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| << | < | > | >> |Pagina 11Mia madre alzò gli occhi a guardare le stelle. Ce n'erano tante lassù. Le tremava leggermente la mano mentre ne sceglieva una. Puntò un dito.«Eccolo là, il mio piccolo Henry. Guarda, è lassù.» Io guardai; ero l'altro suo piccolo Henry, seduto accanto a lei sul gradino. Guardai verso l'alto e lo odiai. Lei mi stringeva a sé, ma guardava il suo bambino che scintillava lassù. Povero me, là accanto a lei, pallido e con gli occhi arrossati, un ammasso di croste e pustole. Con lo stomaco che urlava perché voleva essere riempito e i piedi nudi che mi facevano male come quelli di un vecchio. Io, l'improbabile sostituto del piccolo Henry, troppo buono per questo mondo, l'Henry che Dio aveva voluto per sé. Povero me. E povera mamma. Seduta su quello scalino, e su tanti altri scahní sgretolati, aveva visto tutti i suoi bambini andare a raggiungere Henry. La piccola Gracie, Lil, Victor, un altro piccolo Victor. Sono quelli che mi ricordo. Ce n'erano stati degli altri, e poi quelli morti prematuri, che erano andati al Limbo; arrivavano e se ne andavano prima ancora che gli venisse dato un nome. Dio se li era presi tutti. Gli servivano tutti lassù, per illuminare la notte. Gliene aveva lasciati tanti però. Quelli brutti, chiassosi, quelli che Lui non voleva per sé: quelli che non avevano mai abbastanza da mangiare. Povera mamma. Là seduta a guardare il piccolo Henry che luccicava, non poteva avere molto più di vent'anni ma era già vecchia, già in decomposizione, completamente distrutta, buona ancora per qualche altro figlio e basta. Povera mamma. | << | < | > | >> |Pagina 91Riuscivamo a cavarcela io e Victor, ci arrangiavamo e crescevamo insieme, uno di fianco all'altro oppure con Victor a cavalluccio sulle mie spalle. Riuscivamo a sopravvivere, ma mai a prosperare. Non faceva per noi la prospertità. Eravamo liberi di andare e venire come e quando volevamo, non gliene fregava niente a nessuno, ma non ci sarebbe mai stato permesso di salire scalini tirati a lucido e metterci comodi, al calduccio, protetti da porte e finestre. Lo sapevo. Ne ero consapevole ogni volta che mi facevo da parte con un salto quando passava una carrozza o una vettura, ogni volta che mi riempivo la bocca ululante con del cibo schifoso, ogni volta che vedevo un bambino della mia età con le scarpe. Me ne rendevo conto ogni volta che un estraneo ci offriva dei soldi o qualcosa da mangiare se andavamo con lui. Lo sapevo, ed era una cosa che mi faceva molto pensare. Ero il più intelligente, il raggio più luminoso in una città piena di cervelli brillanti e disperati.Rivoluzionai la caccia ai topi. Invece di essere noi a cercare loro erano loro che venivano da noi. Andavamo a cercarne le tane e portavamo via i piccoli appena nati, li facevamo bollire e ci spalmavamo quella brodaglia sulle braccia e sulle mani... ma non la mangiammo mai. Potete ridere se volete, o farvi venire da vomitare, ma vuol dire che non avete mai sofferto veramente la fame. E l'odore - Cristo, quell'odore - li faceva impazzire, i genitori. Ci bastava avvicinare le mani ai buchi delle tane e i topi ci saltavano addosso, come se avessero appena visto in sogno i cani che stavano per dilaniarli. Urlavano a sentire l'odore delle nostre mani e chiamavano i figli mentre li gettavamo nel sacco. Tenendo stretto il sacco che squittiva e pulsava, li portavamo agli allibratori ai bordi dello spiazzo dove si teneva il combattimento. Adoravano i nostri topi. Mi pagavano di più se infilavo le mani nel sacco. Io accettavo sempre, ma non lasciavo che Victor rischiasse di perderci un dito. Adoravo guardare le facce degli uomini ai bordi dello spiazzo; ci leggevo disprezzo, pietà e ammirazione. Tenevo gli occhi fissi sui ricchi, quelli che, come sapevo benissimo, si sentivano già in colpa per il solo fatto di essere là, insieme alla peggior feccia dei bassifondi; li guardavo fissi mentre affondavo la mano nel sacco e sentivo la furia che vibrava nel dorso dei topi, mentre quelli distoglievano lo sguardo. Ma io volevo che lo vedessero tutti il ragazzino cui chiedevano di mutilarsi perché loro potessero divertirsi. Lasciavo la mano nel sacco fino al punto di svenire, fino a sentirmi la morte nel cuore; sentivo i topi impazziti che mi annusavano i polsi e le dita in cerca dei loro piccoli, e resistevo ancora per qualche secondo, prima che i topi si rendessero conto che stavano leccando la mano dell'assassino. Tutti gli occhi degli uomini e dei ragazzi attorno allo spiazzo erano fissi su di me; in quel momento ero più importante dei cani che ululavano e scavavano per terra. Adoravo il silenzio che riuscivo a creare con lo sguardo. Un segno del mio potere. Perfino i cani lo avvertivano e restavano fermi, immobili. Poi chiudevo la mano attorno a uno di quei corpi caldi e tiravo fuori un topo urlante stretto in pugno, incoraggiato dalle grida entusiastiche del pubblico, mentre lui cercava con tutte le sue forze di affondarmi i denti nelle vene, a costo di spezzarsi la schiena. Lo trattenevo ancora un po', guardandomi intorno per far sapere a tutti che se erano lì a divertirsi, quella sera, lo dovevano a me. Poi lo lasciavo andare. Non me ne importava niente di quello che succedeva dopo. Non mi interessavano i cani, le scommesse o l'uccisione della preda. Non guardavo mai. Mi pagavano i padroni dei cani, mi pagavano gli allibratori e mi pagavano i vincitori. I ricchi mi allungavano una mano chiusa a pugno da cui io tiravo fuori i soldi. Tornavamo in centro a piedi io e Victor, a notte fonda. Non dimenticavamo mai di lavarci le mani e le braccia, per liberarci dell'odore dei topi prima di andare in cerca di un posto per dormire. Ci mettevamo stesi uno accanto all'altro e per scaldarci io gli raccontavo una delle mie storie. Aspettavo sempre che Victor dormisse. Poi prendevo sonno anch'io. Ognuno dei due faceva parte dei sogni dell'altro. | << | < | > | >> |Pagina 96[...] Vennero degli uomini da noi mentre mangiavamo un vitello attorno al fuoco. Erano in due, con la barba, e avevano lo sguardo duro: due uomini grossi resi ancora più grossi dai cappotti che indossavano. Eravamo pronti a scappare o a difenderci, e io afferrai subito Victor; ma ci parlarono con voce suadente e uno di loro ci fece vedere i soldi che aveva in mano. Eravamo abituati agli estranei che venivano a offrirci soldi: erano spesso a disagio, preoccupati e non ci voleva niente a imbrogliarli e a derubarli. Ma quei due erano diversi. Erano uomini dall'aria seria. Ci guardavano dritti in faccia e non dovevano pensare a coprirsi le spalle. Decisi di restare dov'ero e gli altri rimasero con me.«Amate l'Irlanda, ragazzi?» ci chiese uno di loro. Nessuno gli rispose. Non capivamo la domanda. Per noi l'Irlanda era una cosa di cui si parlava nelle canzoni che facevano piangere i vecchi ubriaconi, quelli cui ci accostavamo per derubarli quando si aggrappavano alle ringhiere alle tre del mattino; niente di più. Io amavo Victor e i ricordi che avevo di alcune altre persone. Era tutto quello che sapevo dell'amore. Aspettai di sentire che altro avevano da dire. Fu l'altro uomo a parlare. «Vi piacerebbe guadagnarvi qualche scellino?» Non era di Dublino, né veniva dalla campagna. Aveva un accento inglese, ma la testa che aveva sulle spalle era decisamente irlandese. Gli rispose uno dei ragazzi più grandi. «Può darsi.» Mi aveva tolto le parole di bocca. E allora rimasi zitto. «Soldi facili» disse il secondo. «E nobili» aggiunse il primo. «Che cosa dobbiamo fare?» «Colpire nel nome dei piccoli proprietari.» «Cosa?» Volevano che aiutassimo i piccoli proprietari a riconquistare la terra che ci era stata sottratta, prendendo parte alla lotta contro i latifondisti, gli assenteisti bastardi che li costringevano ad abbandonare la terra. Volevano che c'infilassimo nelle stalle a mutilare il bestiame, usando piume e catrame; ci pagavano un tanto a coda. Entravamo con il loro aiuto, scavalcando i recinti, e c'intrufolavamo tra il bestiame. Con l'orecchio teso ad ascoltare il borbottio dei guardiani, ci arrampicavamo sui cancelli e rovesciavamo secchi di roba nera sulle teste e le schiene di quelle vacche idiote (ho sempre adorato l'odore del catrame: è l'odore della vita). Reagivano con molta lentezza ma, quando attaccavano a ululare, non c'era più verso di fermarle. Era la disfatta di Cowtown, il caos. Iniziavano a scalciare e a sbattere l'una addosso all'altra. Non era un posto adatto ai bambini. Mettevo Victor a sedere sul muro e mi legavo le code in vita. Sgattaiolavo tra gli zoccoli e la merda, e tagliavo altre code che poi mi stendevo sulla spalla. Per i piccoli proprietari. Per l'Irlanda. Per me e per Victor. Osservavo e ascoltavo, mi guardavo intorno e diventavo grande. Stavano succedendo tante cose. Mi fabbricai la mia licenza di venditore ambulante, con un martello e un pezzo di metallo ricavato da una scatola di latta che mi ero fatto dare da uno dei carrettieri, e mi misi a vendere giornali vecchi, con notizie vecchie di una settimana. Ascoltavo gli uomini e le donne che si allontanavano leggendo i titoli, prima di rendersi conto che li avevano già letti. Si parlava di una cosa che si chiamava Sinn Féin. Il nome Carson era seguito da imprecazioni e sputi. E si parlava anche di governo autonomo. Non voleva dire niente per noi, senza tetto ma con tutta l'autonomia che volevamo, eppure io ascoltavo e cercavo di capire. Il re Edoardo morì ma non vidi nessuno che piangeva quando la notizia si diffuse per Dublino. Volevano uccidermi quando avevo insultato il re ma, adesso che era morto, si limitavano a stringersi nelle spalle e tiravano avanti. Avevo otto anni e riuscivo a cavarmela. Era da tre anni che vivevo per le strade, sotto gli scatoloni, negli androni o tra le erbacce. Avevo dormito nei campi incolti e sotto la neve. Avevo Victor, la gamba di mio padre e nient'altro. Ero sveglio ma analfabeta, robusto ma sempre ammalato. Ero bello e lurido e scoppiavo negli stracci che avevo addosso. E riuscivo a cavarmela. Ma non era abbastanza. Volevo di più. | << | < | > | >> |Pagina 117Proteggendomi gli occhi col braccio sinistro, sfondai la finestra. Sentii il vetro fracassarsi in tanti pezzi ancora più piccoli fuori sul marciapiedi. C'era vetro che si rompeva da tutte le parti, ne ero circondato, e altro vetro che veniva giù dai due piani superiori, passava davanti alla finestra e andava a schiantarsi di sotto: vetro contro vetro. Con il calcio del fucile tolsi i pochi frammenti rimasti nell'intelaiatura. Là fuori non c'era niente; a parte i vetri rotti c'era solo la strada, con i soliti rumori di sottofondo: il ronzio dei tram, le urla dei bambini, i chiodi delle scarpe sui ciottoli e sui marciapiedi e le donne della bancarella sotto la colonna di Nelson, che urlavano i prezzi dei fiori in vendita. L'unica cosa che distingueva quella mattina da tante altre erano le esclamazioni e le bestemmie della gente che cercava di scansare i vetri che cadevano.Dentro però, alle nostre spalle, le cose stavano andando diversamente. La voce del comandante Connolly penetrava attraverso ogni altro rumore: «Barricate le fìnestre coi sacchi della posta, le macchine da scrivere, tutto quello che vi capita sottomano». La sala principale si stava trasformando. Gli uomini, alcuni con la divisa dei Volontari o dell'Esercito dei Cittadini, ma per la maggior parte solo con dei pezzi spaiati o del tutto senza divisa, si erano caricati sulle spalle sacchetti di sabbia, ma anche tavoli, sedie, registri contabili, sacchi della posta e sacchi di carbone, e li ammucchiavano per creare delle barriere di protezione davanti alla porta principale, alle uscite laterali e a tutte le finestre. Le donne dell'organizzazione militare femminile di Cumann na mban salivano e scendevano per le scale portando giù nel seminterrato pentoloni e bollitori, tavolini pieghevoli e cestini. Alcuni uomini trasportavano dentro dal cortile provviste e fucili, martelli e ceste per il bucato. Altri erano stati mandati all'Hotel Metropole, lì accanto, oppure all'Imperial, in cerca di materassi, rifornimenti e qualsiasi altra cosa potesse servire. Gli ordini venivano urlati, ripetuti ed eseguiti. I ragazzi più giovani correvano avanti e indietro da un ufficiale all'altro, con messaggi e risposte. Si muovevano a una velocità frenetica, in preda all'eccitazione, a differenza dei più anziani, uomini adulti o quasi, resi più calmi dalla consapevolezza che stavano vivendo i momenti più importanti della loro vita. Uno sparo ci fece stendere tutti per terra. Alcune decorazioni di stucco si staccarono dal soffitto e ci caddero addosso; me ne sentii rimbalzare un pezzo sulla schiena. «Chi ha sparato?» «Io» disse uno dall'altro capo della sala. «Mi è sfuggito di mano il fucile e mi è partito un colpo.» «State attenti, per favore. Non vogliamo che ci scappi il morto.» Un uomo gigantesco, ascia alla mano, stava demolendo uno dei banconi; tagliava il legno di teak rosso come se fosse una torta. Ne aveva bisogno per il grosso bollitore che era appoggiato per terra ai suoi piedi; il comandante Clarke aveva ordinato il tè. Un altro, senza divisa, stava - avvolgendo un filo di rame attorno alle gambe delle sedie e dei tavoli e a un mucchio di macchine da scrivere, per rafforzare una barricata. Gli impiegati delle poste si affrettavano a raggiungere la porta principale; sentii rimbombare per le scale i passi degli ultimi rimasti, che correvano giù di corsa dal piano di sopra e scappavano prima che la porta venisse chiusa e barricata. «Se volete restare siete i benvenuti, compagni» dichiarò Paddy Swanzy, che si stava pulendo la divisa dell'Esercito dei Cittadini, tutta imbiancata dalla polvere. «Ma guarda, Cristo. Non abbiamo nemmeno cominciato e sono già concíato così. Se mi vedesse mia madre...» «Ma se non la conosci nemmeno tua madre» gli fece Scan Knowles. «Be', almeno» gli urlò dietro Paddy, «se dovessi morire qui, in questo momento, se non altro potrei dire di aver conosciuto benissimo la tua.» «Abbassate la voce, ragazzi» disse un ufficiale che non conoscevo, uno dei Volontari. «E lasciamo stare le mamme, per amor di Dio. Se vi sente il comandante Pearse vi sbatte fuori subito, ancora prima di cominciare. E siamo già in pochi anche così.» Eravamo in pochi. Lunedi di Pasqua, 1916. | << | < | > | >> |Pagina 206La retina metallica dello scomparto della carne, le frange di un tappeto persiano: tutto quello che riuscivo a infilarmi sotto la giacca del marito morto di Annie lo portavo a casa da lei, a rate o tutto in una volta. Scassinavamo una cassa ogni cento con gli uncini e ce ne dividevamo il contenuto. Ci riempivamo le tasche di tè e nei giorni di pioggia, tra l'acqua e il sudore delle nostre fatiche, ci venivano fuori certe chiazze sulle giacche, di un colore vagamente violaceo, e dovevamo tenerci i sacchi molto bassi sulla schiena ogni volta che passavamo davanti allo stivatore e ai suoi lecccapiedi. Poi a casa, da Annie e dal suo grammofono. Quando ci arrivavo.Gli scaricatori di porto erano gli uomini più duri del mondo. Avevano le budella foderate di pece e polvere di carbone. Venivano al lavoro armati di lamette, sbarre di ferro, uncini e tirapugni. Bevevano per svegliarsi nei locali aperti la mattina presto, prima di andare a lavorare. Bevevano durante il lavoro, per spazzare via i grumi di sporcizia e la polvere del mondo intero e per alimentare il loro mal di testa. E bevevano dopo il lavoro, quando andavano a incassare la paga nei pub dei porto, da Paddy Clare o da Jack Maher; bevevano quello che gli era rimasto in mano dopo che lo stivatore aveva finito di fare le somme. Bevevano fino a farsi venire la voglia di fare a botte e si guardavano intorno in cerca di un povero cristo da picchiare al posto dello stivatore che si scopava le loro mogli dopo essersi scoìato le pinte che rubava sulla loro paga o che si faceva rimborsare da Paddy Clare. E tutti, mogli e figli facevano la fame. Gli scaricatori di porto buttavano giù whiskey mischiato a pinte di birra scura. E povero chi si trovava a passare vicino a uno di loro quando faceva roteare la cintura inferocito. Uomini che non avevano mai fatto niente a nessuno andavano a finire nel fiume, e qualcuno ci restava; passava sotto la chiusa e andava a finire in pasto ai merluzzi. Gli scaricatori di porto erano al di sopra della legge. Non conoscevano regole se non le proprie e quelle dello stivatore. Erano una compagnia eccitante per un ragazzo che era rimasto solo perché gli erano morti tutti. Cominciai a passare sempre più temo insieme a loro. Andò avanti così per quasi tutto l'anno. Lavoravo, bevevo e tornavo a casa da Annie. Sapevo che stavano succedendo delle cose, e che la fiammeßa che avevamo acceso nella settimana di Pasqua stava già diventando un bel fuoco. | << | < | > | >> |Pagina 272«Bene, bene, bene» disse la vecchia signora O'Shea.Mi versò dell'acqua tiepida sulle dita e me le staccò dal manubrio gelato. «Non potevi aspettare l'estate per fare le tue manovrine, giovanotto?» mi chiese. «Chi addestra gli uomini d'inverno vince la guerra d'estate» le risposi. «E come lo dici bene» mi fece. «Vieni in casa a scaldarti adesso. È, una giornata dolce, ma con una punta dura.» Parcheggiai la Senzaculo nel capannone e la mattina dopo trovai della gente li ad aspettarmi, uomini e ragazzi mezzí congelati, decisi e di cattivo umore. «Sei tu il tizio di Dublino?» «Già.» «Ivan dice che sei venuto a farci vedere come si ammazzano gli inglesi.» «Già.» «Non sapevo che ci fosse qualcosa da imparare.» «Ah, be'» feci. «C'è modo e modo di ammazzare.» «Come sarebbe a dire?» «Be', uno può ammazzare e poi farsi prendere oppure arnmazzarli senza farsi prendere. E poi si possono ammazzare anche quelli che sono pagati per venirci a prendere.» «Gli sbirri?» «Già.» «Che li ammazziamo a fare gli sbirri? Cosa ci hanno fatto di male?» «Tomatene a casa.» «Be', dicevo tanto per dire.» «Tornatene a casa» gli ripetei. «Non sei pronto per combattere.» «Si che sono pronto.» «No, non sei pronto. A casa.» Era la stessa storia dappertutto. Me la dovevo prendere con un povero imbecille che non faceva altro che dire quello che pensavano tutti gli altri, dovevo umiliarlo e spaventare lui per tutti, fìnché i suoi stessi amici cominciavano a odiarlo per la sua debolezza che tradiva quella di tutti. E poi c'era il problema di Dublino da risolvere: loro odiavano tutto e tutti quelli che venivano da Dublino. Dublino era troppo vicina all'Inghilterra; era da lì che venivano gli ordini e la crudeltà. E in parte la colpa era anche della chiusura di Sinn Féin, della Lega Gaelica e di quei coglioni per cui l'Irlanda era tutto quello che stava a ovest di Dublino: la vera gente era a ovest, ovest, ovest, il più a ovest possibile, sulle isole, sugli scogli al largo delle isole, e parlava gaelico e mangiava lana; quelli della Lega vivevano a Dublino ma per le vacanze andavano a ovest, tra la vera gente. Li nel capannone della vecchia signora O'Shea ero insieme a un gruppo di gente che era solo mezza vera: parlavano inglese ma sapevano di essere più irlandesi di me, più vicini alla purezza originale. Eppure li comandavo a bacchetta, e non come facevano gli inglesi o i vecchi proprietari terrieri, ma un po' come se avessero avuto a che fare con uno dei loro, tornato dall'America magari, simile a loro ma non proprio uguale. Ero vestito come loro, visto che il mio vestito ce l'aveva Jack Dalton, e a vederci non c'era nessuna differenza tra di noi, però io ero di Dublino. Sapevano che avevo più esperienza e che avevo tutto il diritto di essere il capo ed era per quello che mi odiavano. Ma io me ne fregavo. Non che mi facesse piacere, ma non me ne importava niente. Oltretutto sembrava che ci fosse un rapporto inversamente proporzionale tra la loro aggressività nei miei confronti e il mio successo con le loro sorelle, mogli e madri. La sopportavo benissimo la loro ostilità. | << | < | > | >> |Pagina 332Fu un duro colpo. Avevamo un bisogno disperato di fucili e munizioni e nessuna delle cose necessarie per vincere la guerra: proiettili perforanti, fucili lancíagranate o bombe capaci di fare qualcosa di più di qualche buco o di un botto debole come un colpo di tosse. La maggior parte dei nostri esplosivi era roba fatta in casa, e quando si trattava di andare a piazzare delle mine antiuomo fabbricate da un ragazzo che a stento era capace di allacciarsi le scarpe si distinguevano subito gli uomini dai ragazzini. Oltretutto, visto il nostro modo di vivere, continuamente in fuga tra un'incursione e l'altra, era difficile prendersi cura dei fucili, che ormai andavano a pezzi e si arrugginivano nei campi e nei fossi. Ci servivano quei fucili e quella vittoria, avevamo bisogno di vedere il nemico uscire con le mani in alto.Avanzammo su un terreno difficile. Era bagnato e pieno di dislivello. Scavato dagli zoccoli del bestiame e índurito dal freddo. Quando i Tans ci scorsero alla luce dei fanali, ci spararono una raffica alle spalle e proiettarono le loro ombre nere davanti a noi. Sentimmo gli stivali che scricchiolavano sul legno quando scesero dalle camionette per inseguirci. Controllai che la signorina O'Shea fosse al mio fianco; era lì, e c'era un altro muro dritto davanti a noi, spuntato dal nulla nell'oscurità. Era una zona piena di muretti bassi e vecchi, che si sgretolavano sotto di noi se cercavamo di scavalcarli. I Tans ci stavano addosso, sempre più vicini. Sentimmo il ritmo regolare dei loro passi che vibravano nel suolo. Erano uomini in forma, pieni di rabbia. Ne avevamo un esercito alle spalle. Correndo ci portammo fuori dal raggio dei loro fanali. Sentimmo i muri che crollavano sotto il peso di quel manipolo di uomini. Un razzo di segnalazione schizzò in cielo sopra di noi, scoppiettando. Ed eccoci lì, sorpresi da quella forte luce rossa, che scappavamo disperati in un campo senza vie d'uscita, su un terreno bastardo, impervio e in salita, molto lontani dal muretto successivo. A quel punto iniziarono a sparare. La RIC aveva abbandonato le caserme più isolate, Tonrua era una delle ultime, ma noi avevamo perso il controllo del paese. C'erano Black and Tans dietro ogni angolo. Si erano ripresi perfino il cielo. Gli aeroplani volavano bassi sopra le cime degli alberi e lungo i fiumi. Per andare in automobile ci voleva il permesso dell'esercito e perfino le bicidette erano state proibite, nelle zone in cui le imboscate avvenivano regolarmente. Noi vivevamo nei bunker e ci eravamo organizzati in unità mobili: tanti piccoli eserciti in fuga. Attacchi di sorpresa, imboscate e incursioni. Colpire e sparire. Non c'era tempo per gli addestramenti: imparavamo scappando. Erano fìniti i giorni della rivolta da dilettanti. La maggior parte degli sbirri di un tempo avevano dato le dimissioni oppure erano morti o erano andati in pensione, ed erano stati sostituiti da quei bastardi dalla scorza dura che ci stavano dando la caccia. Aveva ragione Jack: non avevamo nessuna speranza di vincere. Erano in troppi, e armati troppo bene. Erano dei selvaggi, amareggiati dalla guerra e da quello che avevano trovato al loro ritorno a casa. Non potevamo fare altro che resistere. Le loro divise erano un misto di nero da poliziotti e cachi militare; si rífiutavano di essere poliziotti e di essere soldati. Era una novità, un nuovo tipo di animale disperato. Se ne stavano dietro i muri protetti dai sacchetti di sabbia in città, e ci attaccavano con le loro Peerless e Rofis-Royce blindate o con le Lancia rivestite di pannelli d'acciaio, in moto e in camionetta. I nostri ragazzi, quelli che ancora partecipavano alla lotta, avevano lasciato casa e lavoro; avevamo abbandonato tutto e vivevamo in fuga, da clandestini. Eravamo in pochissimi ormai: erano rimasti solo i più incalliti, la zavorra, quelli che non avevano niente da perdere. Abbattevamo gli alberi per costringerà a rallentare, usavamo il filo spinato, i cecchini e le nostre piccole mine antiuomo. Gli rendevamo la vita impossibile, non gli davamo tregua. Ma loro non si davano per vinti. Bloccavamo le strade, facevamo saltare i ponti, abbattevamo tutti i pali del telegrafo. Le loro incursioni si fecero sempre più frequenti e sempre meglio organizzate: battevano sui muri per controllare se erano cavi, scavavano nei cortili interni delle abitazioni, misuravano le stanze in lunghezza e in larghezza e prendevano nota delle dimensioni. Non sapevamo più dove nasconderci. Dovevamo resistere. Andare avanti, senza mollarli. Perché erano i nostri migliori alleati. Non eravamo ancora in grado di voltarci e affrontarli. Ci serviva quel muro lì davanti a noi, ma era ancora molto lontano. E il razzo di segnalazione era come un dito rosso puntato su ognuno di noi. I proiettili volavano tanto bassi da far fumare la rugiada. Sentivamo il calore nell'aria. Allungai una mano e la signorina O'Shea la afferrò. Continuammo a correre, sapendo di essere sotto il tiro dei fucili. Corremmo veloci sapendo che saremmo morti insieme. Avvertii una forte scossa al braccio: una pallottola era penetrata in quello della signorina O'Shea. Continuammo a correre. Lei non rallentò. Non si lasciò sfuggire nemmeno un lamento. Il sangue ci scorreva tra le mani. Fecero esattamente quello che volevamo noi, quello che ci aspettavamo da loro. Uccisero preti e sindaci. Dichiararono guerra a tutto il paese, a ogni abitante, donne comprese. Fermoy, Balbriggan, Templemore, Cork, Granard furono tutte distrutte dal fuoco, e poi Mallow, Milltown Malbay e di nuovo Fermoy. Tirarono fuori delle storie su Cromwell e su secoli di odio sepolto. Si annerirono la faccia col sughero e persero completamente il controllo di sé. Trascinarono la gente fuori dalle case e gli spararono. Spararono ai bambini. Spararono agli animali. Con la segreta approvazione del loro governo. Noi premevamo il grilletto e loro sparavano. La sua mano sfuggi alla mia presa, ma la riafferrai. Eravamo ancora insieme. La tenni forte per la manica. La luce del razzo luminoso sopra di noi si stava affievolendo. Stava calando di nuovo la notte, ma ci stava portando via anche il muro. Eravamo ancora sperduti in mezzo ai campi. Avvertii un altro colpo. La stavano uccidendo lentamente. Niente e nessuno era neutrale. Bruciavano le latterie. Rubavano le fedi nuziali. Distruggevano i macchinari agricoli. Insultavano le vecchie e le ragazze prendendole di mira coi fucili quando passavano in camionetta a tutta velocità. Picchiavano i bambini. Chiudevano la gente dentro le città e la lasciavano morire di fame. Avevano deciso che tutti gli irlandesi erano membri di Sínn Féin, erano tutti terroristi secondo loro. Li abbiamo in pugno queglí assassini, aveva detto Lloyd George. Ma in realtà eravamo noi i burattinai: gli uomini e la donna che in quel momento stavano scappando in quel campo, e un centinaio di altri uomini e donne che si tenevano nascosti in altri fossi e in altri campi; noi e i nostri burattinai che erano a Dublino, da Shanahan e nei loro nascondigli, nei quartier generali in continuo spostamento. Sapevamo come spingerli ad appiccare il fuoco alla latteria giusta, in una zona tranquilla dove si rispettava ancora la legge, e come attirarli nella casa giusta. Eravamo noi a controllarli. Non dovevamo fare altro che resistere. | << | < | > | >> |Pagina 426«Si!»«È bellissima!» «Sì! Mi hanno lasciato tenere la sua fotografia!» «Proprio bellissima!» «Sì!» «Come te!» «Be' dai!» «Come si chiama?» «Saoirse!» «Ah!» «Ti piace?» «Sì!» «Devo andare! Sono venuti a portarmi via!» «Vieni a cercarmi!» «Verrò!» «Vieni a cercanni!» Se n'era andata. E me ne stavo andando anch'io. Avevo ucciso per l'ultima volta. Quando passai davanti al cancello le donne stavano facendo capannello attorno al giornale. «I ragazzi hanno beccato O'Gandúin» disse Mary MacSwiney. Non sembrava troppo colpita. «Ieri sera» mi fece la donna che mi aveva accompagnato alla finestra. «Mentre tornava a casa da una riunione della confraternita. Be', se non altro era in stato di grazia. O almeno ci era molto vicino.» Un altro martire per la vecchia Irlanda. Me ne andai. Non potevo più restare. Ogni boccata di quell'aria viziata, ogni frammento di quella terra sembrava farsi beffe di me, e cercava di afferrarmi per le caviglie. Aveva bisogno di sangue per sopravvivere e non avevo nessuna intenzione di dargli il mio. Gliene avevo già procurato abbastanza. Avrei ricominciato daccapo. Un uomo nuovo. Avevo i soldi per arrivare a Liverpool e un vestito che non mi andava bene. Avevo una moglie in prigione, che amavo; avevo una figlia il cui nome significava Libertà e che avevo tenuto in braccio soltanto una volta. Non sapevo dove sarei andato. E non sapevo se ci sarei arrivato.
Ma ero ancora vivo. Avevo vent'anni. Ero Henry Smart.
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