieva come terza lingua il francese, oggi sceglie l'italiano. Da quando poi i dialetti, l'elemento linguistico più vivo, hanno praticamente cessato di esistere salvo che come documenti archeologici, l'italiano letterario ha richiamato su di sé un interesse crescente, si è rafforzato. Direi dunque che la nostra lingua ha buone possibilità di sopravvivere.

PP: A che cosa serve la letteratura?

GD: La letteratura risponde a molte esigenze, soddisfa varie necessità. La più importante è quella di divertire chi scrive.

PP: Michel Houellebecq ha scritto che «vivere senza leggere è pericoloso», perché «ci si deve accontentare della vita e questo comporta notevoli rischi». Cosa ne pensa?

GD: È un'affermazione curiosa quella di Houellebecq. Diciamo che se i rischi a cui si fa riferimento fossero tali da mettere a repentaglio la vita delle persone che non leggono, allora la stragrande maggioranza della popolazione mondiale sarebbe morta da un pezzo. Il mondo conterebbe pochi milioni di individui. Per quanto mi riguarda, invece, la lettura rappresenta il pane quotidiano, in senso letterale e metaforico. Ovvero, considerato il mio mestiere, se non leggessi sarei veramente in pericolo di vita, o perlomeno rischierei di rimanere a digiuno.

PP: Per arrivare fino a 94 anni in piena forma deve aver letto moltissimo. Quali sono stati i libri o gli autori che l'hanno stimolata maggiormente nella sua attività di critico d'arte contemporanea, di professore d'estetica, di studioso del design e dell'architettura, di semiologo, di socio-antropologo e di critico del gusto? Partiamo dalla saggistica.

GD: Sono molti e voglio evitare di annoiarla con un lungo elenco di nomi e di libri. Non posso non fare, però, i nomi di tre autori per me fondamentali: Meyer Shapiro, Rudolf Arnheim ed Ernst Gombrich.

PP: E per la narrativa?

GD: È difficile rispondere senza apparire pedanti. E poi di quale lingua stiamo parlando?

PP: Quella che preferisce.

GD: Facendo un notevole sforzo di sintesi, posso citarle Der Prozess di Franz Kafka ed Effi Briest di Theodor Fontane per la lingua tedesca e À la recherche du temps perdu di Marcel Proust per il francese. Per l'inglese direi The Four Quartets di Thomas S. Eliot, anche se si tratta di un poema, mentre scelgo, sempre per rimanere tra i classici, Don Quijote di Cervantes per la lingua spagnola. In italiano la mia preferenza va a Quer pasticiaccio brutto de via Merulana di Gadda. Se devo pensare, invece, a qualcosa di più contemporaneo mi vengono in mente lo spagnolo Mañana en la batalla piensa en mí di Javier Marías, l'opera della scrittrice ucraino-brasiliana Clarice Lispector e i romanzi dell'inglese Ian McEwan.

PP: Immagino che anche in poesia abbia le sue preferenze.

GD: Certamente, ma non vorrei dilungarmi su questi temi. A prezzo di feroci esclusioni mi limito a indicare Eliot, Eugenio Montale, Rainer Maria Rilke e Aleksandr S. Puskin. Ognuno nella propria lingua.

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LO STATO DELL'ARTE

PP: L'arte oggi va cercata solamente tra gli anfratti della moda, del design, della televisione, del cinema, oppure risiede ancora nelle forme espressive classiche come la pittura o la scultura?

GD: Pittura e scultura, in alcuni casi, possono ancora rappresentare gli strumenti attraverso i quali esprimere un'autentica volontà creativa. La loro posizione, però, non è più dominante. In ambito strettamente artistico, l'affermazione, soprattutto tra i giovani, di forme espressive come la fotografia, il video, la performance e l'installazione ha mutato radicalmente lo scenario di riferimento: le tecniche e le modalità con cui fare arte sono cresciute, si sono differenziate. Sui risultati, poi, si può discutere. In ogni caso, è probabile che fra quaranta o cinquant'anni la pittura e la scultura ritornino ad avere un ruolo primario.

PP: Sono molti gli studiosi, da Roger Caillois a Jean Baudrillard, da Gilles Lipovetsky a Enrico Baj e Paul Virilio, che hanno criticato la deriva dell'arte contemporanea. Lei è stato, fin dagli anni cinquanta, un attento studioso delle avanguardie e uno strenuo difensore delle espressioni artistiche più anticonvenzionali. Come si pone nei confronti delle tendenze odierne?

GD: Le tendenze odierne girano a vuoto. Lo si è visto alle ultime Biennali di Venezia, alle edizioni più recenti di Documenta, così come in altre importanti rassegne internazionali. Tutte deludenti. Una desolazione così estesa del panorama artistico contemporaneo rappresenta probabilmente la coda, la fase terminale di uno slancio creativo straordinario, durato quasi un secolo. Il Novecento è stato uno dei secoli più fiorenti di tutta la storia dell'arte, ha registrato in meno di cent'anni un miracoloso avvicendamento di manifestazioni d'avanguardia. In un elenco parziale si possono citare Cubismo, Futurismo, Astrattismo, Costruttivismo Russo, Metafisica, Dada, Surrealismo, Informale, Pop Art e Iperrealismo.

PP: Un'alternanza di scuole e correnti sconosciuta in passato, o almeno non così concentrata nel tempo.

GD: Infatti. Nei secoli precedenti, la comparsa e il mutamento degli stili avveniva con meno generosità, molto più lentamente: basti pensare a quanto tempo è durata la successione ordinata di Gotico, Rinascimento, Manierismo, Barocco, Neoclassicismo e Romanticismo. La fantasia e la fecondità del Novecento dovevano pur spegnersi, esaurirsi. L'arte odierna, dunque, si trova in una fase di fisiologico esaurimento creativo: una fase ciclica, che è destinata a essere superata da momenti più floridi. Dietro agli sperimentalismi degli ultimi anni, un viavai di installazioni e bizzarrie concettuali, non troviamo quasi mai l'arte, ma solo ginnastica mentale. Nel migliore dei casi si esprime il tentativo di tracciare un punto di partenza, il principio di una palingenesi futura.

PP: Al di là di un eventuale esaurimento fisiologico dell'arte, la crisi della pittura si può spiegare anche con l'affermazione di nuove modalità espressive che, dal punto di vista visivo, hanno moltiplicato i campi d'azione.

GD: Certamente. Il fatto che la visualità, oggi, si esprima in forme molteplici ha come effetto diretto la perdita del primato della pittura, anche di quella più astratta. Il quadro, la tela, come strumento privilegiato dell'azione artistica perde centralità in un ambito che riorganizza la creatività, disseminandola nei vari rivoli del design, della moda, del cinema, della fotografia, del video, delle installazioni, della grafica digitale. Rispetto all'arte pittorica, queste forme possono essere meno dense di significati, ma conservano, nei casi migliori, una forte radice creativa. Il problema è che questa creatività diffusa è andata a detrimento dell'espressione artistica più profonda e meditata. Per questo si fa fatica a vedere qualcosa di veramente buono nelle esposizioni di arte contemporanea.

PP: Gli esiti a cui si è giunti, attraverso questa pluralità espressiva, sono dunque molto diversi, per esempio, dagli effetti che l'avvento della fotografia aveva prodotto nella seconda metà dell'Ottocento?

GD: Sì, per il momento si tratta di esiti molto differenti. Come sappiamo, la possibilità di riprodurre la realtà attraverso il mezzo fotografico aveva gettato le basi, in pittura, di un processo in cui la rappresentazione naturalistica veniva progressivamente azzerata o quasi: dall'esperienza impressionista, che sfaldava i contorni scossi dalla luce, si giungeva, passando per le scomposizioni cubiste, all'Astrattismo. Diversamente, il mutamento di prospettiva che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento non sembra aver determinato un'evoluzione di quella portata. Detto in altro modo, la proliferazione dei codici visivi che, con crescente sviluppo, ha contraddistinto gli ultimi decenni del secolo scorso è stata benefica, se vogliamo, per l'orizzonte estetico quotidiano, ma non ha favorito, o forse ha impedito, rinnovamenti di linguaggio radicali come quelli concepiti da Picasso o da Kandinskij. Almeno per il momento. In futuro, chissà, potrebbe accadere qualcosa.

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