Copertina
Autore Jean d'Ormesson
Titolo Odore del tempo
EdizioneSpirali, Milano, 2008, l'alingua 298 , pag. 440, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,5x3 cm , Isbn 978-88-7770-824-3
OriginaleOdeur du temps [2007]
TraduttoreMaddalena Mendolicchio
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe storia letteraria , critica letteraria , libri , viaggi , citta'
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Indice


PREFAZIONE                                            7


PELO DA GRATTARE, NEL SENSO DEL PELO                 13

Mio aguzzino, amore mio                              17
Frank, ancora e sempre                               25
Un po' di pariginità                                 30
Gabriel Matzneff. Un cultore di bellezze             35
Philippe Sollers. Il primo della classe              38
Patrick Besson o la gloria del mascalzone            42

LE IDEE CONDUCONO IL MONDO                           45

Kantorowicz. Grandi anime, grandi esercizi           49
Due uomini per l'eternità                            54
Ha sollevato un lembo del grande velo                58
Raymond Aron. Un maestro del rigore                  61
Lo stupore di essere                                 64
Un rivale di Sartre, Michel Foucault                 66
Todorov. Orrore del male, ambiguità del bene         69
Mio Dio! È un guanto!                                71
Fumaroli. L'esprit de joie                           74

IL SALE DELLA TERRA                                  79

Rileggere il Tartufo di Molière                      83
Joseph Joubert. Un'assenza di opera monumentale      87
Chateaubriand a Venezia                              91
Tomba per un genio                                   98
Sainte-Beuve va a donne                             103
Balzac, poeta del reale                             108
La cameriera della baronessa Putbus                 110
Paul-Jean Toulet                                    112
Non ha mancato un solo perdono                      119
Il furore della bellezza                            124
Un cetriolo con le visioni                          128
François Mauriac.
    Tormenti e grandezze di un cristiano            132
Mauriac tra il male e la grazia                     138
Il solitario del Palais-Royal                       142
Un fiume di umanità                                 145
E adesso, il Nobel!                                 147
L'Omero di Buenos Aires                             149
Nessuno è perfetto                                  152
Mistero e luce di Borges                            155
Cuentos metafisici                                  158
Roger Caillois. Tra l'immaginario e l'ordine        162
Aragon. Lo specchio del secolo                      164
Yourcenar o l'altitudine                            169
Un picaresco accademico                             170
La gloria di Kléber Haedens                         173
Jorge Amado, una perdita irreparabile               176
Un appassionato del disastro                        177
François Nourissier. Una terribile lucidità         182
Regina perduta senza collana                        186
Michel Mohrt. Romanziere del mare                   189

LE PASSIONI DEL CUORE                               191

La bella delle belle                                195
Una grande passione letteraria:
    Benjamin Constant e Germaine de Staël           199
La leggenda rosa e nera delle sorelle Mitford       205

LA GLORIA DELLE ORIGINI                             211

In onore di Dumézil                                 215
La verità di un bugiardo                            219
Una vocale dimenticata                              223
Un crocevia di civiltà                              226
Un tesoro per sempre                                231
Misteri e chiarezza delle origini                   234
Le trombe e le aquile o la gloria di sir Ronald     237
Il miracolo della neve                              242
Una feconda catastrofe                              245
Fernand Braudel o la totalità                       249

FELICITA DEI LIBRI                                  255

Elogio del libro                                    259
Viva i librai!                                      261
Un signore delle lettere                            264
"I am James Joyce"                                  268

UNA GRANDE MALATA                                   273

La Francia malata della propria lingua              277
Voi come lo scrivete?                               281
Bernard Pivot ha un'idea geniale                    283
Una religione di stato                              287

IL VECCHIO PRINCIPE SALINA GUARDA CLAUDIA CARDINALE 291

Era yawr                                            295
Da Bresson a Manet                                  299
Tre felicità, finalmente!                           304
Venezia, lato corte                                 308

RICORDI, RICORDI...                                 313

Il ricordo di mio padre                             317
Il ricordo di mia madre                             319
Saint-Fargeau                                       321
Una casa per vivere e una casa per morire           325
Una scuola da leggenda                              328
I normaliens                                        329
Paul Morand, un improbabile nonno                   332
L'affaire                                           333
Marguerite Yourcenar fra tradizione e rivoluzione   338
Anzitutto, niente giornalismo!                      344

NON IMPORTA COSA                                    351

Ha detto cultura...?                                355
Il più bel collo di Carlo X                         359
Il fascino dei Jardin                               363
Roland-Garros: McEnroe e Lendl in finale.
    La gloria per procura                           366
"Non importa cosa..."                               368

AMANTI, FELICI AMANTI, VOLETE VIAGGIARE?            371

Venezianamente                                      375
Venezia somiglia all'agata                          377
Giorni d'autunno in Toscana e dintorni              380
Un bel viaggio                                      385
Ritorno a Rio                                       389
Una presenza francese                               395
Fiume degli dèi e dei morti (1)                     398
Fiume degli dèi e dei morti (2)                     401
Ritorno a Borobudur                                 404
Bisogna salvare Dubrovnik!                          406
Camargue                                            413
Padre Rimbaud e altre storie                        416
Sorprendenti viaggiatori                            418
Lettera da Famagosta                                421
Tanti baci da Kokona                                427


 

 

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Pagina 47

Ecco uomini e donne che ammiro. Potrei
parlare a lungo di ciascuno di loro. Ricordo
la mia felicità alla prima lettura del Friedrich der Zweite
di Kantorowicz: un grande storico porta l'attenzione
su un grande imperatore. Non capisco quasi niente dei lavori
di Louis de Broglie, ma tanto basta per convincermi
che non abbiamo messo al giusto posto un gigante
del nostro tempo. Jeanne Hersch, di carattere ruvido,
discepola di Husserl, amica di Raymond Aron,
è la meno nota delle figure di questo capitolo.
Era filosofo di prim'ordine e donna meravigliosa.
Avevo per lei un misto di venerazione e di affetto.
Si fa sempre fatica a persuadersi che un amico molto vicino
è una grande mente. Per me, Marc Fumaroli
rientra bene in queste due categorie.

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Pagina 54

DUE UOMINI PER L'ETERNITÀ

Ah, sì, certo, è stato detto e ripetuto, si incomincia a sapere, l'Académie française non si confonde con la nostra letteratura: è molto di meno e anche molto di più. Da Saint-Simon e da Molière — "Alla sua gloria niente manca, mancava alla nostra" — fino a Aragon o a Anouilh, ci sono molti assenti nella casa del Cardinale. E, quando ci si soffermi sull'elenco di alcune centinaia di nomi che si sono succeduti, prima al Louvre e poi sotto la Coupole, da trecentocinquant'anni, ci si trova a ripetere, con la stessa aria sognante, il verso ironico di Cyrano de Bergerac: "Di tutti questi nomi neppure uno morirà. Che bello!".

Accogliendo vescovi, parlamentari, grandi signori, a volte nella più tenera età, l'Académie, in ogni epoca, ha debordato dalla letteratura. All'inizio del novecento era naturale che trovassero posto sotto la Coupole un maresciallo vittorioso, un cardinale, un grande avvocato. L'Académie, se volete, è un club letterario, è anche un'istituzione e una sorta di conservatorio dei valori di un'epoca, spesso fragili e passeggeri.

Tra le due guerre e nell'immediato indomani della liberazione, la letteratura francese ha conosciuto una delle sue epoche più brillanti. Se Gide e Sartre erano assenti e se Proust era morto, in quai Conti si sono visti Valéry e Claudel, Jules Romains e Montherlant, François Mauriac e, un po' dopo, Paul Morand. Ai nostri giorni, con saggezza, l'Académie non ha potuto fare altro che constatare il crescente ruolo della scienza. Delle scienze esatte, beninteso. E anche delle scienze umane. Quando sembrava che il romanzo, il teatro, la poesia stessero cercando una loro via e che a volte fossero colpiti da una crisi, i ricercatori delle scienze esatte e umane andavano di scoperta in scoperta e di trionfo in trionfo. All'estero, il romanzo francese segna il passo, ma la nostra scuola storica è una delle più ricche del mondo. Fernand Braudel l'ha rappresentata sotto la Coupole, per un tempo troppo breve, ma con lustro. E ecco che Georges Duby si prepara a entrare a sua volta. La linguistica comparata e lo studio dei grandi miti hanno mandato a quai Conti una delle menti più notevoli del nostro tempo: Georges Dumézil. Inutile tacere di Claude Lévi-Strauss: ciascuno sa che si situa alla testa dell'etnologia di oggi, in Francia e nel mondo intero.

La fisica, la medicina, la biologia sono ampiamente e brillantemente rappresentate all'Académie. Non c'è niente di più legittimo nel mondo in cui viviamo e in cui la biologia sta per dare il cambio alla fisica con la missione temibile di trasformare l'immagine del nostro universo. A questa trasformazione hanno contribuito più di altri, in settori molto diversi della scienza, due uomini, da poco scomparsi uno dopo l'altro: Louis de Broglie e Jean Delay.

Louis de Broglie apparteneva a un'illustre famiglia che, come ogni cosa a questo mondo, ha conosciuto alti e bassi e che ha dato alla Francia marescialli, scienziati, ministri, presidenti del Consiglio. Il nome di questo lignaggio di principi del sacro impero — cui la monarchia aveva dato un titolo di duca e il cui motto è Pour l'avenir — avrebbe potuto pronunciarlo Bernard Pivot nella trasmissione dedicata, venerdì scorso, alle grandi famiglie francesi. Il più bell'omaggio che sia stato reso ai Broglie è quello di Léon Blum che parlava di "questa famiglia in cui il talento era ereditario finché vi entrò il genio". Il genio era Louis de Broglie.

Il principe Louis de Broglie, che nella giovinezza si occupava vagamente dei lavori storici, aveva un fratello maggiore, Maurice, duca di Broglie. Maurice era un grande fisico. I suoi lavori sui raggi X lo avevano fatto eleggere all'Académie. Un bel giorno, Maurice trascinò il fratello Louis a un congresso di fisica. Fu un colpo di fulmine. Louis, futuro duca di Broglie alla morte del fratello Maurice (questo confonde i neofiti che non hanno letto Proust o l'Armorial de France), si dava alla fisica teorica e diventava l'inventore della meccanica ondulatoria.

Mi guarderò bene, per molti aspetti (primo fra tutti la mia nullità), dall'arrischiarmi a spiegare, foss'anche solo superficialmente, che cosa sia la meccanica ondulatoria.

Diciamo, in breve, che si contrapponevano due grandi teorie sulla propagazione della luce: la prima sosteneva che si tratta di corpuscoli, la seconda che si tratta di onde. E nessuna delle due riusciva a salvare i fenomeni, per dirla con i greci, cioè a dare una spiegazione soddisfacente di ciò che l'esperienza ci insegna. La soluzione geniale di Louis de Broglie, che gli valse il Nobel, fu combinare le due ipotesi e associare, nella loro propagazione, i corpuscoli e le onde.

Forse la scoperta di Louis de Broglie non ha le stesse formidabili conseguenze del fulmine a ciel sereno di Einstein, ma è sufficiente per innalzarlo al livello dei giganti che hanno trasformato il nostro mondo: i Planck, gli Heisenberg e gli Einstein. Louis de Broglie è l'Einstein francese. Alla sua morte è stato salutato con il rispetto e con il fasto che meritavano i suoi lavori? Certo che no. La scomparsa di questo grande uomo è passata quasi inosservata. Anziché intrecciargli allori, ripetere il suo nome ai bambini delle scuole e celebrare la sua gloria, si è lasciato che questo genio universale e francese se ne andasse pressoché nel silenzio. I media non ne potevano più di celebrare Coluche, Le Luron e Dalida. E gli uomini politici, stanchi di firmare telegrammi di omaggio, non possono essere dappertutto.

[...]

"Le Figaro Magazine", 5 giugno 1987

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Pagina 259

ELOGIO DEL LIBRO

Domenica scorsa, all'Opéra Garnier, con il ricordo dei tenori e del fascino acido delle ballerine di Degas, abbiamo festeggiato tutti insieme, lettori e autori (gli uni non sono niente senza gli altri), un oggetto quasi sacro che, da alcuni secoli, ha trasformato il mondo: il libro. Il libro non esiste da sempre. Milioni di anni sono trascorsi senza libri. Forse che tra qualche migliaio di anni non ci saranno più? In ogni caso, per qualche centinaio di anni, tra l'invenzione di fuoco, agricoltura, città e il regno di robot e informatica, continuerà a comandare il nostro destino.

La guerra, la pace, la morte, il sapere, la bellezza, la follia, il piacere e l'amore, il culto dell'assoluto saranno stati ormai scritti nelle sue pagine. Il libro, i suoi derivati (la carta, il giornale, la scheda) e tutti gl'innumerevoli supporti in cui sono tracciati segni che veicolano un senso, sono stati la storia. Si sono confusi con la storia. Hanno edificato la storia più di chiunque e di qualunque cosa. Oggi, in un mondo conquistato e trasformato dagli uomini, il libro ci fa sognare e ci dà potenza.

Leggiamo per imparare, per istruirci, per capire. Leggiamo anche per sognare. Un altro mondo, che duplica il primo, nasce dalla letteratura, e soprattutto dal romanzo che, dall'ottocento a oggi, ha assunto proporzioni prodigiose, se non altro per la quantità. Nella nostra mitologia collettiva e privata, Ulisse, Gargantua, Don Chisciotte, Gavroche, Julien Sorel, Rastignac, Swann e Odette hanno acquisito, nel miracolo che chiamiamo "stile", la stessa realtà che hanno Cesare, Cleopatra, Alessandro o Carlo Magno. Dio, il grande romanziere dell'universo, ha passato il testimone ai romanzieri che fanno concorrenza alla creazione e che si credono dèi. Viviamo nei libri tanto quanto nel mondo reale.

Come la musica, la pittura, la danza, il libro ci dà ancora — in un mondo minacciato e troppo spesso sfigurato dall'automobile, dal cemento, dai progressi della tecnica — un'idea della grandezza e della bellezza. Ci sono libri mediocri. Ci sono anche libri che ci trascinano al di là di noi e che non riusciamo a lasciare: come vorremmo che non finissero mai e continuassero a portarci con sé!

In una civiltà abbrutita da una stupida musica, che si srotola per tutto il santo giorno, e da una televisione per lo più avvilente, leggere e scrivere restano tra le attività che meglio riescono a elevare gli uomini al di sopra della banalità quotidiana. Ciascuno di noi ricorda una di quelle mattine d'estate o una di quelle sere d'inverno quando la felicità di leggere s'impadroniva di noi e ci trasportava in mondi sconosciuti in compagnia di Arsenio Lupin o di Fabrizio del Dongo, della mia amica Nane, di Rossella O'Hara, di Candido o di Fedra.

Per il piacere come per l'istruzione, per il divertimento come per il sapere o per la meditazione, il libro è insostituibile. Si dice che oggi sia minacciato dall'immagine e dal computer. Concedo tutto quello che si vuole ai nuovi regni della tecnica. Tuttavia spero, e credo, che il ruolo del libro sia lungi dall'essere terminato. Più della macchina, e anche più dell'immagine, così forte, ma forse troppo forte, è il libro a consentire al meglio i giochi fecondi del ricordo, del sogno, dell'immaginazione. Lo si sceglie, lo si lascia, lo si riprende, si ritrova una frase dimenticata che risuona a lungo nel cuore. L'informatica fornisce le risposte. Nei libri si vanno a cercare soprattutto le domande. L'immagine, sullo schermo, s'impone allo spettatore. Il racconto, nel libro, lascia il più libero corso all'immaginazione del lettore. All'opposto della macchina e della televisione, il libro esige dal lettore una collaborazione attiva che viene dall'anima e che è una promessa di felicità e di libertà interiore. Finché ci saranno i libri, finché ci sarà chi li scrive e chi li legge, non tutto andrà perso di questo mondo che, nonostante le sue tristezze e i suoi orrori, abbiamo tanto amato.

Buon Natale! E buoni libri!

"Le Figaro Magazine", 21 dicembre 1990

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Pagina 264

UN SIGNORE DELLE LETTERE

Proust muore a Parigi nel novembre 1922. Al suo capezzale vegliano gli amici Reynaldo Hahn, Paul Morand, Gaston Gallimard. Dunoyer de Segonzac si mette discreto in un angolo con i pennelli, l'inchiostro di china e il suo blocco di fogli: disegna il ritratto dello scrittore sul letto di morte. All'improvviso si apre la porta. È Cocteau. S'inchina davanti al corpo. Poi si volta verso Gallimard e la conversazione verte sulla prossima produzione dell'autore degli Enfants terribles (1929; I ragazzi terribili):

— Jean, dammi il tuo romanzo.

— Inteso, Gaston.

Così, davanti al cadavere ancora caldo dell'autore della Recherche fu regolato il destino di Thomas l'Imposteur (1923; Thomas l'impostore).

È uno degli innumerevoli aneddoti sorprendenti, divertenti, l'uno più appassionante dell'altro, che circolano nel libro dedicato da Pierre Assouline al più celebre e più grande degli editori francesi: Gaston Gallimard. Un demi-siècle d'édition française (1983). Più che una biografia, anche più che un bilancio di mezzo secolo di editoria francese, è la storia letteraria e intellettuale della parte più brillante e più feconda di talenti e a volte di geni del nostro novecento.

Chi non conosce la storia degli accidentati rapporti tra Proust e Gallimard? Mercure de France, Fasquelle, 011endorf avevano rifiutato l'uno dopo l'altro À la recherche du temps perdu quando Proust portò il manoscritto da Gallimard che aveva fondato la "Nouvelle Revue Française" con Jean Schlumberger, Jacques Copeau, André Gide e qualche altro, cui si aggiunsero ben presto il giovane Jacques Rivière (appena respinto all'École normale e all'esame di abilitazione all'insegnamento), un anglista milionario di nome Valery Larbaud e un poeta di folle eccentricità, Léon-Paul Fargue. A casa di Schlumberger, in rue d'Assas, alla tradizionale riunione del giovedì, venne buttato là il nome di Proust: "È pieno di duchesse, non fa per noi... E poi è dedicato a Calmette, il direttore di 'Le Figaro'...".

Dopo tali funeste parole attribuite a Gide che tra l'altro era rimasto disgustato dalle innumerevoli aggiunte e cancellature di una scrittura illeggibile — e soprattutto da quell' un front où transparaissaient des vertèbres in cui il suo rigore aveva visto, a giusto titolo, un incomprensibile sproloquio — a Gaston Gallimard non restava che prendere il manoscritto e restituirlo all'autore. Proust lo fece pubblicare a sue spese da un giovane editore parigino che aveva il genio della pubblicità letteraria e che in seguito sarebbe stato il più serio rivale di Gallimard: Bernard Grasset.

Non appena uscì Du côté de chez Swann (1913; Dalla parte di Swann), Gide capì la portata del proprio errore. Scrisse a Proust: "Il rifiuto di questo libro resterà il più grave errore della 'N.R.F' e (dato che mi vergogno di esserne molto responsabile) uno dei rimpianti, dei rimorsi più cocenti della mia vita". Gaston Gallimard non avrebbe avuto pace finché Marcel Proust non avesse lasciato Grasset per passare alla "N.R.F".

La rivalità tra Gaston Gallimard e Bernard Grasset segnò il periodo tra le due guerre. Nel 1927, una famosa pièce di Édouard Bourdet, Vient de paraître, porta in scena il mondo dell'editoria, gl'intrallazzi per i soldi, i drammi da strapazzo. Il sipario si alza sulla casa editrice di Julien Moscat, intento a prepararsi per vincere il premio Zola. Il concorrente di Moscat si chiama Chamillard. Subito tutta Parigi indovina che dietro Chamillard e Moscat si affrontano Gallimard e Grasset. Nella formidabile avventura che sta nel trasformare un'opera intellettuale in una merce come le altre e nel dare vita a un prodotto che esiste appena e che nessuno conosce, Gaston Gallimard si sarebbe misurato via via, non solamente con Bernard Grasset, ma anche con Robert Denoël o con René Julliard. Per le giuste scelte, per la ricchezza del catalogo, per l'abilità, per il celebre fascino, per il prestigio, forse anche per lo snobismo con cui sa giocare a meraviglia, per cinquant'anni ha incarnato, più e meglio di chiunque, la letteratura francese in ciò che ha di duraturo e di vivo.

Tutto quello che contava nelle lettere passava da Gaston Gallimard. Gide, certamente, e Simenon, Proust e Aragon, Sartre e Malraux, Raymond Aron e Marcel Aymé, Jouhandeau e Camus. Tra gli opposti clan, tra le divergenze di opinione, tra le rivalità degli autori, Gallimard navigava con prudenza, con una specie di genio. Come si rimproverava di avere lasciato andare Marcel Proust, così non si consolava per non avere pubblicato Céline; e come aveva riacciuffato Proust, così finì per avere Céline. Con Valéry tenne una corrispondenza tecnica di una precisione minuziosa. Per Paul Claudel, che non avrebbe sopportato di vedere il nome della sua eroina, Sygne de Coûfontaine, stampato senza l'accento circonflesso, arrivò a far fondere un carattere speciale, ricordandosi senza dubbio, suggerisce Pierre Assouline, della lamentela di Flaubert con Michel Levy: "L'accento circonflesso di Salammbô non ha garbo... Ne chiedo uno più aperto".

Riguardo agli autori, di cui conosceva le manie, le debolezze, le meschinerie, Gaston Gallimard (che tutti chiamavano Gaston) oscillava tra un affetto di cui diede spesso prova e una sorta di disprezzo intriso di misoginia: "Il più delle volte un autore, uno scrittore non è un uomo. È una femmina che bisogna pagare, pur sapendo che è sempre pronta a offrirsi altrove. È una puttana".

Il grande periodo tra le due guerre culminò nel disastro del 1940. I grandi editori parigini, tranne qualche rara eccezione, si piegarono senza protestare alle ingiunzioni tedesche, anzi, a volte le precedettero. Accettarono senza fiatare la celebre lista Otto (probabilmente di Otto Abetz) che metteva all'indice un certo numero di autori stranieri e francesi. Che altro fare, si sarebbero lamentati più avanti, se si voleva ricevere un po' di carta strettamente contingentata dalle autorità e continuare a pubblicare malgrado l'occupazione? Per Gaston Gallimard, il problema più serio era quello della "Nouvelle Revue Française", la celebre rivista letteraria di cui curava la pubblicazione. I tedeschi cercarono di metterci le mani sopra e alla fine accettarono che la responsabilità fosse assunta da Drieu La Rochelle. Alla liberazione, Drieu si suicidò. Il caso era chiuso.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, le condizioni dell'editoria erano profondamente modificate. Le riassume molto bene Pierre Assouline: "Dato che gli scrittori autentici si faranno sempre più rari man mano che la radio, la televisione e la pubblicità accresceranno il loro ascendente sul pubblico, gli editori saranno sempre più inclini a favorire la tendenza anziché a cercare di frenarla, e a domandare libri a professori universitari, a giornalisti, a intellettuali free-lance e soprattutto a individui che non hanno niente da scrivere ma molto da raccontare, generalmente la loro vita". In questo nuovo paesaggio la famosa copertina della "N.R.F." a filetti rossi e neri — incarnata in "Gastone I, re dell'editoria, luogotenente generale della letteratura, principe del romanzo, protettore della poesia, signore di tutte le terre stampate" secondo Jean Dutourd, "il primo dei Gastonidi e inventore del Gastonato" secondo Roger Nimier, "uno squalo" secondo Mauriac — continua a fare sognare i giovani che vogliono diventare Victor Hugo, Chateaubriand o Toulet. Anch'io ho conosciuto al comitato di lettura della rue Sébastien-Bottin il celebre nodo a farfalla e la giacca blu scuro di questo commerciante più letterato di molti altri che pubblicava. La prima volta che l'ho scorto, ero più intimidito di quando entrai sotto la Coupole, all'Académie française. Circondato da tante ombre formidabili e familiari, era l'immagine della creazione romanzesca e dell'amore illuminato per la letteratura.

"Le Figaro Magazine", 27 ottobre 1984

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Pagina 373

A me sembra, e lo deploro, di essere troppo spesso
sul filo del ridicolo. Venezia, beninteso — l'attendevate
come me — non poteva sfuggirmi.
Con la sua Dogana da mar, il suo inevitabile Arsenale,
il suo ghetto di servizio, le sue trattorie familiari.
E — perché esitare? — eccomi già sul punto di saltare
con il paracadute su Dubrovnik minacciata.
E i faraoni, via! Non priviamocene.
E Rimbaud, naturalmente. C'è da torcersi.
E un po' di Toscana e d'Umbria. E l'ombra Hindu Kush.

In cauda venenum. Quel che forse c'è di meglio
in questo libro che va compiendosi sono gli ultimi due testi:
la Lettera da Famagosta e Tanti baci da Kokona.
Leggeteli. E auguriamoci buona fortuna.

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Pagina 375

VENEZIANAMENTE

Da lontano, con i suoi campanili e le sue cupole, la città somigliava a uno di quei paesaggi di pietra che somigliano a una città. Dalla Salute o da San Giorgio, non si distinguevano inizialmente, al di sopra dell'ocra e del rosa, al di sopra di tanto splendore iridato e velato dal calore e dalla foschia, altro che due gru gigantesche, una blu e una rossa, che si stagliavano nel cielo dal lato dell'Arsenale. La sera passavano alcuni giapponesi in gondola, al suono delle barcarole, sotto i ponti a dorso d'asino, e la folla faceva la fila in strade troppo strette per tutte queste migrazioni di nomadi all'inseguimento del passato. Non importa. Malgrado i turisti e gli oltraggi dell'età, Venezia era sempre bella.

Ho passeggiato di nuovo, giorno e notte, in questa bellezza soffocante e minacciata, nei suoi paesaggi senza pari. Ciascuno sa che, a forza di coraggio, di pazienza, di caso e di necessità, anche di genio, l'arte a Venezia è scaturita dal mare, dai canali, dalle isole: nel mare la natura si è fatta cultura. A errare tra questi palazzi troppo spesso fatiscenti, tra queste case sgargianti e logore, tra questi pozzi e questi ponti, tra questi luoghi in cui l'armonia nasce misteriosamente dal disordine, tra questa profusione vertiginosa di meraviglie, si direbbe che, nel mare, anche la cultura si sia rifatta natura: niente di meno artificiale, di più spontaneo, di più vivo perfino nella decrepitezza di questa bellezza così dotta e tuttavia così poco ricercata della pietra mescolata all'acqua.

Ho ritrovato con gioia le sventure di Musset o di Thomas Mann, le agonie di Wagner o di Cimarosa, l'umorismo buffonesco di Goldoni, i bar di Hemingway, le imprese sportive di Byron, il disdegno del presidente De Brosses che di San Marco diceva: "Avevate immaginato che fosse un luogo mirabile, ma vi sbagliate di grosso: è una chiesa di un gusto miserabile sia dentro sia fuori. Non si può vedere niente di tanto pietoso quanto questi mosaici", e che riconosceva un solo merito alla mirabile pavimentazione d'ispirazione bizantina: "È incontestabilmente il posto più bello del mondo per giocare a trottola". Ho ritrovato anche, tra l'Accademia e la Salute, il palazzo Dario e il ricordo di Henri de Régnier, perpetuato da una di quelle irresistibili iscrizioni nel marmo di cui il genio italiano possiede evidentemente il segreto.

    In questa casa antica dei Dario
    Venezianamente visse e scrisse
    Henri de Régnier
    Poeta di Francia
    Anni 1899 e 1901

Quanto doveva essere delizioso, dunque, alla vigilia delle grandi catastrofi del secolo calamitoso, questo modo di vivere e di scrivere alla veneziana di cui Paul Morand ci ha parlato in Venises (1971; Venezie)! Camminando, lungo i canali, nell'incomparabile luce della primavera veneziana, dalle Zattere fino al ghetto quasi deserto e all'Abbazia della Misericordia trascurata dai turisti, pensavo al nostro tempo che con tanto clamore si preoccupa dell'avvenire e della sua felicità.

Quale passato, quali ricordi, quale immagine di noi lasceremo dunque a quelli che verranno dopo di noi? L'avvenire è fatto anche di passato. Forse, più che altro di passato. Che cosa lasceremo in eredità all'avvenire perché ne faccia il proprio passato? quali Venezie per passeggiare? quali luoghi, quali ponti, quali statue per permettere ai giovani di baciarsi in bellezza e di fare nascere amori che non siano sordidi? quali leggende, quali miti, quali tradizioni per sognare? quali iscrizioni sui muri? quali vite affascinanti e nobili per incantare i nostri nipoti? A Venezia, come altrove, si finisce per chiedersi se, con meno macchine e meno politica, ma tra maggiore bellezza, le vite dei nostri nonni, malgrado tutti gli errori, non valessero più delle nostre. E se questo passato, tanto denigrato e spesso così colpevole, non fosse più generoso, nei confronti dell'avvenire, delle nostre agitazioni di oggigiorno.

"Le Figaro", 14 giugno 1973

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Pagina 380

GIORNI D'AUTUNNO IN TOSCANA E DINTORNI

Per qualche giorno ho dimenticato le sventure e i drammi di cui facciamo professione, i feriti, i morenti, le truppe che stanno sbarcando, i tormenti dei più deboli, l'ipocrisia dei potenti. Ho rivisto l'Italia, che non aveva mai smesso di essere in fondo al mio cuore. Dopo una lunga separazione, ha mantenuto più che mai, spensierata nell'autunno, agitata e serena, le sue promesse di bellezza e di felicità.

Pisa con la sua piazza dei miracoli e il suo terribile camposanto, di cui, nel 1944, una bomba mancò di distruggere gli affreschi superbi e sinistri, pieni di dannati, di demoni e di cadaveri putrefatti davanti ai quali passano, tappandosi il naso, cavalieri accompagnati da belle dame; Lucca dai bastioni ombreggiati da cui il viaggiatore scopre il Duomo con la sua facciata romanica, illuminato da scenette comiche e da aneddoti, e, al di là, tutti i tetti della città ridisegnata da Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, amante di Fontanes, protettrice di Chateaubriand; Gubbio, di una bellezza straziante e austera, con il suo formidabile palazzo dei Consoli che domina tutta la pianura; Urbino, di una dolcezza irresistibile, in mezzo alle sue morbide colline, ancora pervasa dei ricordi del guercio Federico da Montefeltro dal naso rotto, immortalato da Piero della Francesca; le alte torri di San Gimignano, gelose le une delle altre, che fanno già pensare nella luce toscana al brutale skyline dei grattacieli di New York: ho rivisto tutti quei tesori che sono la nostra carne e il nostro sangue, ho rivisto quelle meraviglie che sono i ricordi di noi tutti e la nostra eredità comune.

Scrivo queste righe davanti a una vasca da cui sorge un'isoletta tutta coperta di aranci e di limoni. Una fontana di Jean de Boulogne zampilla da questa vegetazione. Sono sceso or ora fino al piazzale dell'Isolotto per un lungo viale di cipressi. Sono seduto su una panchina dei giardini di Boboli il cui nome, forse ancora più bello della realtà, mi ha sempre fatto sognare e che collocavo a Roma ai tempi della mia folle giovinezza. Cacciati dalla dolcezza del cielo, Grenada, il Libano, la disoccupazione, l'inflazione si cancellano in un'onda lontana. Mi sembra di ritrovare dentro di me, quasi intatta, la vecchia e giovane ebbrezza che mi trascinava un tempo, quando, per la prima volta, scoprivo, abbagliato, i cipressi di Firenze e i pini marittimi della campagna romana.

Mi circondano studenti, madri di famiglia, bambini in bicicletta, omosessuali, barboni, due o tre coppie già anziane che non vogliono morire senza avere visto o rivisto il Ponte Vecchio e le porte del Battistero, alcuni innamorati e un gatto. Gli uni disegnano, gli altri si baciano, gli altri ancora non fanno niente oppure dormono a braccia incrociate, con un sorriso sulle labbra. Il gatto mi guarda. C'è bel tempo. Il sole brilla. È l'autunno fiorentino in tutto il suo splendore luminoso.


Di Firenze, del suo Duomo o della sua Signoria, dei suoi palazzi e delle sue chiese, del famoso corteo dei Re magi di Benozzo Gozzoli, dell'Annunciazione del Beato Angelico al convento di San Marco, di San Miniato o degli Uffizi, non dirò niente. Tanta storia e tanta bellezza miracolosamente preservate attraverso tante prove — l'ultima delle quali in termini di data è la terribile inondazione del novembre 1966 che già ricordano diverse targhe di marmo che ripercorrono sui muri la cronaca della città — fanno nascere una sorta di vertigine. Le palpebre sbattono; anche lo spirito freme. Gira la testa. Non è possibile che un popolo che vive fra tanti capolavori non ne sia penetrato e trasportato. Il passato delle altre nazioni è tutto fatto di battaglie, di vittorie e di sconfitte, di trattati di pace, di rivoluzioni, di patiboli, di intrighi e di discorsi. La storia di Firenze non fa eccezione, ma si direbbe che queste peripezie, per cui bisogna pur passare, non siano che pretesti per la bellezza. Se da qualche parte la vita è estetica, lo è sicuramente a Firenze. Allo stesso titolo che a Venezia o a Roma. Ancora di più, forse, che a Venezia o a Roma, che la spuntano su Firenze per diversi aspetti e che è lecito preferire, ma dove l'impero marittimo e l'onnipresenza del papato introducono preoccupazioni di potenza o di salvezza. Si direbbe che l'unica preoccupazione di Firenze, nonostante l'indignazione del Savonarola, sia creare bellezza. A volte con un po' troppa ricercatezza e sontuosità da nuovi ricchi. Ma sempre con grazia, con un gusto squisito, con uno slancio meraviglioso verso il fascino e la nobiltà.

Tutto contribuiva, in quegli ultimi giorni di ottobre bagnati da un ultimo sole, alla sensazione di felicità ormai così rara nel nostro tempo. Non c'erano solo i quadri, le sculture, le terrecotte, le porte di bronzo. C'erano le botteghe, lo spettacolo della strada, la commedia permanente, le famose trattorie. Era il tempo del tartufo bianco e dei funghi porcini. Si sostituivano o si aggiungevano alle lasagne, ai tortellini, alle tagliatelle, ai rigatoni, alle paste verdi e bianche mescolate che vengono graziosamente chiamate "paglia e fieno". Tutto, fino nei minimi dettagli, finisce per prendere il suo posto nel teatro italiano. Firenze, ossia la dolcezza della vita.


Siena è forse, se non più bella, per lo meno ancora più irresistibile della sua vecchia rivale. Tutto converge verso una piazza unica, indubbiamente la più sontuosa del mondo, quel Campo a forma di conchiglia in cui d'estate si svolge la cerimonia splendida e selvaggia del Palio. Da un bordo all'altro della piazza, i palazzi massicci e leggeri, di uno stupefacente colore ocra, al di sopra della fontana di Jacopo della Quercia proseguono il loro eterno dialogo che i rumori cupi e passeggeri dei giorni che viviamo non turbano affatto. Nel Palazzo comunale, accanto al celebre ritratto del condottiere Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti evoca in affreschi, sfortunatamente sciupati ma sempre meravigliosi, le delizie del buon governo e i disastri del cattivo. È sempre la stessa cosa: da un lato, in città e in campagna, asini carichi di ricchezze, un commercio incessante, un'attività gioiosa, la giustizia e la pace; dall'altro, soldati brutali e miliziani senza pudore che arrestano i cittadini e li sottomettono all'arbitrio. Da un lato, la libera circolazione, senza dubbio un po' incoraggiata, delle idee e dei beni; dall'altro, il controllo, la confisca, la violenza e la guerra.

A due passi da piazza del Campo e dal suo Palazzo comunale, si eleva la cattedrale. L'immenso monumento altro non è che il transetto di una gigantesca chiesa incompiuta di cui sussiste più di una traccia: qualche arco, frammenti di navata, un abbozzo di facciata. Nella navata sinistra si apre la libreria Piccolomini, dove il Pinturicchio ripercorre in una sorta di fumetto — ma con quale genio! — la vita di Enea Silvio Piccolomini, diventato papa con il nome di Pio II. Tuttavia, il più prodigioso di tutti quei tesori ammassati lo si calpesta: è il pavimento della cattedrale dove un intarsio di marmo, impaziente di riallacciare l'antichità al cristianesimo e di recuperare, come si direbbe oggi, il paganesimo classico, mescola, in un gustoso patchwork di mitologia e di pietà, sibille e profeti, filosofi e santi martiri. All'entrata della cattedrale, sotto un personaggio barbuto con il turbante, vestito di un ampio abito, c'è una sorprendente iscrizione di natura tale da fare sognare storici dell'antichità e delle religioni: Hermis Mercurius Trimegistus contemporaneus Moysi, Ermete Mercurio Trismegisto, contemporaneo di Mosè.

Tutto ciò è bello, divertente, irresistibile. Non mi dispiacerebbe essere una specie di delegato alla felicità della nostra epoca tormentata.


Passando in Santa Croce, a Firenze, davanti alla tomba di Machiavelli (Tanto nomini nullum par elogium), ho avuto un pensiero per Raymond Aron che ha usato e riabilitato l'autore del Principe. Nessuno era meno machiavellico, nel senso volgare della parola, di Raymond Aron che al contrario incarnava un pensiero che rifiutava la menzogna politica e la sottomissione dei fini ai mezzi. In opposizione all'ideologia, Machiavelli gli portava un rispetto dei fatti, un'apertura all'evento, una modestia e al tempo stesso un'efficacia dell'intelligenza storica. Con uno straordinario capovolgimento, era l'ideologia prigioniera delle sue passioni che, per trionfare, non indietreggiava dinanzi a niente. Machiavelli, sinonimo, nel linguaggio corrente, di astuzia e di falsità, contribuiva a gettare sulla storia uno sguardo lucido e giusto. All'estremo opposto del machiavellismo, lontanissimo dall'essere machiavellico, Aron era machiavelliano. Pensava che, in fin dei conti, gli accorti lettori di Machiavelli facessero meno male dei discepoli smarriti di Marx. Preferiva il consigliere del principe al segretario, e specialmente al primo segretario della falsa provvidenza che gli uomini, nella loro follia, hanno fatto scendere dal cielo per stabilirla sulla terra.

"Le Figaro Magazine", 5 novembre 1983

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Pagina 395

UNA PRESENZA FRANCESE

Respirate un po' prima dell'avvampare delle elezioni legislative. Torno dall'oceano Indiano dove ho visitato, di volta in volta, con una fretta colpevole, ahimè, due di quelle terre lontane in cui la Francia e la lingua francese sono così straordinariamente presenti: le Mauritius e La Réunion, l'ex Île de France e l'ex Île Bourbon. La bellezza del cielo e dei paesaggi, dei ricordi commoventi per ogni francese, un crogiolo di culture e di religioni in cui la diversità si risolve in unità, una popolazione che ha da affrontare, come tutti, i duri problemi del mondo moderno, ma il cui fascino e il cui sorriso sono leggendari: ecco il quadro generale di queste isole meno grandi ma più popolate, sia l'una sia l'altra, della Corsica e situate a circa diecimila chilometri dall'Europa.

La Réunion, come ciascuno sa, è un dipartimento francese d'oltremare con un consiglio generale e una prefettura insediate in un vecchio edificio, restaurato e ampliato, della Compagnia delle Indie. A Saint-Denis, il capoluogo, la città più grande dell'oltremare francese con 120 000 abitanti, si passeggia sotto il cielo dei tropici e nel contempo in una provincia francese in cui la residenza del prefetto, la cattedrale, il municipio sono circondati da moschee, da templi tamil e da pagode cinesi. Tutti parlano francese, certamente, ma con un gusto, un lato divertente, un'inventiva creoli che sono irresistibili. Quelli che vengono chiamati z'arabes, indiani musulmani, gestiscono molte attività commerciali, in particolare nel tessile, e i loro mercati e le loro botteghe sono a due passi dalle vecchie case di legno, in stile tipicamente creolo. Da Saint-Denis sono venuti uomini politici come Raymond Barre, aviatori come Roland Garros, poeti come Leconte de Lisle o Léon Dierx, oggi un po' dimenticato, ma che, alla morte di Mallarmé, era stato eletto "principe dei poeti" dai suoi pari. Il nome di Poivre, che fu intendente dell'Île Bourbon e che ha lasciato il suo nome nella storia delle spezie, o quello di Mahé de la Bourdonnais, che fu il grande uomo di queste terre australi nel settecento, sono presenti ovunque.

La Réunion, come le Mauritius, è il regno della vaniglia, del geranio, del chouchou, lo zucchino spinoso, farcito in tutte le forme in tutti i piatti, ma prima di tutto della canna da zucchero. È per fare fronte alle necessità della raccolta della canna da zucchero dopo l'abolizione della schiavitù che decine di migliaia di indiani tamil, detti sia malabars sia z'arabes, furono importati dai piantatori. La Réunion è un'isola vulcanica dominata dalla massa a strapiombo del Piton des Neiges (che non è mai innevato, ma culmina un po' oltre i 3 000 metri). Il sorvolo in elicottero dei circhi nati dall'erosione e dal cedimento di pareti gigantesche, dove vive, in un selvatico isolamento, una popolazione attaccata ai suoi altipiani chiamati îlets, isolotti, è un'esperienza indimenticabile.

Indipendenti da diversi anni, le Mauritius, ex Île de France, sono simili e dissimili dalla vicina La Réunion. Prima di accedere all'indipendenza (e di essere dirette dagli indiani, la cui influenza è predominante), le Mauritius erano inglesi. Nel 1810, la flotta inglese le aveva vinte ai francesi. Al Congresso di Vienna, gli inglesi avevano restituito l'Île Bourbon ai Borboni, ma avevano mantenuto l'Île de France. Il miracolo è stato che, malgrado l'irrisoria proporzione di francesi, le popolazioni dell'isola, esempio di fedeltà che ha qualcosa di sconvolgente, hanno continuato a parlare francese.

Questo attaccamento alla lingua, unito a un fascino inesprimibile, di cui Bernardin de Saint-Pierre ha dato un'idea in Paul et Virginie (1787; Paolo e Virginia), fa delle Mauritius una sorta di paradiso francese esterno alla Francia. Questo paradosso salta agli occhi alla sola lettura della cartina dell'isola. Da Port-Louis, la capitale di 150 000 abitanti, a Curepipe, al Quartier militaire, al Bois d'Oiseaux, alle Quatre Sceurs, da Flic en Flac al Trou d'eau douce o alla deliziosa Île aux Cerfs, nell'Île de France non è altro che un susseguirsi di echi e di ricordi della lontana Francia. Da Baudelaire, che scoprì la sua Dame créole nel corso del viaggio del 1841, o da Le Clézio originario dell'isola, al Bal du dodo (1989), il ballo del dodo, di Geneviève Dormann, la letteratura francese ha solidi legami con le Mauritius. Il legame che mi è più caro è quello tessuto da Paul-Jean Toulet che, nato a Pau, ma concepito alle Mauritius, venne a rituffarsi nelle sue origini, nel 1885, prima di diventare un drogato frequentatore di bar e un grande poeta nella Parigi della belle époque.

In uno scenario di spiagge, di colline e di fiori, anche la canna da zucchero, prima del tè e del tessile, ha regnato sulle Mauritius. Dei duecento zuccherifici del XIX secolo, ne restano attivi una ventina. I tempi sono duri, ma le Mauritius fanno fronte alla crisi con successo. Per dire solo una parola dei problemi che si porranno domani, la situazione politica, economica e sociale sembra, per molti motivi, più preoccupante a La Réunion che alle Mauritius.

"Le Figaro Magazine", 18 dicembre 1993

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Pagina 406

BISOGNA SALVARE DUBROVNIK!

L'ultima volta che ho visto Dubrovnik, pioveva. È un ricordo meraviglioso, e mi resta molto caro.

Intatta, preservata dai secoli, circondata dai suoi bastioni, la città era bella tanto sotto l'incombente temporale che faceva brillare le sue pietre bianche di un bagliore fantastico quanto sotto il sole radioso delle mie visite precedenti.

Se c'è una città al mondo in cui la cultura, il fascino, la bellezza dello scenario, tutte le ricchezze della storia e dell'arte si sono date appuntamento in uno spazio ristretto e chiuso, quella è Dubrovnik, schiacciata sulla roccia davanti a un mare disseminato di isole. Quando ho saputo, come tutti, che il più bel porto d'Europa, uno dei focolai del nostro patrimonio universale, era minacciato dalla guerra, ho pianto come all'annuncio della morte di un amico o di un'immensa catastrofe che stesse per inghiottire tutto un mondo.

L'arte, la bellezza, la libertà, la repubblica appaiono molto presto a Dubrovnik che è, accanto a Venezia, l'immagine della democrazia aristocratica e illuminata. Verso l'inizio del VII secolo, sulla costa dalmata, un'antica colonia della città greca di Epidauro, unita nel mondo romano alla provincia dell'Illiria che faceva parte dell'impero d'Occidente, viene devastata dagli slavi. I suoi abitanti fondano su un isolotto alcune leghe più a nord una nuova città chiamata Ragusium o Ragusa. Sulla terraferma, di fronte all'isola, s'insedia una tribù slava, in mezzo a boschetti di querce, a Dubrava. Nel XIII secolo, lo stretto canale che separa le città greca e latina dall'insediamento slavo viene colmato: Ragusa e Dubrovnik confondevano i loro destini.

Per secoli e secoli, una città di cultura greco-latina votata al commercio marittimo, si costituisce, in ambiente slavo, sui confini del mondo orientale, dominato, a quel tempo, dall'impero bizantino.

Nel 1204, Venezia la spunta su Bisanzio. Ragusa passa sotto il controllo di Venezia che dà alla città un regime repubblicano e aristocratico ricalcato su quello dei dogi: un rettore eletto, due consigli, un senato. La nobiltà è greco-romana, la borghesia e il popolo sono slavi. Il latino, all'inizio l'unica lingua ufficiale, deve ben presto condividere il suo monopolio con il croato. Ragusa conduce una politica che chiameremmo liberale, e regna, con Venezia, sul commercio marittimo nel Mediterraneo.

Quando Venezia declina, Ragusa riconosce l'autorità, piuttosto leggera, degli ungheresi. Quando i turchi invadono la totalità dei Balcani, paga il tributo al sultano, ma preserva l'essenziale della sua autonomia, al punto che lì si stabiliscono gl'istituti di credito delle grandi città mercantili d'Italia e di Spagna in ritirata da Costantinopoli, mutata in Istanbul. La città liberale, aristocratica, mercantile, diplomatica, attraverso i secoli assicura la sua indipendenza e accumula ricchezze.

Controlla la lavorazione del sale e il commercio degli schiavi nei Balcani la cui eco sussiste a Venezia con la Riva degli Schiavoni, che corre, lungo la laguna, davanti all'hotel Danieli, dalla Piazzetta fino agli approdi dell'Arsenale e alla pensione Bucintoro.

Il commercio dell'argento, del rame, del piombo, del cinabro contribuisce al suo arricchimento. La prosperità economica porta a una fioritura delle lettere e delle arti e a una progressiva e rapida umanizzazione. Dal 1347, Ragusa vanta un ospizio per anziani. Il commercio degli schiavi e la tortura sono aboliti dal 1416. L'istruzione pubblica raggiunge presto, a Ragusa, un livello molto elevato.


Nel XVI e nel XVII secolo, con una borghesia che cresce e un'aristocrazia che rimane, Ragusa conosce il suo apogeo. Collocata ai margini dell'impero ottomano, come era stata Venezia, fino al XIII secolo, ai margini dell'impero bizantino, arma una delle flotte dominanti dell'Europa e diventa l'intermediaria obbligata tra i paesi cristiani e i paesi musulmani.

Il 6 aprile 1687, un violento terremoto distrugge buona parte della città e annienta più della metà della popolazione. Le conseguenze della scoperta del Nuovo Mondo e lo sviluppo marittimo delle grandi potenze riducono la sua attività commerciale, allo stesso titolo di quella di Venezia. Gli elementi slavi acquisiscono sempre maggiore importanza in seno alla repubblica urbana, che salvaguarda l'indipendenza ma diventa un anacronismo in un mondo di grandi potenze rivali.

Nel 1797, Bonaparte distrugge la repubblica di Venezia. Alcuni anni dopo, le truppe di Napoleone fanno il loro ingresso in Ragusa. Nel 1806, il generale Marmont viene nominato governatore della Dalmazia occupata dai francesi e nel 1808 scioglie il governo e il senato di Ragusa. Quando il maresciallo Marmont, duca di Ragusa, abbandona la causa dell'imperatore vinto per quella dei Borboni vincitori, il verbo "ragusare" diventa, per i bonapartisti, sinonimo di tradire. Alla caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna assegna Ragusa all'Austria-Ungheria. La città sarà integrata nella Iugoslavia nel 1918, con il nome di Dubrovnik.


Tutte queste tribolazioni del tempo, tutti questi viavai della storia, anche i nomi degli umanisti, dei poeti, dei filosofi, dei matematici, degli artisti che hanno dato a Ragusa una gloria universale e che le hanno procurato il nome di Atene degli slavi del sud si possono dimenticare quando si passeggia per Dubrovnik, interamente circondata dalla cinta di bastioni.

Oltrepassati i bastioni, vi trovate sulla Placa, mirabile viale rettilineo che taglia la città da parte a parte, costruito sull'antico braccio di mare che un tempo separava l'insulare Ragusa dalla città slava di Dubrovnik. È lì che, lontani dalla circolazione automobilistica, vietata all'interno dei bastioni, s'innalzano i più bei monumenti di questa città senza uguali, in cui il viaggiatore ritrova l'atmosfera colma di bellezza e di pace di una città d'altri tempi.

La fontana d'Onofrio davanti al primo ospizio per trovatelli istituito in Europa, la mirabile chiesa rinascimentale di Sveti Spas, il Santo Salvatore, il convento dei francescani con il suo chiostro così strano e la sua farmacia del 1318, una delle più vecchie d'Europa, adorna di vasi senza prezzo e di accessori dell'epoca, basterebbero da soli a fare la gloria di qualsiasi città del mondo.

Nella chiesa dei francescani, un quadro del quattrocento raffigura san Biagio, patrono della città, con in mano la riproduzione in miniatura di Dubrovnik. L'aspetto che la città offre oggi è quasi simile, malgrado i secoli, le guerre, gli incendi e i terremoti, a quello che presentava cinquecento anni or sono. Ma tutti questi incanti e tutte queste bellezze altro non sono se non alcune testimonianze di un passato prodigioso.

Sul bordo della Placa si erge la torre dell'Orologio. Occupa il centro di una piazzetta intorno a cui si raccolgono i capolavori di Dubrovnik: il palazzo Sponza, armonioso, insieme gotico e rinascimentale, la cui facciata si adorna di una galleria sostenuta da cinque pilastri che formano sei archi di suprema eleganza. Di fronte al palazzo, la chiesa barocca di San Biagio. Davanti alla chiesa, la colonna di Rolando, eretta nel 1418: secondo la leggenda, il nipote di Carlo Magno sbarcò a Ragusa alla testa di una flotta franca per combattere i saraceni.

Ma il più bello di tutti gli edifici di Dubrovnik è il palazzo del Rettore. Costruito nel XII secolo, danneggiato dal terremoto, ricostruito nel XV, accoglieva il rettore eletto mensilmente che, durante il mese della sua magistratura, non aveva il diritto di lasciare il palazzo, donde l'iscrizione latina: Obliti privatorum publica curate, dimenticate le faccende private e curatevi di quelle pubbliche.

Bisognerebbe parlare della cattedrale gotica, delle tele di Tiziano, di Raffaello, di Tiepolo, del palazzo del Gran Consiglio, eretto nel XIV secolo e distrutto dalle fiamme nel 1816.

Ma l'essenziale, a Dubrovnik, è bighellonare per le strette viuzze, dietro i grandi monumenti, all'ombra dei bastioni, e ritrovare il profumo dei secoli passati. Forse in nessuna parte del mondo il passato è così vivo come dietro i vecchi bastioni di Dubrovnik, con le pietre sbiancate dal tempo.

Dubrovnik figura tra le città d'arte protette come patrimonio dell'umanità. La Iugoslavia fa parte delle Nazioni Unite fondate contro la guerra e per i diritti dell'uomo. Fa parte dell'Unesco che protegge essenzialmente la cultura e le belle arti.

Sfigurare Dubrovnik sarebbe ripetere Guernica. La coscienza internazionale si solleverebbe per denunciare il crimine. Sin da oggi, prima che si produca l'irrimediabile, tutti coloro che si dicono attaccati alla cultura e all'arte devono mobilitarsi per salvare Dubrovnik dall'efferatezza della guerra civile e dalla distruzione. L'Europa non può costruirsi sulle rovine di Dubrovnik. Deve venire in soccorso alla città. La comunità internazionale non può lasciare commettere un misfatto che la screditerebbe. Deve fare di tutto per preservare un tesoro che ha la missione di proteggere. Già Zara, Split (l'antica Spalato di Diocleziano), Sebenico, con la sua mirabile cattedrale, sono gravemente minacciate. Dubrovnik, capolavoro universale, deve essere salvata dalla rovina.

Non si tratta di prendere partito nella guerra che oppone croati e serbi. Si tratta dell'idea che ci facciamo della cultura e della civiltà. Se necessario, che alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite, dell'Unesco, della Comunità europea si rechino a Dubrovnik. Kouchner parlava un tempo di un "devoir d'ingérence". Ora o mai più: è il momento di applicare questi bei princìpi.


Sogno di vedere Delors e commissari britannici, italiani, spagnoli, tedeschi sbarcare a Dubrovnik. Che i ministri della cultura e dell'ambiente, Jack Lang, Lalondè, Kouchner in testa, manifestino la loro intenzione di partire di persona per Dubrovnik e, se necessario, di farvisi paracadutare. Va da sé che mi unirei volentieri, con molti altri, ne sono sicuro, a questa spedizione pacifica in cui non si tratterebbe nemmeno di minacciare chicchessia, ma solo di correre il rischio, d'altronde abbastanza lieve, di buscarsi una pallottola vagante o di slogarsi una caviglia saltando con il paracadute.

Deniau, Lévy, Rheims, Sureau, non è che ci andremmo tutti? Bisognerebbe, di tanto in tanto, rendere un po' di quello di cui siamo debitori ai luoghi di sogno che abbiamo amato.

Immagino che la presenza di un certo numero di ministri, di deputati, di accademici malaticci e di scrittori esaltati, venuti da tutta Europa per manifestare il proprio attaccamento ai tesori d'arte di Dubrovnik, basterebbe a salvare la città da una possibile distruzione.

Mi assicurano che molti giovani, che adorano i viaggi, invidiano i loro avi, i Byron, i Malraux, i Kessel, che avevano grandi cause per cui combattere. Eccone una: un grande movimento della pace e della cultura per salvare Dubrovnik dalla sorte di Beirut o di Angkor.

Se, per disgrazia, Dubrovnik dovesse essere preda delle bombe, non darei un centesimo per un'Europa la cui nascita sia stata segnata da un crimine tanto abominevole. Supplico tutti coloro che hanno potere nel mondo, e anzitutto in Europa, di fare appello al proprio coraggio e alla propria immaginazione, al coraggio di tutti e all'immaginazione di tutti, per salvare Dubrovnik da una distruzione che impoverirebbe l'universo.

"Le Figaro", 7 ottobre 1991

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