Autore Roddy Doyle
Titolo Un anno alla grande
EdizioneGuanda, Milano, 2019, Narratori della fenice , pag. 220, cop.fle., dim. 14,2x21,7x1,8 cm , Isbn 978-88-235-2501-6
OriginaleCharlie Savage
TraduttoreStefania De Franco
LettoreRiccardo Terzi, 2020
Classe narrativa irlandese , umorismo












 

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Uno dei nipoti vuole un tatuaggio.

«Ha solo tre anni» dico a mia moglie.

«Lo so bene» fa lei. «Però lo vuole lo stesso.»

«Non sa nemmeno dire 'tatuaggio'» dico.

«Lo so.»

«Dice 'tatutato'.»

«Lo so» ripete. «È tenero.»

E ha ragione. Di norma non sopporto la parola «tenero». Se sento definire così un adulto me la do a gambe e resto alla larga finché non sparisce. «Tenero» è solo un altro modo per dire «svitato», «palloso» o «quasi morto», spesso tutte e tre le cose insieme. Però con i bambini - quelli piccoli - è diverso. Soprattutto se sono i tuoi. Solo se sono i tuoi. A nessun uomo interessano davvero i figli e i nipoti degli altri.

Comunque.

«Che razza di regalo è un tatuaggio?» chiedo a mia moglie.

«Lo vuole a tutti i costi» risponde.

Quelle parole mi terrorizzano. Una vigilia di Natale sono finito in Galles in cerca di un Tamagotchi. Dublino ne era piena, ma mia figlia ne voleva a tutti i costi uno rosa. E il Galles, si sa, è la patria dei Tamagotchi rosa. Si riproducono lì, o qualcosa del genere.

E poi c'è stato il marito della sorella di mia moglie. Per i suoi cinquant'anni voleva attraversare il Sahara con noi.

«Dollymount non gli va bene?» ho chiesto a mia moglie. «C'è un sacco di sabbia e la birra è migliore.»

«Vuole andarci a tutti i costi» ha risposto. «E poi non beve.»

«In mezzo a quel cazzo di Sahara se ne pentirà» ho detto.

«Sei forte» ha detto lei.

E ha comprato i biglietti easyJet per Casablanca. Poi, grazie a Dio, si sono separati, lui e la sorella di mia moglie, poco prima del compleanno, così è dovuto andarci da solo. Stando alle ultime notizie - un messaggio su Instagram a uno dei suoi figli - si era arruolato nell'Isis. Ma scommetto che l'hanno sbattuto fuori, da quant'è rompipalle.

Comunque stavolta è diverso. Molto più complicato del traghetto per Holyhead o dell'aereo per il Marocco.

«Un tatuaggio» dico. «Babbo Natale non li fa, o sbaglio?»

Non esiste che gli permetta di scendere dal camino armato di aghi e inchiostro, nemmeno se si porta dietro gli arnesi per la sterilizzazione e una squadra di elfi con l'abilitazione al primo soccorso.

«Be'» dice mia moglie. «Ormai ha scritto la lettera.»

«Ma se non sa scrivere» faccio io. «Ha solo tre anni.»

«L'ha dettata» replica lei.

«Ed è stata imbucata?»

«Già.»

«Non potremmo convincerlo a cambiare idea?» le chiedo. «Può sempre dettarne un'altra: 'Caro Babbo Natale, ripensandoci, preferisco uno scooter'. E chi è stato l'idiota che l'ha accompagnato a imbucarla?»

Non mi guarda nemmeno. Se ne va dalla cucina.

«Be', grazie tante» le grido dietro.

È raro che io abbia buone idee, la classica lampadina che ti si accende in testa. Però adesso ne ho ben due di fila. E rincorro mia moglie con la prima. Sono passati due giorni da quando è uscita dalla cucina, ma questa è un'altra storia.

«Mary Tifoide» dico.

«E lei che c'entra?»

Mary è la vicina. Quando ci siamo trasferiti viveva già qui. Forse anche prima che costruissero le case.

Vabbe'.

«Hai presente il tatuaggio che ha fra le scapole? Il gabbiano.»

«È sopra il sedere» mi corregge lei.

«Esatto, ma trent'anni fa, quando se l'è fatto, era fra le scapole.»

«Quindi» dice mia moglie.

E si vede che si sta divertendo.

«Vuoi traumatizzare il bambino facendogli vedere il tatuaggio migrante di Mary, che fra l'altro non è un gabbiano ma una farfalla. Vuoi che Mary si alzi dalla sedia a rotelle, si giri e...»

«Okay. Lascia perdere.»

Sto per voltarmi, pronto a emigrare, quando mi viene la seconda idea.

«Me lo faccio io.»

«Cosa?» chiede.

«Il tatuaggio.»

«Sentiamo» dice.

«Dunque» spiego. «Babbo Natale risponde: nessun problema per il tatuaggio, però sei troppo piccolo. Quindi lo facciamo a tuo nonno, che se ne prenderà cura al posto tuo, e potrai vederlo ogni volta che vorrai finché non sarai abbastanza grande da fartene uno tutto tuo, sul braccio o dove ti pare.»

«Sul petto» dice lei.

E mi guarda con... be', non proprio ammirazione, però è come se avesse trovato un biscotto dentro una scatola che pensava fosse vuota.

Vigilia di Natale risolta. Sto andando da un tatuatore in centro - mia figlia dice che ne conosce uno bravo per i vecchi, lo studio si chiama Pelle vagante, ma secondo me mi ha preso in giro - e tornerò a casa con SpongeBob nascosto sotto la camicia.

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Mi sto godendo una birra con il mio amico.

Il nipotino mi ha tormentato tutto il giorno: voleva vedere il suo tatuaggio di SpongeBob. Mi bruciano i polpastrelli a furia di sbottonare e abbottonare la camicia. La vigilia di Natale, prima del tatuaggio, ho dovuto farmi rasare il petto e i peli hanno ricominciato a crescere. Sono grigi, per cui sembrava che SpongeBob fosse morto durante la notte. Quando l'ha visto, il piccolino è scoppiato a piangere e ha detto a sua madre - mia figlia - che avevo ucciso SpongeBob.

«Nonno motto 'PungeBob!»

«Non l'ho nemmeno sfiorato.»

Le donne mi hanno guardato manco fossi Jimmy Savile, così ora mi tocca radermi il petto due volte al giorno. Sono davanti allo specchio e mi sono già tagliato due volte, il povero SpongeBob sta morendo dissanguato. Quasi quasi me lo strappo e lo regalo a mio nipote in una busta di plastica, sto pensando, quando arriva l'sms.

Birra?

Ed eccoci qui.

«Ho un proposito per l'anno nuovo» fa il mio amico.

Strano. Queste stronzate, propositi, compleanni eccetera, non ci interessano. Quindi c'è sotto qualcosa. Rimpiango di non essere in bagno a scuoiare SpongeBob.

«Un proposito?» chiedo.

«Sì. Ho deciso. D'ora in avanti sarò sincero.»

So che mi sta guardando, ma io fisso la pinta. Sento che sta per dire qualcosa d'imbarazzante o triste. È mio amico e tutto il resto, ma spero tanto che si limiti al calcio.

E invece no.

«Ho un'identità femminile» annuncia.

Adesso lo guardo. Ha superato i sessanta, proprio come me.

«Ma sei un uomo.»

«Lo so» conferma.

«Sei vestito come al solito.»

«Lo so.»

«Stai bevendo una birra.»

«Lo so.»

«E vieni a dirmi che sei una donna?»

«Non ho detto questo. Ho detto che ho un'identità femminile.»

Forse non sono scioccato quanto dovrei, e la cosa è già di per sé uno shock. Penso che il mio amico mi ha appena detto di voler essere una donna. Però non m'importa granché. Sono tentato di dargli una pacca sulla schiena, ma temo di sentire la spallina del reggiseno sotto la felpa.

Comunque.

«Che significa, esattamente, che hai un'identità femminile?»

A proposito, non stiamo gridando. È una conversazione molto tranquilla.

«Non lo so, ma l'ho sentito alla radio e ho pensato: 'Anch'io'. Mi tornava.»

«E dimmi» replico. «Sei lesbica?»

«Cosa?»

«Se lo fossi, forse sarebbe più comodo.»

«In che senso?»

«Quando parliamo di donne.»

«Non parliamo mai di donne.»

«Se lo facessimo» spiego. «Se ora entrasse una sventola, per esempio. Potremmo essere d'accordo. Sarebbe bello.»

Lui si stringe nelle spalle proprio come fa da venticinque anni, da quando lo conosco. Mi chiede di non rivelarlo a nessuno, e io prometto che non lo farò. Però lo dico a mia moglie. Mi sento un po' smarrito e ho bisogno di consigli.

«Un mio caro amico dice che ha un'identità femminile» le confido.

«Chi?»

«Preferisce restare anonimo.»

«Non è mica...?»

E fa il suo nome.

«Cristo santo. Come hai fatto a indovinare?»

«Così» fa lei, e poi arriva il nipote per controllare SpongeBob. Perciò riprendiamo più tardi, a letto.

Mia moglie ha una teoria. La moglie - quella del mio amico - è morta più o meno tre anni fa. Forse da un po' di più, ormai non mi fido più di me stesso quando si tratta del tempo. Comunque, secondo lei - secondo mia moglie -, gli manca.

«Sì» concordo. «È vero.»

«E forse lei gli manca più di quanto lui mancherebbe a se stesso» spiega.

«Credi?»

«È solo una teoria.»

Quando dice così, e lo dice spesso, soprattutto da dopo che ha fatto quella roba alla Open University alcuni anni fa, insomma, quando dice è solo una teoria non è affatto solo. È vangelo.

«D'accordo» commento. «Mi torna, più o meno. Ma perché me l'ha detto?»

«Perché sei suo amico. Dovrebbe farti piacere.»

Ed è così. E anche un po' di tristezza. E - a lei non lo dico - di euforia.

«E tu?» mi chiede.

Si sposta nel letto e so che sta per farmi una domandona.

«Se io morissi prima di te, verrebbe anche a te un'identità femminile?»

Non stacco gli occhi dal libro.

«Preferirei una domanda di sport, se è possibile.»

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Mentre guardo Ballando con le stelle all'improvviso mi torna in mente il cognome di Eileen.

Ci uscivo quando avevo sedici anni, più o meno. In realtà avevo sedici anni, quattro mesi e sette giorni, quando mi permise di poggiarle la mano su uno dei segreti che nascondeva sotto il maglione. Comunque sia l'ho cercata su Facebook senza un motivo preciso, giusto per vedere come funziona. Però non mi ricordavo cosa veniva dopo «Eileen». Mi ricordavo il nome del suo cane e mi ricordavo che adorava Alvin Stardust, ma non mi ricordavo il suo maledetto cognome.

E così, mentre guardiamo il povero Des Cahill, mi si accende una lampadina.

«Pidgeon!»

«Che ti prende?» dice mia moglie.

«Niente.»

Sono uno che urla alla tele. Calcio, politica, reality show, urlo a tutti. E lo sto insegnando ai nipoti. È una dote che voglio tramandare affinché in futuro possano alzare di tanto in tanto lo sguardo dal telefono e prendersela con qualcos'altro.

Il nipotino di tre anni, il figlio di mia figlia, è già un esperto. Urla «idiota!» ogni volta che vede Enda Kenny al telegiornale, solo che non riesce a dirlo bene.

«Itota!» strilla.

L'ho addirittura portato al pub per farlo vedere a tutti. E lui non mi ha deluso.

«Itota!»

I ragazzi l'hanno trovato uno sballo, persino l'imbecille nell'angolo che sostiene il Fine Gael. E poi nello schermo gigante è apparsa la faccia di Trump.

«Itota del tazzo!»

È venuto giù il soffitto.

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E così eccoci insieme, io e mio figlio, nella cucina che divide con altri ragazzi. Vi farei vedere in che condizioni è: ho appena rifiutato un tè perché la tazza sembra trafugata da una tomba. Il bollitore ha una chioma di capelli.

Comunque.

«Avete proprio una casa accogliente» gli faccio.

«Già.»

Si muore di freddo. Ho le dita blu. Mi sento già in alto mare, perciò mi tuffo.

Va così:

«Sei gay, figliolo?»

«No» risponde.

Mi sono preparato. Ho fatto ricerche su Google fino alle due di notte.

«Sei bisessuale?» gli chiedo.

«No. Vuoi un biscotto?»

«Ne hai?»

«Non so, non credo.»

«Sei intersessuale?»

«No.»

«Pansessuale?»

«No.»

«Sai che significa?»

«Credo di sì.»

«Grandioso» dico io. «Forse polisessuale?»

Scuote la testa.

Sto per esaurire i sessuali. Ho una lista nella tasca posteriore, ma non mi va di prenderla, manco fossi al supermercato.

«D'accordo» dico. «Mi arrendo. Cosa sei?»

«L'unico che non hai detto.»

«E cioè?»

«Eterosessuale.»

«Davvero?»

«Sì.»

Ammetto di essere rimasto un po' deluso. Avevo pronto un discorsetto, così lo faccio lo stesso.

«Be', qualunque sia il tuo orientamento, figliolo, ti voglio bene.»

Tremo un pochino.

Lui mi guarda e sorride.

«Sei schizzato, papà» dice. «Ti voglio bene anch'io.»

«Grazie.»

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«Le sardine combattono il cancro, papà» dice mia figlia.

«No, tesoro. Alla sardina media non frega un cacchio del cancro. Né di nient'altro, se è per questo.»

«Sei forte» fa lei, e mi ricorda un sacco sua madre.

Sto fissando la scatoletta di quelle cose - le sardine - sul tavolo della cucina. Mi fanno schifo, persino da chiuse. So che sono lì dentro, una accanto all'altra come un plotone d'esecuzione. Le odio, quelle bastarde crudeli e unte. E so che le mangerò.

Ormai sono giorni che discuto con mia figlia. Ha deciso di farmi cambiare stile di vita, giusto perché ogni tanto mugugno: quando mi alzo, mi siedo, apro il frigo, giro la pagina del giornale, premo un tasto del telecomando, praticamente quando faccio quasi tutto, addirittura quando penso. Ho tentato di spiegarglielo, sto solo invecchiando e i mugugni sono come le rughe, i peli nelle orecchie e la - eh - la smemoratezza. E a essere sincero si è data una calmata sull'attività fisica. Sono riuscito a convincerla che non rappresenterò mai l'Irlanda alle parallele e che una camminata quasi ogni giorno è quanto mi serve per mantenere in forma il cuore.

Però è tornata alla carica con la dieta. Mi fa mangiare cose che nemmeno sapevo esistessero. Mi fa mandare giù roba che forse non è nemmeno commestibile, oppure è marcia. «Fermentata» è la parola che usa, ma potrei benissimo mangiare la poltiglia sul fondo del bidone dell'umido. I crauti faranno anche magie per l'apparato digerente - non ricordo quali - però io mi ritrovo a scorreggiare come l'Orient Express nel lungo tratto fra Bucarest e Costantinopoli. Ieri sera sono dovuto uscire in giardino, e i poveri cani hanno provato a scappare saltando il muro posteriore. I crauti mi stanno isolando. Però continuerò a mangiarli.

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«Hai del formaggio sul mento, Charlie.»

«Fake news.»

«Guarda, Charlie» dice mia moglie. «Hai la patta aperta.»

Tiro su la zip.

«L'informazione è vera» le dico. «La notizia è falsa.»

Adoro Trump. Mi sta facilitando molto la vita. La patta non è aperta: non l'ho ancora chiusa. Il fatto che io stia uscendo di casa per andare a un funerale è irrilevante. La zip sta per essere chiusa: roba da professionisti.

Ho rinunciato ai bottoni una decina di anni fa. Facevo per sbottonarmi i pantaloni e scoprivo che la patta era già aperta, e un lembo della camicia fuoriusciva a sottolineare la cosa, dopo aver raggiunto a fatica il bagno di un pub pieno zeppo di uomini e donne di dieci, venti, trent'anni più giovani di me. La patta era aperta, dalla volta prima che ero andato in bagno. Mi sono arreso quando ho realizzato che avevo fatto la stessa scoperta la volta precedente, l'ultima che ero stato in bagno. La patta era aperta, io avevo fatto le mie cose e dimenticato di chiuderla, di nuovo.

Le camicie non erano un problema: non ho mai dimenticato di abbottonarmi una camicia o un giubbotto. Mi succedeva solo con i pantaloni, cioè i jeans.

Perché?

Perché la vecchiaia discrimina gli uomini che portano, o portavano, i jeans con i bottoni?

Comunque all'epoca, quando finalmente ammisi a me stesso che i bottoni non erano più alla mia portata, feci uscire di casa di nascosto i vecchi 501 - un paio blu e uno nero - mentre portavo i vuoti alla campana del vetro. Lì accanto c'è uno di quei cassonetti rosa per i vestiti usati, e fu lì che finirono. Erano solo due paia di jeans in una busta di plastica, ma a me sembrò di buttare tutta la mia vita in un buco nero.

Quando rientrai in macchina piansi un po'.

Non è vero. Però di tanto in tanto vado a trovare la campana del vetro, giusto per passare qualche attimo di tranquillità con il mio vecchio io.

[...]

Comunque, se rinunciare ai bottoni è stato straziante, dimenticarsi la zip è spaventoso. Qual è il passo successivo? Diventare quello che trascorre il resto dei suoi giorni in tuta e vaga da Woodie's con le mani sul davanti e la bocca spalancata? È come bussare alla porta del paradiso, solo che ho paura di dimenticarmi di bussare. Resterò fuori, con le mani sul davanti dei pantaloni della tuta, a fissare la porta... per l'eternità.

E poi è arrivato Trump, che mi ha insegnato come s'invecchia.

Negando.

«Dove sono le chiavi della macchina, Charlie?»

«Appese al gancio, dove le lascio sempre.»

«Non ci sono.»

«Be', questa è l'informazione che ho ricevuto.»

Negare tutto. Trump la fa sempre franca. Se lo guardi attentamente gli leggi in faccia il panico. Chiunque nell'aprirsi la patta abbia scoperto che era già aperta conosce quell'espressione. Si nota quando cammina davanti a Melania. Non è arroganza né misoginia. È: «Chi è quella? E perché mi segue?» Solo che il poveraccio, poco prima di entrare definitivamente nella sua tuta, è riuscito chissà come a diventare presidente degli Stati Uniti.

Però ha scoperto il modo di cavarsela. Negando. Tutto. Per i prossimi quattro anni.

«Avevi detto che avresti messo fuori l'immondizia, Charlie.»

«Mai detto.»

«L'hai detto.»

«No.»

«Hai un colabrodo al posto della testa.»

«Fake news.»

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Pagina 92

Sto raccontando a Eileen del tatuaggio di SpongeBob, e noto che adora la storia, quando sento di dover andare in bagno.

Per fortuna i protagonisti delle grandi storie sono tutti giovani, con vesciche giovani. V'immaginate il finale di Casablanca se Humphrey Bogart avesse avuto vent'anni di più? «Se quell'aereo decolla e tu non sarai con lui lo rimpiangerai. Magari non oggi, magari non... aspetta, amore, torno subito.» O se Gesù avesse avuto sessantatré anni e non trentatré. Invece di: «Gesù cade per la seconda volta» sarebbe stato: «Gesù deve andare in bagno per la quarta volta». La cristianità non avrebbe mai preso piede.

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Alcune settimane fa guardavo una partita. Avevo il nipotino, il bambino di mia figlia, sulle ginocchia. Avevo mia moglie accanto. I cani erano davanti a noi. In genere per le partite in diretta li faccio entrare perché abbaiano all'arbitro e ci fanno sempre - sempre - morire dal ridere.

Il nipotino ha appena tre anni, ma già adora il calcio. L'ho addestrato bene. Quando la telecamera inquadra un giocatore del Man United lui mi guarda.

«Fotte?» (cioè «forte» per voi e per me).

«Sì, amore» dico.

Un qualunque altro giocatore - chiunque sia vestito di blu, di nero, a strisce o di quello strano rosa del Liverpool - e mi guarda di nuovo.

«Itota?» (cioè «idiota»).

«Sì, amore.»

È stupendo, ha quasi del miracoloso seguire la crescita del bambino, specie il suo talento per la lingua. E c'è un momento che non dimenticherò mai. Un giocatore dello United, Marouane Fellaini, è stato appena espulso per aver dato una testata a un avversario. Un vero shock: persino i cani ammutoliscono. Il viso di Fellaini - chi, io? - riempie lo schermo.

Il piccolo mi tira la gamba dei pantaloni.

«Itota?» chiede.

Resto sbalordito. Ammutolisco come i cani.

Mi ha appena chiesto di confermare che uno della sua squadra è un idiota. È diventato - proprio sul mio ginocchio - un vero tifoso. In compagnia del nonno, della nonna - una vera tifosa - e dei cani.

Questa è felicità domestica. Il motivo per cui vivo.

E questo è ciò che perdo in estate.

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Il mondo versa in condizioni disperate. C'è un pazzo che guida la Corea del Nord e uno ancora peggio che guida gli Stati Uniti. La guerra nucleare sembra inevitabile, o la morte per Brexit. Cristo santo, che monotonia. Fra non molto ci sdraieremo tutti dove ci troviamo e moriremo di noia. Ma le notizie - attentati terroristici, carestie, catastrofi, intolleranza - sono inesorabili e tremende. Persino quelle belle storie di omicidi sono diventate troppo raccapriccianti per me. Se i nostri genitori si sono congedati dal mondo più o meno in forma, ho l'orribile sensazione che noi lo lasceremo male.

E io stesso non mi sento tanto bene. La mattina mi convinco di essere sveglio, e vivo, solo per le scale. Quando sollevo il bollitore sento un dolorino al polso. Fisso il rubinetto prima di ricordarmi perché mi ci trovo davanti con il suddetto bollitore. Allo specchio del bagno ho attaccato un foglietto: «Ti chiami Charlie». Il resto me lo ricordo da solo, ma mi serve quella spintarella - ogni mattina e a volte anche dopo - prima di uscire per una birra. Conoscere il proprio nome non è per forza essenziale quando si va al pub, ma so per esperienza che la serata è molto più rilassante. Delle volte vorrei chiamarmi Guinness. Dovrei ricordarmi solo quell'unico nome fondamentale.

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