Autore György Dragomán
Titolo Fiamme
EdizioneEinaudi, Torino, 2017, Supercoralli , pag. 378, cop.rig.sov., dim. 14x22x2,8 cm , Isbn 978-88-06-22520-9
OriginaleMáglya [2014]
TraduttoreAndrea Rényi
LettoreCristina Lupo, 2017
Classe narrativa romena , narrativa ungherese












 

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Pagina 3

Uno


Aspetto in corridoio, davanti all'ufficio della direttrice. Guardo i tabelloni con le foto di tutte quelle maturande in camicia bianca. Io darò l'esame di maturità solo fra cinque anni. Guardo le loro pettinature: la maggior parte ha la treccia, afferro la mia e decido che chiederò di essere fotografata con i capelli sciolti. Tiro via l'elastico, sciolgo i capelli e li pettino con le dita. Sono abbastanza lunghi. Li sto facendo crescere da tempo.

Aspetto. Guardo fuori dalla finestra, vedo il parco. Ai due lati del viottolo uccelli neri siedono in cima ai pioppi spogli; sono cornacchie.

Guardo le cornacchie. Aspetto.

Mi domando che cosa possa volere da me la direttrice.

Sono all'istituto da quasi sei mesi. Sono tutti gentili con me: le altre, gli insegnanti, gli educatori. Provano pena per me dato quello che è accaduto a mamma e papà.

Guardo gli alberi, non voglio pensare a loro. Aspetto.

Finalmente si apre la porta. La direttrice mi chiama, posso entrare.

Entro.

Nell'ufficio, davanti alla scrivania della direttrice, ci sono due poltroncine. Una è vuota, la direttrice mi fa cenno di accomodarmi.

Nell'altra è seduta una persona. Una vecchietta. È ingobbita, vedo solo il suo cardigan nero, le sue spalle ossute e il grande scialle che le ricopre. Stringe una tazzina da caffè fra i palmi, la gira e la scuote piano. Con le dita scarne tiene fermo il piattino al di sotto come se temesse che dalla tazzina potesse uscire qualcosa.

Mi siedo. Saluto. Il cuscino di pelle della poltroncina è duro al punto da essere scomodo.

La vecchietta mi guarda, saluta, mi chiama per nome. I suoi occhi grigi sono freddi, il volto è severo e anche la voce è fredda.

La direttrice dice che la vecchietta è qui per vedere me.

La vecchietta dice che è mia nonna e che è venuta a prendermi.

Le dico che non ho nonne. Né nonni. Non ho nessuno.

Risponde che sono male informata, lei è davvero mia nonna. La madre di mia madre.

Le dico che non è vero. Mia madre era orfana.

La vecchietta nega. Insiste che non era affatto orfana. Solo che aveva litigato violentemente con i suoi genitori. Se n'era andata di casa dopo una lite furibonda dicendo che non voleva rivederli mai piú. Era questo che voleva ed ecco, era accaduto, sarebbe stato meglio non volerlo. Loro non avevano piú avuto sue notizie, non avevano piú saputo nulla di lei, né erano a conoscenza dell'esistenza di una nipote. E il povero nonno ormai non poteva piú venire a saperlo. Non avrebbe mai creduto che mia madre fosse capace di tanta durezza.

Le dico che non è vero. Non sono sua nipote.

La vecchietta ribatte che invece è vero. Verissimo. Tanto quanto è vero che lei sta seduta qui.

La direttrice interviene. Chiede alla vecchietta di essere piú delicata e gentile.

La vecchietta le fa un cenno con la tazzina e le dice di stare zitta, di non interferire, perché è meglio mettere tutto in chiaro fin dall'inizio. Per via di quel gesto il piattino si sposta stridendo contro il bordo della tazzina, ma non cade, le dita dell'anziana lo tengono saldo.

La direttrice ammutolisce. La vecchietta la prega cortesemente di uscire, perché vuole parlare con me a quattr'occhi.

Vorrei chiederle di non andare, ma poi non dico nulla.

La direttrice si alza lentamente, si vede che non esce di buon grado, sulla porta si volta per dire che rimane in corridoio.

Annuisco.

La porta si chiude. Non guardo la vecchietta. Guardo le mie scarpe, i bottoni nero scintillante dei cinturini all'altezza delle caviglie.

La vecchietta mi prende la mano, ha il palmo caldo e umido, e tira su con il naso. Alzo gli occhi, vedo che i suoi sono bagnati di lacrime.

Per un po' mi guarda soltanto, non parla. Le vedo scorrere le lacrime sul viso.

Si inumidisce le labbra, la lingua è rosa pallido. Parla. La sua voce è diversa: piú morbida, piú profonda.

Mi chiede di non serbarle rancore. Non voleva parlare male di mia madre. Non potrebbe mai, era sua figlia. Sangue del suo sangue. Che non ha visto per piú di tredici anni. E che non vedrà mai piú. Anche se è stata arrabbiata con lei, l'ha perdonata. Sa che anche mia madre l'ha perdonata, glielo dice il cuore.

Tira verso di me la poltroncina, la sua mano mi liscia i capelli.

Dice che sono un regalo del destino. Ora che il mio povero nonno è morto, è rimasta completamente sola. Ha soltanto me. Devo capirla, sono sua nipote, noi apparteniamo l'una all'altra, mi vorrà bene come ha voluto bene a sua figlia. Anche di piú. Vuole che io vada via con lei. Mi implora di andare via con lei.

Non le rispondo. Non dico nulla.

Ripete che devo andare via con lei. Devo andare via con lei, non posso fare altro, è quella la mia strada, sostiene.

Parlo. Le dico di no.

Mi sembra di vederle un lampo di rabbia negli occhi, ma il viso e la bocca sorridono. Dice di poter dimostrare tutto.

Mi prende la mano, la accosta alla tazzina, che ora è tenuta da entrambe. La porcellana è calda.

Mi chiede di fare attenzione.

Sento la mia mano muoversi, agitiamo insieme la tazzina rovesciata sul piattino. Da sotto filtra del fondo di caffè marrone scuro che si sparge tutt'intorno e disegna tentacoli. Vedo i tentacoli ispessirsi e saldarsi.

La vecchietta afferra la tazzina e la rimette dritta sul piattino. Mi invita a guardarci dentro.

Lo faccio.

Il fondo del caffè ha disegnato all'interno un'intricata figura marrone simile a un labirinto di sabbia.

La vecchietta ruota piano la tazzina e mi chiede di nuovo di fare attenzione.

Osservo.

Di colpo dal disegno vedo affiorare il mio viso. È delineato con tratti leggeri, come se fosse un ritratto appena abbozzato con un pennarello marrone; riconosco i miei occhi, il mio naso, i contorni della mia bocca, il mio mento. Sono io, e sorrido.

La vecchietta appoggia il dito sul bordo della tazzina, il dito percorre il bordo, la porcellana sfiorata dall'unghia stride, il mio viso sulla parete della tazzina si trasforma, le linee si deformano ispessendosi, come se io crescessi e invecchiassi. Vedo il viso di mamma, lo riconosco, è lei, guarda e sorride gentile, eppure è triste, poi invecchia anche lei, il suo volto diventa grinzoso, il mento piú affilato, e vedo il volto della vecchietta guardarmi sorridente dal fondo del caffè.

Con il palmo sento che la tazzina si è completamente raffreddata, lascio che me la tolga di mano e che la metta sulla scrivania della direttrice.

Alzo lo sguardo, ho i lucciconi, sento la vecchietta parlare.

Mi dice di chiamarla nonna.

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Pagina 87

Dieci


Szálki mi accompagna soltanto fino in cima al colle Kálvária, da li devo procedere da sola. Mi dice di camminare lungo la recinzione del cimitero e di attraversare il campo accanto all'albero colpito dal fulmine, da lí vedrò il vecchio maneggio, dietro cui mi aspetta il signor Pali, l'allenatore di corsa campestre. Non bisogna aver paura di lui, è indubbio che è severo, ma è buono con quelli a cui vuole bene.

Cammino accanto al cimitero, dalla recinzione di cemento mancano pezzi grandi come il palmo di una mano, si possono vedere le tombe all'interno. Qui le lapidi sono diverse rispetto a quelle del cimitero accanto alla casa di nonna, sono molto piú antiche e quelle rotte sono molto piú numerose.

L'albero colpito dal fulmine è molto grosso e molto nero, è piú grande persino del noce di nonna. Passandoci vicino, vedo che sembra fatto di carbone, ha pure l'odore di carbone vegetale, la scorza è tutta una crepa nera, non oso toccarla.

Il maneggio è un grande edificio di mattoni vuoto, si vede che da tempo non ospita piú cavalli.

Lo attraverso, immagino l'odore di fieno, lo scalpiccio degli zoccoli, i nitriti.

Scorgo l'allenatore mentre sono ancora all'interno. È seduto su tre casse di plastica sovrapposte e quando si accorge di me si spinge indietro il cappellino verde da caccia e chiude il giornale che stava leggendo.

Aspetta che io lo raggiunga prima di saltare giú dalle casse, mi squadra dalla testa ai piedi, dice Caspita, e il suo volto è un unico ampio sorriso.

Saluto, comincio a dire che mi ha mandata l'insegnante di ginnastica e che cerco il signor Pali, mi interrompe, dice che sono nel posto giusto, sa tutto di me, non è questo che conta ma quello che ha sentito del mio modo di correre, non voleva credere che potesse essere vero, ma già da come cammino si vede che potrei possedere ciò che serve per la vera corsa campestre. Che gli faccia la cortesia di correre qui qualche giro, sulla vecchia mulattiera, intorno alle casse, cosí come sono, senza riscaldamento.

Non dico nulla e mi metto a correre. Non è una vera e propria mulattiera ma solo erba leggermente calpestata, un ovale irregolare, ma ci si corre bene, mi lascio trasportare dalle gambe. Il cerchio non è troppo ampio, non conto i giri, corro, non guardo l'allenatore, ma sento il suo sguardo sulla schiena.

Il signor Pali mi grida di accelerare, e io accelero, poi mi grida di rallentare, e io rallento, poi di nuovo devo accelerare.

Corro, ora velocemente, ora piano, sguazzo nel cappotto, d'un tratto sento uno scricchiolio, sto calpestando delle pietre rotonde, giro lo sguardo e vedo che il signor Pali prende da una cassa ghiande, noci, castagne, sassolini tondi e pezzi di rami e li sparge davanti a me sul viottolo, so cosa vuole, che io inciampi e cada, ma non inciampo, non cado, le punte delle mie scarpe trovano il terreno, mi spingono in alto, mi fanno volare oltre.

Il signor Pali dice che va bene, posso rallentare e fermarmi. Sorride quasi, dice che va bene, sono ben piantata sulle gambe, ora tralascia tutti gli altri trucchi, vuole solo sapere se sento le direzioni, perché nella corsa campestre è essenziale. Tira fuori da una cassa un bastoncino alle cui estremità sono fissati con un filo metallico due ferri di cavallo. Mi si accosta e mi dice di fare bene attenzione. Solleva il braccio e lancia il bastoncino, che prende il volo ronzando e piroettando, poi scompare fra gli alberi. So cosa succederà, mi dirà di cercarlo e di riportarlo. Ho visto dove è andato a finire, mi avvierei, ma il signor Pali mi afferra per il braccio, dice Aspetta, cara, si toglie il cappello e me lo calca in testa. Il cappello è grande, mi scende sul naso, odora di fumo di pipa, non vedo nulla, il signor Pali mi appoggia le mani sulle spalle, mi tiene e mi fa girare in tondo, lo sento canticchiare pio-pio-taccolina-cieca-il-bimbo-dove-si-è-nascosto, ma con una voce cosí allegra che viene da sorridere anche a me. Il signor Pali mi fa girare, girare, girare, poi mi toglie al volo il cappello, se lo rimette in testa gridando il-bimbo-è-volato-via, sbatto le palpebre, intorno a me ruota tutto, il bosco, la terra, il cielo, ruotare mi ha fatto venire un gran giramento di testa, le gambe non mi portano dove voglio andare, sbando di qua e di là come se soffiasse il vento, penso al volo del bastoncino che fendeva l'aria volteggiando, volteggio anch'io, barcollo come se fossi ubriaca ma al contempo voglio correre e questo mi fa ridere, rido infatti, la risata mi spinge in avanti, sono già fra gli alberi, per poco non vado a sbattere contro un tronco, lo evito, passo sotto un ramo, passo sopra un altro, e allora scorgo il bastoncino, l'estremità di uno dei ferri di cavallo è penetrata nel terreno, l'altra indica di sbieco il cielo, allungo la mano, lo alzo, mi avvio per tornare dal signor Pali, quando lo raggiungo non mi gira piú la testa. Mi toglie il bastoncino di mano, se lo fa ruotare fra le dita, le estremità dei ferri di cavallo disegnano in aria un cerchio d'argento, sorride e dice Andrà bene, andrà molto bene, Dio ti ha creata per la corsa campestre, la professoressa ha occhio, l'ha capito al volo.

Mi sorride e domanda se mi va di frequentare gli allenamenti.

Mi torna in mente mamma, tutto quello che mi ha raccontato della corsa, guardo il viso del signor Pali mentre sorride, annuisco, e poi lo dico anche, Sí, mi va.

Annuisce pure lui, Allora a posto, infila la mano in tasca, tira fuori un cordoncino di cuoio con una piccola medaglia nera all'estremità, me lo mette davanti, fa scattare il coperchio della medaglia, dentro c'è un ago bianco e sottile che nuota in un liquido bianco trasparente, il signor Pali lo scuote, l'ago si muove, poi torna in posizione, il signor Pali mi domanda se so che cos'è, dico di sí, è una bussola. Me la mette in mano, la tengo, la scuoto, guardo l'ago che ruota oscillando e poi si ferma indicando la direzione, il signor Pali mi dice di portarla sempre con me, di guardarla ogni volta che posso. D'ora in poi dovrò sapere sempre dov'è il Nord.

Mi appendo la bussola al collo e la nascondo sotto il cappotto.

Il signor Pali dice che ora posso andare a casa, mi farà sapere tramite l'insegnante quando ci sarà l'allenamento. Mi sorride e dice che non devo pensare che mi favorirà solo per quello che è successo al mio povero nonno. Mi farà faticare come un cavallo, altrimenti non potrà guardare in faccia mio nonno nell'aldilà.

Sfioro il cordoncino della bussola, me lo avvolgo intorno alle dita, lo tiro e domando come mai lui non ce l'ha con mio nonno. Finora ne ho sentito parlare solo male, lo ha maledetto anche l'insegnante di ginnastica.

Il signor Pali dice che la gente è cretina, non conosceva bene mio nonno. Lui invece sí, da quando aveva vent'anni, anche dai tempi del maneggio, e alla fine era il suo miglior amico, se cosí si può dire. Era sempre stato un uomo probo, una sola volta nella vita l'aveva deluso: mio nonno gli aveva chiesto in prestito la sua vecchia mappa militare, che è la piú dettagliata e precisa mai disegnata di questi monti, ed è morto senza avergliela restituita. Una mappa introvabile, perché i comunisti detestano le mappe, le hanno disegnate tutte volutamente male. Nel caso la trovassi, mi prega di riportargliela.

Gli domando perché allora si è ucciso.

Scuote il capo, lui metterebbe la mano sul fuoco per mio nonno. Sicuro al cento per cento che non si è ucciso. Non è mai stato una spia. L'ha ucciso la Securitate, punto.

Guardo per terra. Gli faccio notare che tutti gli altri dicono una cosa diversa.

Il signor Pali si rigira fra le dita il bastoncino con i ferri di cavallo. È vero che tutti dicono una cosa diversa, ma a me non deve interessare cosa dicono gli idioti, basta che io sappia la verità.

Mi viene in mente il viso di papà quando era arrabbiato e sbatteva sul tavolo il bicchiere vuoto. Dico che non c'è giustizia, esattamente nel modo in cui l'avrebbe detto lui.

Il signor Pali sputa in terra, Come no, c'è eccome. Dice cosí solo chi è cieco. Mio nonno era un eroe, aveva combattuto, era stato in prigionia di guerra, ai lavori forzati, al campo di rieducazione, dove anche se era un chirurgo volevano trasformarlo in spazzino, aveva sopportato tutto e sopporterà anche che lo diffamino da morto, non però che sua nipote dica corbellerie.

Scuote la testa, dice con rabbia che non mi vuole sentire un'altra volta dubitare di mio nonno altrimenti mi prende a schiaffi, perdiana. Ha il viso in fiamme per la collera e sta già urlando. I proiettili fischiavano ovunque in città e quelli si insediarono all'ospedale e rubarono pure i morti, come avevano sempre rubato tutto, sono degli sporchi bugiardi, e mio nonno ci entrò da solo per farseli consegnare, perché credeva che quei pezzi di merda avessero la decenza di non alzare la mano sul loro vecchio insegnante.

Posso essere sicura di mio nonno. Tanto quanto che il Nord è il Nord.

Tornando a casa, sento in maniera insolita il cordoncino di cuoio, sono consapevole della bussola a ogni passo. Non voglio guardarla, penso di farlo solo a casa, da nonna, ma già prima di arrivare ai piedi del Kálvária non resisto piú. La tiro fuori da sotto il vestito, ma non la guardo, prima provo a indovinare dov'è il Nord, solo dopo sbircio l'ago fra le dita. Ora non gira tanto in fretta. Non indica esattamente la direzione che avevo pensato, ma quasi. Osservandolo meglio, noto che l'ago termina in una testa d'uccello con un piccolo becco, le ali all'indietro e le penne della coda schiuse, e ricorda un uccello molto allungato che scende in picchiata. Mentre roteo la bussola con le dita, il liquido trasparente ingrandisce i particolari: le penne sembrano intagliate una per una, e non solo le penne ma anche i fili intrecciati delle stesse penne. Non so che uccello sia, forse un falco, o forse un tipo di aquila. Picchietto il vetro della bussola, guardo come si deforma nel liquido. Osservo il becco e mi dico molto piano: il Nord è il Nord.

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Pagina 334

Trentotto


Faremo un compito in classe sulle equazioni a due incognite, l'ultima volta è andato molto male, devo esercitarmi. Tiro fuori il libro, giro il quaderno, comincio a risolvere gli esercizi sulle ultime pagine vuote, l'importante è che pensi solo ai numeri, ai numeri e alle equazioni, a nient'altro. È molto difficile fare attenzione, è molto difficile concentrarsi. L'insegnante ha detto che sbaglio a tenere la matita come se volessi disegnare, che sbaglio a scrivere gli esercizi come se volessi non risolvere esercizi ma prepararmi a fare dell'altro, come se quella fosse solo l'introduzione. Devo rendermi conto del fatto che dietro i numeri non c'è altro che un foglio bianco.

Mi sono inventata un modo per punirmi. Tutte le volte che mi rendo conto di essermi distratta, di non essere rimasta concentrata sui numeri, apro una pagina bianca e comincio a scrivere i prodotti notevoli uno sotto l'altro, cioè a piú bi al quadrato uguale ad a al quadrato piú due abi piú bi al quadrato, a piú bi per a meno bi uguale ad a al quadrato meno bi al quadrato, e cosí via, tutti in fila, ma anche cosí è molto difficile concentrarsi, perché è molto noioso. Non voglio pensare che mi tocca farlo anche se non ha senso, perché so che non ci farò mai nulla con questa maledetta algebra, che serve solo a farmi venire il mal di testa. Ricomincio da capo, apro una nuova pagina, scrivo un nuovo esercizio.

Ho l'impressione di esercitarmi già da un paio d'ore quando entra nonna, su un piattino porta spicchi di mela, noci e miele. A volte, quando mi vede molto presa dallo studio, mi offre qualcosa di dolce, cotognata e cioccolata amara, o nocciole tostate e zuccherate, dice che forniscono energia.

Quando mette giú il piattino, vede le equazioni scritte in colonna. Le noci sbattono perché la sua mano ha un tremito, so che pensa a Miklós e a Bertuka. Non mi ha raccontato la fine della storia. All'improvviso desidero che non se ne vada, che rimanga e me la racconti, che me la racconti ora e subito. Allo stesso tempo mi rendo conto che non sono davvero curiosa di conoscerla, voglio che rimanga solo per non dover studiare, e questo mi fa vergognare. Nel frattempo nonna ha già lasciato il piattino, mi guarda, non voglio che sappia cosa penso, distolgo lo sguardo, infilo la mano nel piattino, spezzo in due una mezza noce, intingo lo spicchio nel miele e me lo infilo in bocca, lo mastico, la noce è stantia, sa di muffa, cosí tanto che neppure il miele è in grado di sovrastarla.

Nonna domanda chi voglio ingannare, lei o me stessa? Questo accentua il sapore di muffa nella mia bocca, scuoto la testa, non riesco a parlare. Intanto nonna intinge uno spicchio di mela nel miele, dice che non bisogna complicare tutto all'infinito, la matematica è noiosa e il compito delle storie è quello di finire, prima o poi. Avvicina lo spicchio di mela alla mia bocca e dice Amm!, poi di nuovo Amm!, come se fossi una bimba piccola, mordo la punta della mela, sento che in bocca mi si diffonde un sapore fresco, asprigno.

Nonna prende lo spicchio restante della mezza noce, lo intinge nel miele, lo mangia senza storcere il naso. Mi fa cenno di chiudere il quaderno, si siede sul mio letto, tira su le gambe, si appoggia al tappeto appeso alla parete. Inizia a parlare.


Ti svegli al canto del gallo, il tuo primo pensiero è che non può essere un risveglio, perché non puoi aver dormito, non questa notte, sei stata sveglia tutto il tempo, aspettavi appollaiata sullo sgabello davanti alla finestra che succedesse qualcosa, perché Bertuka ti ha detto che sarebbe stata la loro ultima notte qui, in cambio della collana qualcuno finalmente li avrebbe fatti passare oltre la frontiera.

L'hai abbracciata e l'hai salutata, la sera, cosí come lei aveva chiesto, hai chiuso male il cancello, ma non sei riuscita ad andare a letto, e non volevi nemmeno farlo, volevi vederli andare via, o se non proprio vederli almeno sentirli, o se non proprio sentirli almeno sapere che se n'erano andati via davvero.

Hai aspettato seduta al buio, hai ascoltato il ritmo del tuo respiro, hai pensato al buio della legnaia, ti sei immaginata con loro, ti sei immaginata persino di andare via con loro.

Hai aspettato seduta e hai provato a non pensare a nulla, e non ti ricordi affatto di esserti addormentata ma solo del risveglio, del canto del gallo, che forse hai solo sognato.

Ti duole la schiena, fai fatica a metterti in piedi, fuori albeggia, è tutto grigio, poi all'improvviso una luce rosa inonda la strada, il cielo, il mondo, è cosí potente da illuminare a giorno anche la stanza, per un attimo tutto è sdolcinatamente, vertiginosamente rosa, non può essere reale, è solo un sogno, non puoi esserti addormentata, devi stare sveglia perché hai promesso a te stessa che saresti rimasta tutta la notte a recitare i numeri primi, come già per la guarigione di Miklós. Vuoi pensare ai numeri, all'ultimo che avevi scritto prima di smettere e al desiderio che avevi sussurrato scrivendolo, ma non ti viene in mente nulla, non un numero, non un pensiero.

Sei in piedi nell'incredibile luce rosa, ormai sei sicura di stare ancora dormendo, sogni anche il risveglio, sogni il canto del gallo, sogni la luce dell'alba, lo spavento ti investe come fosse sudore freddo, riesci solo a pensare che non puoi dormire, che non avresti dovuto addormentarti, che dovresti svegliarti, svegliarti davvero, ti devi svegliare a ogni costo.

All'esterno si sente uno schianto fragoroso, non è fuori, è dentro, nel tuo orecchio, nella tua testa, nel tuo collo, nella tua spina dorsale, ti fa volare via dalla sedia, ti sbatte contro il muro, ti fa finire sul pavimento, ti sferra un calcio nello stomaco, ti agguanta per il braccio, ti tira su con uno strattone, ti prende a pugni in faccia, ti trascina per terra per i capelli, domanda urlando dove sono, dove li hai nascosti, dove li hai messi, che ne hai fatto, ti prende a botte, a calci, a schiaffi, strattonandoti, non riesci a spiccicare parola, né a piangere, né a respirare, l'aria è miele cristallizzato, vetro liquido.

Sai e non sai cosa sta succedendo, è uno in uniforme, ti picchia urlando, ti prende a calci strattonandoti, non senti dolore, senti solo che il tuo corpo si irrigidisce e diventa fragile, sei di vetro nero, tra poco ti frantumerai, ti vedi dall'esterno, come se non fossi tu, come se non fossi tu a essere trascinata per terra, come se non fosse la tua camicia da notte a scivolare su, come se non fossero le tue gambe a dimenarsi bianche, come se non fosse il collo del tuo piede a impigliarsi nel tappetino tirandoselo dietro per un tratto, come se non fosse la tua spina dorsale a inarcarsi, come se non fosse la tua testa a sbattere contro lo stipite.

No, quella che trascinano per il corridoio non sei tu, non sta succedendo a te, non è reale, lo immagini soltanto, lo sogni soltanto, non è dal tuo naso che sgorga il sangue, non è dal tuo cuoio capelluto che si strappa un ciuffo di capelli, non inciampi tu sulla soglia, non precipiti tu dai gradini di cemento sul selciato del cortile, non è la tua pelle a essere graffiata dalle pietre appuntite, non sei tu a strillare, non sei tu a gridare Mi lasci, mi lasci andare, se ne vada, non sei tu che quello in uniforme prende a calci nelle reni, che strattona per farti inginocchiare, no e no, quella là non sei tu, è un'altra, non succede a te, succede a un altro.

Lo pensi finché non vedi mamma e papà. Sono inginocchiati al muro tagliafuoco, accanto all'aiuola, in mezzo all'erba calpestata, quando scorgi loro capisci che non è un sogno, è la realtà, e la cosa ti fa venire le vertigini, piú delle botte. Quello in uniforme ti lascia, si piazza davanti a papà, gli domanda qualcosa urlando e gli fa cenno con il capo nella tua direzione, il viso di papà si contorce, non vedevi quest'espressione sul suo volto da quando ha avuto il colpo apoplettico, si contorce anche la metà sinistra paralizzata della sua faccia, dice di lasciare stare la ragazzina, non c'entra, è ancora una bambina, quello in uniforme gli strilla, Risponda alla mia domanda, e vuole dargli uno schiaffo ma il colpo scivola giú, finisce sul collo, inclina la testa di papà, quello in uniforme domanda di nuovo, Dove li ha nascosti? La faccia di papà viene invasa dalla rabbia, dalla sua bocca esce saliva mista a sangue, Come ti permetti, maledetto, grida, Quante volte devo dirti che non ho nascosto nessuno, meno che mai degli ebrei schifosi, hai sbagliato numero civico, non sai con chi stai parlando, afferra fra l'erba un sostegno divelto che ha ancora la sfera decorativa verde in cima, comincia a colpire a casaccio la coscia dell'uomo in uniforme, la sfera decorativa si frantuma in mille pezzi, Ecco, ecco, tieni, tieni, si spezza anche l'asse, nel frattempo prova ad alzarsi in piedi ma non ci riesce, fino a quel momento mamma piagnucolava, ora scoppia in un pianto dirotto, Pover'uomo è malato, non vede che è malato, perché non lo lascia in pace, ha sbagliato indirizzo, faccia la cortesia di capirlo.

Provi ad alzarti, vuoi dire che qui non c'è nessuno, non c'è e non c'è mai stato, nel frattempo ricordi di aver sentito mamma uggiolare cosí una sola volta, quando a pranzo papà aveva annunciato che sarebbe andato in pensione, e allora mamma aveva domandato che ne sarebbe stato di voi, e papà aveva sbattuto giú la forchetta e l'aveva rimproverata, Basta con questi piagnistei, ma non vuoi pensare a questo bensí alla forza della bugia, a quello che Miklós aveva detto una volta della bugia, che bisogna mentire come se fosse vero, perché allora lo diventa, intanto vedi che l'uomo in uniforme afferra papà per i capelli, con uno strattone lo stacca da terra, gli punta una pistola alla fronte, Glielo chiedo per l'ultima volta, dice, la sua voce è morbida, quasi gentile.

Ti alzi, gridi Non faccia del male al mio povero papà, non gli faccia del male, non sono le parole giuste, non volevi dire questo, ripeti con voce acuta Non faccia loro del male, per favore, non a papà, non a mamma, loro non lo sanno, non sono colpevoli di nulla, li lasci stare, ci sono io.

Quello in uniforme ti guarda, si inumidisce le labbra, ti accorgi solo allora di quant'è giovane, forse non ha neppure vent'anni, ha la faccia da adolescente, Conto fino a tre, dice e fa un cenno con il capo.

Gli occhi di papà sono grigi e vuoti, ti guarda come mai prima d'ora, come se non capisse, come se non volesse credere a quello che sente, pensi a Bertuka, a Miklós, a Bátykó, che non sono piú qui, che probabilmente non saranno piú qui, che speri non siano piú qui, la bocca di quello in uniforme non si muove, però sai che sta contando fra sé, uno, due, il tuo braccio si alza, indichi la legnaia e dici che c'erano, sí, tu sola li avevi nascosti, nessuno ne sapeva nulla, c'erano ma non ci sono piú, sono andati via e non sai dove.

L'espressione sul viso di quello in uniforme non cambia, non c'è traccia di rabbia né di altro, spara sospirando con dolcezza nella fronte di papà, il boato sovrasta ogni altro rumore, una macchia nera compare sulla fronte di papà, il sangue prende a sgorgare rossastro, quello in uniforme lascia i capelli di papà, lui cade nell'aiuola, quello in uniforme ti si avvicina, ti prende per i capelli, te li tira, dice qualcosa, non lo senti, nelle orecchie non hai altro che il fragore, il rimbombo nel cranio, sta per spaccarlo, lo farà scoppiare, la pistola nella mano di quello in uniforme ruota di scatto verso di te, sai che sta arrivando il tuo turno, che lo faccia scoppiare, che spari, intorno a te turbina tutto, ma vedi comunque mamma saltare in piedi strillando, vuole afferrare il braccio di quello in uniforme ma non ci riesce, perché lui fa un passo in avanti, ti strattona per i capelli e con un gesto lento e annoiato punta la pistola contro mamma, non senti il boato con le orecchie, solo nello stomaco, mamma cade in terra ma non la vedi perché quello in uniforme ti strattona di nuovo per i capelli e ti tira e trascina e tira verso la legnaia.

La porta della legnaia è aperta, anzi, è proprio spalancata, la legnaia è vuota, o meglio non del tutto, fra i ciocchi crollati c'è la madia rovesciata, le noci si sono tutte versate, accanto alla madia c'è una statua d'argilla, è del tipo che hai visto nella soffitta della casa di Bertuka. Guardi le noci rovesciate, pensi che loro non ci sono, sono andati via veramente, sono andati via sul serio, anche quello in uniforme dice che non c'è nessuno, non c'è e non c'è mai stato, basta bugie, non c'è nessuno, solo quella maledetta statua, dicendolo spara alla statua, le apre un buco scuro nel petto, ma non succede altro. Sai che ora è davvero il tuo turno, per forza è il tuo turno, vedi pure l'arma che si muove, desideri, vuoi che si muova, eppure no, no, non vuoi, vuoi il cielo, non vuoi morire qui dentro, vuoi rivedere il cielo ancora una volta, il noce, il vento che soffia tra i rami, non è vero nemmeno questo, non vuoi morire, non vuoi morire affatto, vuoi vivere, respirare. La canna della pistola si solleva, giri la testa, guardi la madia, le noci versate, nella tua testa echeggia il boato, e allora fra le noci scorgi qualcosa di bianco, è un sassolino, sopra c'è legato un filo rosso, sai che cos'è, è di Bertuka, c'era avvolta tutta la matassa.

Senti il tuo braccio che si muove, lo indicherai, punterai il dito sul sasso, proprio come l'hai puntato sulla legnaia, griderai che invece sí, sono stati qui, non vuoi, non puoi, vorresti non averlo mai scorto, eppure il tuo braccio si muove, indica il sasso, quello in uniforme lo vede, ti lascia la spalla, si scosta, cerchi di fermarlo ma non ce la fai, è già fra le noci, si china e prende il sasso, appena lo solleva il filo che c'è legato viene fuori dalla terra, lasciando una riga nera al suo posto. Da sottoterra arriva un brontolio sordo, no, non arriva da sottoterra ma dall'uomo d'argilla, vedi che si muove e con tre pesanti passi si avvicina all'uomo in uniforme, lo afferra, lo solleva, vuole lanciarlo via, e allora qualcosa si spacca, la terra gli si apre sotto i piedi, no, non è successo questo, si sfonda il pavimento, vedi che è stato fatto di rami e di terra, e sotto c'è una grossa buca, e dentro ci sono tutti e tre, Bertuka, Miklós e Bátykó. L'uomo d'argilla fa cadere l'uomo in uniforme e resta in piedi dimenandosi sull'orlo della buca, quello in uniforme impreca, sposta di scatto la pistola, la punta su Bertuka, allora Bátykó salta davanti a Bertuka, la pistola spara, colpisce Bátykó alla pancia, e nonostante l'eco del boato senti il tuono che si sprigiona dal corpo dell'uomo d'argilla, che con uno spintone fa volare l'uomo in uniforme nella buca, poi si spezza in due e ci cade anche lui, dritto su Miklós, lo vedi sbriciolarsi e seppellire Miklós, vedi che quello in uniforme si mette a quattro zampe e cerca la pistola, vedi che la trova, la punta ancora su Bertuka, spara, vedi che Bertuka gli salta addosso, gli infila il ferro da maglia nella gola, ma non ti interessa, ti interessa solo Miklós, salti dentro la buca, l'argilla sbriciolata ti ingoia a metà, gridi il nome di Miklós, infili la mano tra i frammenti, cerchi la sua mano, la troverai e lo tirerai fuori da lí, ma non la trovi, la cerchi, la cerchi ma non la trovi, poi delle dita ti si avvinghiano intorno al polso, lo stringono, lo tengono, le prendi anche tu, le tiri, le stringi. Non è Miklós, è Bátykó, giace per terra davanti a te, intorno a lui tutto è nero per il sangue, la tua mano è nelle sue, parla gorgogliando ma lo capisci, dice Non è servito a nulla, guarda dietro di te, il suo volto si svuota, poi in qualche modo torna a guardarti, dice Che almeno tu possa sopravvivere, dice che non gli è rimasto nulla, ma quel nulla te lo dà per intero, tieni, prendilo. Mentre lo dice il dolore gli distorce il viso, gli stridono i denti, vuoi sfilare la mano ma non puoi, la stringe forte, e allora hai la sensazione di avere qualcosa nel palmo, è un sassolino puntuto, freddo, o è brace ardente, non riesci a capire cos'è, ma la tua mano non è neppure piú una mano umana, il tuo corpo non è un corpo umano, ti trasformi, sei un animale, una talpa pelosa, non vuoi nulla, vuoi solo rintanarti nella terra, nell'elemento a cui appartieni, vuoi scavare, andare sempre piú giú, e stai già scavando, ti conficchi nella terra, affondi e affondi ciecamente nell'oscurità umida e odorosa di humus, là dove nessuno ti troverà mai piú.


Nonna smette di parlare, le rughe sembrano averle frantumato il volto, respira con l'affanno, dice che forse è andata cosí ma forse no. Forse è successo in modo completamente diverso, molto piú semplice, forse sono solo arrivati i soldati all'alba, sono andati dritti alla legnaia e dietro i ciocchi hanno trovato Bertuka e gli altri, poi hanno tirato tutti giú dal letto e li hanno messi sul treno con cui sono partiti anche gli ultimi inquilini del ghetto della fabbrica di mattoni. Sí, può darsi che lei abbia solo voluto nascondere la sua migliore amica, ma sia stata sorpresa e per questo rinchiusa nel lager con lei. Forse lei ne è uscita viva e la sua amica no, neppure i suoi genitori, solo lei, forse di tutti loro solo lei è tornata.

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