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| << | < | > | >> |IndiceNarrazione della vita di Frederick Douglass, uno schiavo americano, scritta da lui stesso: un'introduzione 7 Alessandro Portelli Prefazione 33 Bruno Maffi Memorie di uno schiavo fuggiasco Capitolo primo 45 Capitolo secondo 51 Capitolo terzo 57 Capitolo quarto 61 Capitolo quinto 65 Capitolo sesto 69 Capitolo settimo 73 Capitolo ottavo 79 Capitolo nono 85 Capitolo decimo 91 Capitolo undicesimo 121 Poscritto 133 Appendice. L'indipendenza e la schiavitù 143 |
| << | < | > | >> |Pagina 7UN CLASSICO AMERICANO Frederick Douglass (1818-1895) è uno dei protagonisti della storia del diciannovesimo secolo. Contemporaneo dei classici del «rinascimento americano», prende posto accanto a Melville e Hawthorne, a Whitman, Emerson e Thoreau non solo in virtù dell'espansione multiculturale del canone letterario, ma come loro pari. Corrispondente e polemico interlocutore di Harriet Beecher Stowe, propone un discorso sulla schiavitù e sull'America alternativo alla Capanna dello zio Tom. Primo fa pari e contemporanei come David Walker, Henry Highland Garnet, William Wells Brown, Sojourner Truth, Harriet Jacobs, è capostipite della tradizione intellettuale e politica da cui scaturiscono Booker T. Washington e W.E.B. DuBois, Martin Luther King e Malcolm X, e della tradizione letteraria di Charles Chesnutt, Richard Wright, Toni Morrison. Nato schiavo («diplomato della scuola della schiavitù, col diploma scritto a frustate sulla schiena»), Frederick Douglass trova nella passione per la libertà, nel desiderio di conoscenza, e nell'aiuto della comunità nera di Baltimore la forza per liberarsi. Ma non resta a godere nell'ombra i frutti modesti di una condizione di proletario di seconda classe sui moli di New Bedford (dove, mentre lui rotolava barili nelle stive, Herman Melville cercava imbarco su una baleniera). La forza della sua parola ne fa prima un «esortatore» nella chiesa metodista, poi eloquente oratore antischiavista, fra i più ammirati della cosiddetta «età dell'oro» oratoria americana, infine scrittore e giornalista indipendente. Nella prima assemblea del movimento per i diritti delle donne (Seneca Falls, 1848), è l'unico delegato di sesso maschile che si esprime inequivocabilmente per il voto alle donne. Sconsiglia il tentativo di John Brown di suscitare un'insurrezione di schiavi in Appalachia, ma gli porta soldi e cibo. Durante la guerra civile, attacca Lincoln per le sue esitazioni, lo appoggia per le sue azioni, recluta soldati neri per il fronte. Si batte, in gran parte invano, per garantire i diritti politici e una base economica indipendente ai neri precariamente liberati; ottiene incarichi politici, diventa ambasciatore degli Stati Uniti presso la repubblica nera di Haiti, trascorre gli ultimi anni in una dura campagna contro la nuova piaga del linciaggio. E scrive: tre autobiografie, infiniti discorsi, centinaia di articoli ed editoriali. Di tutto questo, il libro che abbiamo sotto mano – Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave, Written by Himself – pubblicato nel 1845, narra la prima fase: la formazione di una coscienza, la costruzione di sé come passaggio ineludibile per una liberazione spirituale e materiale insieme. Non è un documento umano, i patetici ricordi di un fuggiasco e di una vittima, ma l'orgogliosa affermazione di una irriducibile coscienza intellettuale che crea se stessa attraverso la voce e la scrittura, svelando i paradossi dell'identità personale e nazionale. Più tardi, Douglass continuerà a scrivere l'unico libro di cui è capace e che gli interessi veramente, il libro della sua vita: My Bondage and My Freedom (1855) rilegge l'esperienza di schiavo nel contesto della lotta per l'emancipazione; Life and Times of Frederick Douglass (1881, rivisto nel 1892) è il consuntivo, deluso e orgoglioso, di una vita che ha segnato il suo tempo. Frederick Douglass non è del tutto ignoto ai lettori italiani. La pionieristica traduzione di Bruno Maffi (Milano, il Saggiatore), risale al 1962: la ripresentiamo qui accompagnata all'introduzione scritta allora. Nel 1978 usciva una traduzione parziale di Life and Times (Savelli, 1978), tradotto da Serena Pelaggi e curato da Carole Beebe Tarantelli. Ma forse solo oggi siamo in grado di leggerlo con occhi nuovi, con alle spalle anni cruciali di auto-ricostruzione della storia culturale afro-americana. Oltre alla denuncia, possiamo leggere oggi più nitidamente l'affermazione; oltre alla fuga dall'America schiavista, possiamo riconoscere la rivendicazione di un'America diversa che non esiste ancora. | << | < | > | >> |Pagina 15«...OF FREDERICK DOUGLASS...»«I am myself, you are yourself»: io sono io, voi siete voi; siamo «due persone distinte e uguali». Così Douglass annuncia nella lettera all'ex padrone il compimento del suo processo di liberazione: sono parole banali e sovversive insieme, sovversive perché sono banali, perché non dovrebbe esserci bisogno di dirle. Ma uno schiavo non ha un «sé»; e, se lo ha, non può chiamarlo «mio», perché è di proprietà di un altro uomo. Douglass ha dovuto «farsi uomo» sia storicamente, sia narrativamente: emanciparsi materialmente dagli Auld e dai Covey, e creare una persona autobiografica, un'immagine di sé nella scrittura. È, in un certo senso, il compito di ogni atto autobiografico: la narrazione è sempre legittimata dall'avvenuta emancipazione o trasformazione del soggetto che si narra. In questo senso, Douglass è apparentato al canone americano che nasce con l'autobiografia di Benjamin Franklin, la storia del «farsi da sé» di un individuo autonomo e distinto. Con Franklin, Douglass condivide alcuni elementi non trascurabili: una storia anche di successo materiale (da schiavo ad ambasciatore); persino il suo successivo dialogo con l'ex padrone da cui è fuggito ha un parallelo nella ricomposizione tra Franklin e il fratello-padrone da cui si era emancipato con un trucco legale all'inizio della sua carriera. Ma il tratto comune più rilevante è il tono fortemente individualistico del racconto. Nella Narrative, Douglass è significativamente solo: anche i ricordi familiari della nonna, l'amicizia con i compagni di schiavitù da Mr. Freeland, la cerchia di amicizie nella comunità nera di Baltimore, restano sullo sfondo, né sembrano influire in modo decisivo sulla formazione di Douglass e sulla sua liberazione. Di sua moglie Anna apprendiamo l'esistenza solo dopo che è fuggito: come dire che lei con la sua liberazione non c'entra niente, anche se fu lei a trovare i soldi grazie ai quali Douglass riuscì a fuggire. Al di là dei dati materiali, Douglass intende rappresentarci la sua liberazione come un fatto interno dovuto interamente a se stesso. Per tutta la vita fu orgoglioso, a volte addirittura arrogante, non privo di vanità; nella Narrative senz'altro si costruisce un'immagine eroica («The Heroic Slave» è il titolo del suo solo tentativo di fiction, in parte anche una fantasia autobiografica), ma insiste anche sul fatto che lo schiavo che vuole farsi uomo deve farsi da sé. Dopo tutto, la più popolare e richiesta delle sue conferenze, presentata in pubblico dal 1859 fino agli ultimi anni della sua vita, aveva per titolo «Self Made Men». È titolo ambiguo nella tradizione di Franklin e negli anni di Horatio Alger e del mito della mobilità sociale, dall'ago al milione. Ma, dette da un ex schiavo, tutte e tre queste parole – uomo fatto da sé – acquistano una nuova radicalità polemica. «Uomo», uno che era stato legalmente oggetto e culturalmente assimilato alle bestie. «Fatto», soggetto di volontà e di azione, un essere che era stato definito nient'altro che «un'estensione del volere del padrone». E soprattutto, come abbiamo visto, «sé». La costruzione del sé, lo abbiamo detto, è il lavoro di tutte le autobiografie. Ma le condizioni in cui avviene nell'autobiografia afroamericana sono differenti. Basta confrontare l'apertura della Narrative con quella dell' Autobiografia di Franklin. Sebbene si prepari a rifondare il genere autobiografico sulla base di un'autonoma costruzione di sé, Franklin si preoccupa di garantirsi le basi tradizionali dell'autorità ricapitolando la storia dei propri antenati, e ritrovandone la documentazione scritta fin dal 1555. Douglass, invece, comincia proprio con l'assenza di qualunque «documento ufficiale» sulla sua nascita e i suoi antenati. Franklin giustifica la scrittura dell'autobiografia con la richiesta di potenziali lettori, mentre Douglass si scontra con un divieto radicale di scrivere e di raccontare. La costruzione di sé comincia dunque per Franklin sulla base del sicuro possesso dell'identità e del nome, della scrittura, del pubblico. Per Douglass, le condizioni di partenza sono tutte da costruire. | << | < | > | >> |Pagina 19«...AN AMERICAN SLAVE...»«Uno schiavo americano»: Douglass è il primo autobiografo nero a usare nel titolo del suo libro questa formula disarmante e sovversiva, anziché la più diffusa e rassicurante definizione di «schiavo fuggiasco» («runaway» o «fugitive»). Dietro il velo denotativo, Douglass enuncia un paradosso lacerante: come si può essere Americano, nato nella terra della libertà e della democrazia, e insieme schiavo? Qui non si tratta più solo di definire l'identità dello schiavo Douglass, ma l'identità dell'America. Il 4 di luglio del 1852 i cittadini di Rochester, nello stato di New York, chiedono a Douglass, che lì risiede da qualche anno, di prendere la parola nel corso delle rituali celebrazioni dell'anniversario della Dichiarazione d'Indipendenza. Douglass rifiuta: parlerà solo il giorno dopo. È il suo discorso più celebre e radicale, intitolato: «Che cos'è per lo schiavo il Quattro di Luglio?» Io non sono incluso in questo glorioso anniversario. La vostra nobile indipendenza non fa che rivelare la distanza fra noi... Questo Quattro di Luglio è vostro, non mio. Voi festeggiate, io devo portare il lutto. Trascinare un uomo in catene nel grande luminoso tempio della libertà, e chiedergli di unirsi a voi nel canto degli inni di gioia sarebbe una derisione inumana e un'ironia sacrilega. Volete prendermi in giro, cittadini, chiedendomi di parlare oggi? Douglass non è un cittadino. Riassumendo la sentenza della Corte Suprema nel caso Dred Scott (1857), Douglass ribadirà che negli Stati Uniti «le persone di colore di discendenza africana non hanno diritti che i bianchi siano tenuti a rispettare; gli uomini di colore di discendenza africana non sono e non possono essere cittadini degli Stati Uniti». Eppure, nello stesso discorso del Quattro di Luglio, si rivolge agli ascoltatori come «fellow-citizens», concittadini. Mentre li accusa («Americani! La vostra politica repubblicana, non meno della vostra religione repubblicana, sono flagrantemente incoerenti!»), rivendica una comune nazionalità: come potete, chiede, continuare a «sostenere e perpetuare la riduzione in schiavitù di tre milioni dei vostri connazionali»? Prima ancora, parlando a un pubblico di abolizionisti inglesi, aveva detto: «Confesso che, sebbene mi prepari a tornare in quel paese, non ho intenzione di fare alcuna professione di rispetto verso quel paese o le sue istituzioni. Il fatto è che l'intero sistema, tutta la rete della società americana, è un'unica grande falsità». Eppure, nella stessa frase, parla dell'America come «home»: forse non la sua patria, ma sicuramente la sua casa. Ma anche il diritto di chiamarla tale è in discussione. Nato in America come i suoi antenati da più di un secolo, Douglass deve battersi per il diritto di dirsi «americano». Come dice Toni Morrison, non pochi fra gli abolizionisti odiano la schiavitù solo leggermente più di quanto non odiano gli schiavi: la presenza dei neri sul territorio americano appare intollerabile anche a una fascia non trascurabile dell'opinione antischiavista, e l'idea di emancipare gli schiavi si accompagna al progetto di riportarli in Africa. Così, fra il 1816 e il 1830 la American Colonization Society trasferisce oltre 4500 neri emancipati nella nuova repubblica di Liberia, fondata in Africa espressamente a questo fine. È una strategia osteggiata da tutto il movimento abolizionista nero: «Viviamo qui, abbiamo sempre vissuto qui, e intendiamo continuare a vivere qui», scrive Douglass nel 1849, e su questo non tornerà mai indietro. Ancora in piena guerra civile, Lincoln ribadiva che la «mera presenza» dei neri in America era la causa del conflitto. Incontrando una delegazione di afro-americani di cui faceva parte Frederick Douglass, affermava che «C'è fra noi la differenza più grande che possa esistere fra due razze... Credo che la vostra razza soffra molto finché tanti di voi vivono fra noi, mentre la nostra soffre della vostra presenza». Pertanto, Lincoln concludeva proponendo l'emigrazione dei neri in colonie da fondare nell'America Centrale. «Mr. Lincoln,» rispondeva Douglass in un editoriale, «rivela tutta la sua incoerenza, tutta la sua superbia razziale e di sangue, il suo disprezzo per i neri, la sua vuota ipocrisia». E applica a Lincoln la metafora del serpente che aveva usato per Covey: «È incredibile che un uomo onesto possa strisciare così in basso da assumere un simile carattere». Eppure è proprio attraverso gli incontri e gli scontri con Lincoln che Douglass passa dalla posizione di rifiuto delle istituzioni americane, a una rivendicazione di partecipazione in esse: dal diritto a dirsi americano per residenza, alla piena cittadinanza; dallo smascheramento dell'«inganno» delle istituzioni americane, alla rivalutazione e rivendicazione dei principi democratici. Reclutando soldati neri per combattere nella guerra civile, e battendosi per il diritto di voto, Douglass afferma che gli afro-americani sono protagonisti non solo della propria liberazione, ma della vita americana nel suo complesso. Quando gli verranno conferiti incarichi politici (assai modesti), Douglass li vedrà, senza falsa modestia, come un doveroso riconoscimento dei suoi meriti e qualità, ma anche come affermazione del diritto dei neri a partecipare al governo del paese. | << | < | > | >> |Pagina 45Nacqui a Tuckahol, presso Hillsborough e a dodici miglia circa da Easton, nella contea di Talbot nel Maryland. Non ho un'idea precisa della mia età perché non ho mai visto un documento ufficiale che la registrasse. L'enorme maggioranza degli schiavi sanno, della loro età, quanto ne sanno i cavalli, e su questo punto tutti i padroni di mia conoscenza ci tengono a mantenerli nel buio più completo. Non ricordo di aver mai trovato uno schiavo che sapesse dire in quale giorno fosse venuto al mondo. Al massimo, parlava vagamente della stagione della semina, della stagione del raccolto, della stagione delle ciliegie, o della primavera, o dell'autunno. Fu questa, per me, una causa di disagio sin dall'infanzia. I ragazzi bianchi sapevano dire quanti anni avevano: perché mi era negato lo stesso privilegio? Non potevo certo chiederlo al mio padrone. Per lui, qualunque domanda simile da parte di uno schiavo era scorretta e impertinente, segno di spirito irrequieto. Il calcolo meno improbabile che possa fare mi dà qualcosa come ventisette o ventott'anni. Lo deduco dall'aver sentito dal mio padrone, in non so che mese del 1835, che ne avevo circa diciassette. Mia madre si chiamava Harriet Bailey. Era figlia di Isaac e Betsey Bailey; entrambi neri, e neri assai. Ma era di carnagione più scura che i miei due nonni. Mio padre era un bianco — secondo tutti coloro che ho sentito parlare della mia parentela. Correva pure voce, o almeno si sussurrava, che fosse il mio padrone; ma dell'esattezza di questa storia io non so nulla, essendomi stato precluso il modo di saperlo. Infatti, mia madre e io fummo separati ch'ero piccolissimo — prima che la conoscessi come mia madre. È abitudine corrente, nella parte del Maryland dalla quale son fuggito, strappare i figli alle loro madri in età tenerissima. Sovente, prima che il piccolo abbia raggiunto i dodici mesi, sua madre viene prestata a una fattoria distante un buon tratto di cammino, e lui affidato a una vecchia troppo carica d'anni per poter lavorare la terra. Perché questa separazione venga imposta lo ignoro, se non è per impedire che il bimbo si affezioni alla madre, e smorzare e distruggere il naturale affetto della madre per il bimbo. Comunque, è questo il risultato inevitabile. Non vidi mai mia madre, sapendo che si trattava di lei, più di quattro o cinque volte in vita mia, e ognuna per una durata molto breve, e di notte. Era stata prestata al signor Stewart, che abitava a dodici miglia circa da casa mia; e veniva a trovarmi di notte, coprendo l'intera strada a piedi, finita la giornata di lavoro. Lavorava nei campi, e la pena, per chi non si presenta in campagna al levar del sole, è la frusta, a meno che uno schiavo non riceva dal padrone un permesso speciale — permesso che si ottiene di rado, e conferisce a chi lo dà il nome orgoglioso di «padrone cortese». Non ricordo di aver mai visto mia madre alla luce del giorno. Era con me di notte. Mi si sdraiava accanto e mi cullava; ma, molto prima che mi svegliassi, era partita. Sapevamo pochissimo l'uno dell'altra, e il tenue legame con me che le era stato concesso di mantenere in vita fu ben presto spezzato insieme con le sue sofferenze e fatiche, dalla morte. Morì che avevo sette anni circa in una delle fattorie del mio padrone, presso Lee's Mill. A me non fu concesso di assistere né alla sua malattia, né alla sua morte, né al suo funerale. Se ne andò molto prima che ne sapessi nulla; e, non avendo se non fugacemente goduto il conforto della sua vicinanza, delle sue cure trepide e amorose, accolsi la notizia della sua scomparsa suppergiù con la stessa emozione che, probabilmente, avrei sentito alla scomparsa di un estraneo. Così bruscamente chiamata altrove, essa mi lasciò senza il più pallido sospetto di chi fosse mio padre. La voce che questi fosse il mio padrone può essere o non vera; e, vera o falsa che sia, importa poco agli effetti miei, mentre resta in tutta la sua lampante odiosità il fatto che i proprietari di schiavi vollero, e stabilirono per legge, che i figli delle schiave seguano in tutti i casi la condizione della madre; e ciò allo scopo fin troppo palese di facilitare le loro voglie, e rendere tanto utile quanto dilettevole la soddisfazione di brame malvagie; giacché, con questo abile espediente, il negriero, in non pochi casi, mantiene nei riguardi degli schiavi il duplice rapporto di padrone e di padre. Conosco di questi casi, ed è degno di nota che gli schiavi in condizioni simili patiscano invariabilmente maggiori durezze che gli altri, e abbiano assai più da combattere. Prima di tutto, sono un eterno pruno negli occhi della padrona. Questa è sempre propensa a trovarli in fallo, è raro che non abbia a ridire su come agiscono; non è mai tanto felice come quando li vede sotto il frustino, specialmente se sospetta il marito di mostrare verso i figli mulatti i favori di cui priva i suoi schiavi negri. Spesso, per deferenza verso i sentimenti della sua consorte bianca, il padrone è costretto a vendere questa categoria di schiavi; e, per crudele che possa sembrare, non di rado è un senso di umanità che lo spinge a cedere le sue creature a un mercante di carne umana, perché se non lo facesse dovrebbe non soltanto frustarli di suo pugno, ma assistere allo spettacolo di uno dei suoi figli bianchi che lega a un palo il fratello, appena un'ombra più scuro, e gli abbassa sulla schiena nuda la correggia insanguinata; e, se bisbiglia una parola di riprovazione, questa è interpretata come parzialità affettiva, e non fa che peggiorare la situazione sia per lui, che per lo schiavo al quale vorrebbe poter dare protezione e difesa. Ogni anno produce una moltitudine di schiavi di questa categoria; ed è certo per esserne a conoscenza, che un grande statista del Sud presagì la fine della schiavitù per le ferree leggi demografiche. Si compia o no questo presagio, è certo che nel Sud sta formandosi, ed è tenuto in schiavitù, un popolo di aspetto ben diverso da quello originariamente importato dall'Africa, e il suo incremento avrà, se non altro, il benefico risultato di togliere forza alla tesi, secondo cui Dio ha maledetto Cam e quindi la schiavitù americana è sacrosanta. Se i discendenti diretti di Cam sono gli unici a essere schiavi sull'autorità della Bibbia, è sicuro che la schiavitù negli Stati meridionali diverrà ben presto anti-biblica, perché ogni anno vedono la luce migliaia di schiavi che, come me, devono l'esistenza a padri di pelle bianca, e questi sono, nella grande maggioranza dei casi, i loro padroni. Io, di padroni, ne ho avuti due. Il primo si chiamava Anthony. Come facesse di nome non lo ricordo. In genere lo chiamavamo «Capitan Antonio» — titolo che si era guadagnato, suppongo, guidando una barca a vela nella Chesapeake Bay. Non passava per un proprietario di schiavi ricco. Possedeva due o tre aziende e una trentina di schiavi, gli uni e le altre affidati alle cure di un assistente di nome Plummer. Il signor Plummer era un miserabile ubriacone, uno spergiuro, e un mostro fatto e finito. Circolava sempre armato di uno scudiscio di pelle di bue e di un pesante bastone. So per esperienza diretta che, a vederlo frustare selvaggiamente le donne, anche il mio padrone si inquietava, e soleva minacciarlo dello stesso trattamento se non badava a quel che faceva. Non che il mio padrone fosse un proprietario di schiavi umano. Ci voleva l'eccezionale barbarie di un assistente, per commuoverlo. Era un uomo crudele, inasprito da una lunga esistenza di schiavista: a volte, fustigare uno schiavo sembrava dargli un piacere raffinato. Mi è spesso accaduto d'essere svegliato, all'alba, dalle urla strazianti di una mia zia ch'egli soleva legare a un palo e menarle lo staffile sulla schiena nuda finché non era letteralmente coperta di sangue. Nessuna parola, nessuna lacrima, nessuna preghiera della vittima insanguinata, sembrava distrarre dalla turpe bisogna il suo cuore di ferro. Più lei gridava, più lui menava la frusta; e là dove il sangue colava più veloce, ivi egli batteva più a lungo. La frustava per farla gridare, la frustava per farla zittire; e non cessava di mulinare la frusta intrisa di sangue prima che la fatica lo vincesse. Ricordo la prima volta che assistei a questo spettacolo orribile. Ero appena un bimbo, ma me lo ricordo bene: e non lo dimenticherò finché avrò memoria. Fu la prima di una lunga serie di infamie alle quali volle il destino che assistessi, anzi partecipassi, e mi colpì con una forza tremenda. Era la porta insanguinata, l'entrata all'inferno della schiavitù, attraverso la quale stavo per passare. Fu uno spettacolo spaventoso. Vorrei poter affidare alla carta i sentimenti coi quali lo osservai. Il fatto avvenne quasi subito dopo il mio passaggio in casa del mio padrone, e nelle circostanze seguenti. Una notte, Zia Hester uscì – diretta dove, o per che scopo, lo ignoro – e accadde che fosse assente proprio quando il mio padrone ne desiderava la presenza. Egli le aveva ordinato di non uscire di sera, ammonendola di non farsi mai trovare in compagnia di un giovane, che le faceva la corte, e che apparteneva al colonnello Lloyd. Il giovane si chiamava Ned Roberts ed era comunemente detto il «Ned di Lloyd». Perché il mio padrone avesse tanta cura di lei, lo lascio tranquillamente immaginare. Era una donna dalle nobili forme e di proporzioni gentili, che poche eguagliavano, e ancor meno superavano, in aspetto fisico, sia fra le donne di colore, che fra le bianche dei nostri paraggi. Zia Hester non aveva soltanto disubbidito ai suoi ordini uscendo, ma era stata trovata in compagnia del Ned di Lloyd; circostanza che – capii da ciò che le diceva nel frustarla – era il capo d'accusa principale. Ora, se il mio padrone fosse stato uno stinco di santo, lo si sarebbe potuto credere interessato alla protezione dell'innocenza di mia zia, ma chi l'ha conosciuto non lo sospetterà mai di simili virtù. Prima di cominciare a frustare Zia Hester, la portò in cucina e la spogliò dal collo alla vita, lasciandole completamente nudi il petto, le spalle e la schiena. Poi le disse di giungere le mani, chiamandola nello stesso tempo maledetta sgualdrina; e appena lei le ebbe unite gliele legò con una robusta corda, e la condusse a uno sgabello sotto un grosso uncino, appeso a un trave proprio a quello scopo. La fece salire sullo sgabello e le legò le mani all'uncino in modo che si offrisse inerme al suo disegno infernale. Con le braccia lunghe distese, Zia Hester si reggeva sulle punte dei piedi. Allora egli le disse: «Be', maledetta sgualdrina, ora t'insegnerò a disubbidire ai miei ordini!» e, rimboccatesi le maniche, cominciò a levare il pesante scudiscio, e presto il rosso e caldo sangue (fra urla strazianti di lei e orribili bestemmie di lui) gocciolò al suolo. A quella vista io fui talmente spaventato e inorridito, che mi nascosi in uno stanzino e non mi avventurai a uscirne se non molto tempo dopo che la sanguinosa operazione era finita. Mi aspettavo che subito dopo venisse il mio turno. Era tutto così nuovo, per me! Non avevo mai visto una cosa simile, prima di allora. Ero vissuto con la mia nonna ai margini della piantagione, dove l'avevano messa a allevare i figli delle donne più giovani: ero quindi sempre rimasto all'oscuro delle scene di sangue che spesso si verificavano nella fattoria. | << | < | > | >> |Pagina 121Vengo ora alla parte della mia vita, durante la quale meditai e riuscii finalmente ad attuare la fuga dalla schiavitù. Ma, prima di narrarne le peculiari circostanze, ritengo opportuno notificare l'intenzione di non esporre tutti i fatti connessi a quest'avvenimento. [...] Nella prima parte del 1838, divenni terribilmente irrequieto. Non riuscivo a capire perché mai, alla fine di ogni settimana, dovessi versare il premio delle mie fatiche nella borsa del padrone. Quando gli portavo la mia settimana, dopo aver contato il danaro egli soleva guardarmi in faccia con l'ingordigia di un bandito, e chiedermi: «È tutto?» | << | < | > | >> |Pagina 126Non occorreva una fantasia alata, per immaginare le scene terribili attraverso le quali, se avessi fallito, sarei dovuto passare. L'infamia della schiavitù, e la dolcezza della libertà, mi erano sempre davanti agli occhi. Per me era una questione di vita o di morte. Ma non mi persi d'animo, e, come avevo deciso, il terzo giorno di settembre del 1838 mi liberai dalle catene, e riuscii a raggiungere New York senza il più piccolo ostacolo. Come ce l'abbia fatta, che sistema abbia adottato, che direzione abbia preso, di quale mezzo di trasporto mi sia servito — tutto questo, per le ragioni già dette, non sarà spiegato.Spesso mi sono sentito chiedere quali sensazioni provai nel trovarmi in uno Stato libero. È una domanda alla quale non sono mai riuscito a rispondere in modo per me soddisfacente. Fu un attimo di eccitazione incredibile. Il mio stato d'animo era, suppongo, un po' quello in cui possiamo immaginare si trovi un marinaio quando una nave da guerra amica lo salva dall'inseguimento di un pirata. In una lettera scritta a un amico subito dopo il mio arrivo a New York, dicevo di sentirmi come chi sia sfuggito a un covo di leoni famelici. Tuttavia, fu uno stato d'animo passeggero; ben presto m'invase un senso d'insicurezza e solitudine. Potevo sempre essere riportato indietro e sottoposto alle note torture della schiavitù. Tanto bastava, di per sé, a smorzare gli ardori dell'entusiasmo. Ma vi si aggiungeva l'isolamento. Eccomi fra migliaia di persone, ma totalmente estraneo; senza casa e senza amici fra una moltitudine di fratelli, figli di un Padre comune, ai quali tuttavia non osavo aprire il cuore sulla mia triste condizione. Temevo di rivolgermi ad altri per paura di trovare la persona sbagliata, e quindi cadere nelle mani di cacciatori di schiavi avidi di danaro il cui mestiere consiste appunto nel tendere agguati a fuggiaschi ansimanti, come le bestie feroci tendono agguati nelle foreste alle loro prede. Il motto che avevo adottato nell'infrangere le mie catene era: «Non fidarti di nessuno!» In ogni bianco vedevo un nemico, in quasi ogni nero un motivo di diffidenza. Era una situazione quanto mai penosa; e per capirla bisogna averla vissuta, o immaginarsi in circostanze simili. Mettete uno schiavo fuggiasco in un paese a lui ignoto — un paese dato in riserva di caccia a proprietari di schiavi, ai cui abitanti la legge permetta di fare i cacciatori di schiavi — dove egli sia continuamente esposto alla terribile eventualità d'essere acciuffato come la preda è acciuffata dal feroce coccodrillo. Mettetelo, dico, nei panni miei: senza casa, senza amici, privo di danaro e privo di credito, bisognoso di un tetto e con nessuno a offrirglielo, bisognoso di pane, senza denaro per comprarne; mettetelo, nello stesso tempo, nello stato d'animo di chi si senta braccato da persecutori inflessibili, e nel buio completo su che fare, dove andare, dove restare, assolutamente inerme sia quanto a mezzi di difesa, sia quanto a mezzi di fuga, in piena abbondanza, ma tormentato dal morso della fame, in mezzo a case e tuttavia senza casa, in mezzo a fratelli, ma come se si trovasse in mezzo a un branco di bestie feroci, avide di sbranare il fuggiasco tremante e affamato, come i mostri degli abissi sono avidi di divorare i pesciolini inermi dei quali si nutrono, mettetelo in questa situazione incresciosa — la situazione in cui mi trovavo io — e allora, ma non prima di allora, comprenderete le tribolazioni di uno schiavo fuggiasco consunto dalla fatica e terrorizzato dalla frusta, e sentirete simpatia per lui. | << | < | > | >> |Pagina 133POSCRITTORivedendo il racconto che precede, mi accorgo di aver usato in molti casi, parlando di religione, un tono e un modo suscettibili di indurre chi non conoscesse le mie idee a supporre ch'io avversi ogni religione. Per rimuovere anche l'ombra di un tale malinteso, credo opportuno far seguire questo breve chiarimento. In quanto ho detto su e contro la religione, mi riferisco unicamente alla schiavizzatrice religione di questo Paese, senza alcuna possibile allusione al cristianesimo in senso proprio; perché, fra il cristianesimo di questo Paese e il cristianesimo di Cristo, io riconosco la più grande differenza immaginabile – così grande, che accettare l'uno come buono, puro e santo, significa, necessariamente respingere l'altro come cattivo, corrotto e malvagio: ed essere amico dell'uno è, di necessità, essere nemico dell'altro. Io amo il puro, pacifico, imparziale cristianesimo di Cristo: quindi odio il corrotto, schiavizzatore, fustigatore di donne, devastatore di culle, parziale e ipocrita, cristianesimo di questo Paese. Non vedo anzi il motivo, se non il più artificioso, di identificare la religione di questo Paese col cristianesimo. Vedo in esso il colmo degli equivoci, la frode più audace, la diffamazione più sconcia. Di nulla si può dire con maggior diritto, che «ruba la livrea della Corte celeste, per farvi entrare il demonio». Uno sdegno inesprimibile s'impadronisce di me, quando contemplo la pompa e la solennità dei riti e, insieme, le orribili incoerenze che da ogni parte mi circondano. Abbiamo dei ladri d'uomini per ministri della fede, dei fustigatori di donne per missionari, dei saccheggiatori di culle per fedeli. L'uomo che, durante la settimana, alza la frusta macchiata di sangue, occupa il pulpito la domenica e pretende d'essere ministro del mite e umile Gesù. L'uomo che, alla fine della settimana, ruba i miei guadagni, la domenica mattina vorrebbe, come capoclasse, indicarmi la strada della vita e il cammino della salvezza. Colui che vende mia sorella a scopo di prostituzione, passa per devoto maestro di purezza. Colui che proclama dovere religioso la lettura della Bibbia, mi nega il diritto d'imparare a leggere il nome del Dio che mi ha creato. Il pio avvocato del matrimonio deruba della sua santa influenza milioni d'uomini, e li abbandona al flagello di una profanazione generale. L'appassionato difensore della santità dei rapporti familiari è lo stesso che distrugge intere famiglie, separando mogli e mariti, genitori e figli, sorelle e fratelli, e lasciando vuota la capanna, deserto il focolare.
Vediamo il ladro predicare contro il furto, l'adultero tuonare contro
l'adulterio; uomini sono venduti per costruire chiese, donne per
sostenere il Vangelo, fanciulli per acquistare Bibbie
ai poveri pagani, tutto per la gloria di Dio e la salvezza dell'anima!
Il colpo di mazza del
banditore all'asta degli schiavi e lo squillo di campana che annunzia il
servizio religioso si fondono l'uno nell'altro; il pianto amaro dello
schiavo straziato è sommerso dall'urlo devoto del suo pio padrone.
Rinascite della religione e rinascite della tratta degli schiavi si danno la
mano. Galera e chiesa stanno fianco a fianco: il tintinnio dei ceppi e il
clangore delle catene nella prima, si levano insieme al pio Salmo e alla
grave preghiera nella seconda. I mercanti di corpi e anime umane tengono banco
sotto il pulpito, e si sostengono a vicenda. Il mercante dà il
suo oro grondante lacrime e sangue per sostenere il pulpito; in cambio,
il pulpito avvolge il suo traffico infernale nel manto del cristianesimo.
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