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| << | < | > | >> |Pagina 13Alexandre Dumas, un amante dell'Italia Dopo le esperienze di Mois (Mese) (1848), subito soprannominato il Moi (Me) dai suoi detrattori, del Moschettiere (1853-1857), del d'Artagnan e del Monte-Cristo (1857-1860) «giornale ebdomadario di romanzi, di Storia, di viaggi e di poesia, di Alessandro Dumas, da solo», comincia nel 1860 una duplice avventura napoletana: quella de L'Indipendente e dell'unità italiana. Avventura sotto il segno di due incontri: quello di Dumas e Garibaldi che inizia a Torino, e il ritrovarsi di Dumas con Napoli. Dumas vagheggia infine l'occasione di indossare gli abiti che preferisce, quelli dell'eroe, magari una delle mille camicie rosse, e quindi di vivere nel fuoco dell'azione tutto quel che è stata sempre materia dei suoi scritti. La rivoluzione del 1830, in cui s'era gettato con la foga della giovinezza, lo ha segnato: il suo entusiasmo e la sua fiamma risuscitano dopo trenta anni, con una passione che nulla ha intaccato. Dumas, nel maggio 1860, parte per un viaggio nel Mediterraneo sul battello Emma, inseguendo un vecchio sogno già abortito nel 1835 per mancanza di fondi. Da Agrigento, all'inizio di luglio, scrive a suo figlio comunicandogli che pensa di essere ad Atene dopo un mese, ma invece si addentra in Sicilia e vede la popolazione senza armi. «Una vostra parola, fermo posta a Catania, e io rinuncio al mio viaggio in Oriente per seguirvi fino alla fine e non fermarmi se non quando vi fermerete voi», scrive a Garibaldi, proponendogli di partire con lui. È preso in parola, l'Oriente attenderà. Il periplo si conclude a Milazzo da dove egli manda ai suoi lettori francesi un reportage sul combattimento che vede 5500 garibaldini riportare una vittoria decisiva sulle truppe borboniche napoletane: Dumas ha scelto di «assistere al trionfo di un principio che è stato il culto della sua vita: quello della libertà». È in quel momento che nasce il progetto de L'Indipendente. Il 29 luglio Dumas lascia Palermo sul battello di linea Posillipo, per raggiungere Marsiglia (dove acquisterà fucili e carabine) dopo un breve scalo napoletano, che così racconta: «Non ero tornato a Napoli da 25 anni, non avendo alcun motivo di venire a reclamare per i quattro anni di galera ai quali il governo pontificio e napoletano avevano deciso di condannarmi... Non appena il battello Posillipo ha gettato l'àncora nel porto, un gruppo di popolani invade il ponte e uno fra loro, riconoscendomi, probabilmente per il mio aspetto, come un patriota, mi grida: "Dov'è Garibaldi?, quando sarà qui? Noi lo attendiamo". Comprenderete che, conoscendo bene la mia Napoli, dissi a me stesso: «ecco un agente provocatore al quale è perfettamente inutile rispondere», per cui dico un non capisco con il miglior accento... "Ma non siete voi Monsieur Alexandre Dumas?" mi dice quell'uomo». Sono trascorsi venticinque anni dal suo ultimo soggiorno a Napoli, città che aveva esplorato, per tre settimane in due riprese, sotto falso nome, munito di un passaporto che gli aveva procurato il pittore Jean-Auguste-Dominique Ingres all'epoca direttore dell'Accademia di Roma. Fiero di esserci da cospiratore, aveva soprattutto raccolto impressioni di viaggio. Vi tornava come trafficante di armi e in piena gloria. Il 9 agosto riparte da Marsiglia per mettersi sulle tracce dei garibaldini in Sicilia. Si ferma nel golfo di Napoli e attende l'eroe liberatore. Diventa fautore di disordini, mettendo in agitazione i giornali e fabbricando camicie rosse sulla sua goletta ormeggiata sotto le finestre del Palazzo Reale: «Alla vigilia avevo inviato cento di quelle camicie a Salerno, facendone indossare venticinque, l'una sull'altra, a quattro uomini. Il più smilzo era diventato enorme gli altri non avevano più forma umana; per fortuna avvenne di notte». Suscita tanta agitazione in città da ricevere il 2 settembre l'intimazione di lasciare il porto. Riparte verso la Sicilia ma una tempesta lo respinge nel golfo; il 12 sbarca a Napoli e l'indomani vi incontra Garibaldi che vi aveva fatto un ingresso trionfale (il 7 settembre) acclamato in Palazzo d'Angri in via Toledo. «La questione più importante al momento è il combattimento, la guerra. Felici coloro che impugnano la sciabola e il fucile! Da compiangere chi ha soltanto una penna. Noi apparteniamo disgraziatamente a questa categoria ma promettiamo di fare tutto quel che è possibile fare con una penna». (L'Indipendente, 11 ottobre 1860). | << | < | > | >> |Pagina 38E pure si muove! Diceva Galilei, nella sua prigione; e pur si muove, hanno detto durante centoventisei anni i Napoletani. Qui malgrado la loro prigionia intellettuale, la quale incatena il corpo e lo spirito, sentivano fremere sotto ai loro piedi il doppio movimento della loro terra.No! ciò che vi dico oggi non con la voce di dottore che predica, o di pedante che insegna, ma con quella di un amico dell'Italia, che non solamente non vorrebbe vederla inferiore, ma vorrebbe vederla superiore alle altre nazioni; quello che io vi dico, oggi che la tirannia è caduta, che voi ricuperate in una volta non solamente la vostra personalità come nazione, ma ancora il vostro posto di fraternità in mezzo agli altri popoli, è oggi che voi potete reclamare, operare, discutere. Ecco ciò che vi dico. Come edilità: l'incuria, la crudeltà, l'avarizia del vostro passato governo è la vera causa di ciò che vi manca; voi non avete delle passeggiate come le cascine di Firenze, come i parchi di Londra, come i campi elisi o il bosco di Bologna, in Parigi; voi non avete spiagge per lo imbarco e sbarco delle mercanzie, non avete un Boulevard, né fontane, né palazzo di città, né mezzi di comunicazione; voi non avete né cessi né Water Closet, né illuminazione, né sicurezza notturna, né regolamenti di polizia, né salubrità di paese in qualunque modo siasi. Come educazione, in grazie della paura dei vostri padroni che v'insegnarono appena a pensare, voi non avete nè scuole primarie gratuite complete, poichè vi manca l'organico, né scuole di sordomuti, né scuole forestiere, né agronomiche, né politecniche, né scuola di marina superiore al concorso, né scuola di ginnastica, né collegio pubblico militare, ma privilegiato per talune classi, come se certa gente solamente dovesse essere istruita, come se certa classe solamente avesse il diritto di comandare altrui. Come arti; perchè si temeva tanto per le arti, quanto per l'educazione, giacchè l'educazione ingrandisce lo spirito, l'arte eleva l'anima; come arti voi avete una scuola di pittura la quale è oggimai chiusa, nella quale si proibiva il nudo in natura. [...] Voi avete un conservatorio di musica presieduto da Mercadante, vale a dire uno dei primi maestri del mondo, ma che dopo venti anni, pel suo vizio di organizzazione, non ha dato alla luce neanche una sola composizione di merito. Voi avete delle miniere ma non si è accordato né privilegio né permesso per utilizzarle; voi avete delle vigne e non potete cavarne del buon vino, voi conoscete adesso che non avete delle stamperie nè macchine a vapore, né disegnatori, né incisioni in legno, perché i disegni e le incisioni sul legno rendono a buon mercato le pubblicazioni, e ciò perchè non vi si voleva far leggere, attesoché la lettura rimpiazza la educazione mancata, e che i despoti, io lo ripeto, quel che temono di più è la educazione. Come commercio, gl'intoppi frapposti alle vostre industrie ed alle vostre comunicazioni con gli altri popoli fanno che voi non avete in tutta la vostra strada Toledo, io non dico un bel magazzino, ma neanche un bell'esterno di magazzino. [...] Voi avete degli ospizii di poveri, ma le strade ne sono zeppe, perchè la miseria era un mezzo di abbrutimento usato dai padroni che per la grazia di Dio avete scacciati. Voi avete l'ospizio dei pazzi che rende interamente pazzo colui che vi entra con un principio di follia. Voi non avete ospizii di orfani, o finalmente se avete tutto ciò lo avete come il paralitico ha le sue gambe, val quanto dire come un imbarazzo e non come un mezzo di movimento. Voi avete un Museo nazionale, avete i capi d'opera che vi hanno miracolosamente conservato le ceneri di Pompei, la lava di Ercolano, e che nasconde ancora una quantità immensa di antichi tesori, ma dove non si scava. Voi avete dei vasi incomparabili ritrovati nelle tombe della Magna Grecia e che rivaleggiano con tutto ciò che gli Etruschi avevano di più bello, ma come museo straniero il vostro museo di pittura innanzi tutto è di una povertà deplorabile. [...] E notate bene che quando io faccio il conto di ciò che avete e di ciò che vi manca io volgo il mio discorso alla capitale, val quanto dire alla terza città d'Europa, alla città che prende posto immediatamente dopo Londra e Parigi, il cui centro è di cinquecento mila anime, là ove Iddio ha sparso tutti i suoi doni, là ove la provvidenza ha seminato a piene mani i benefici in mezzo ad un popolo attivo, educabile, intelligente e spiritoso, infine tra i figli di Grecia, tra i descendenti di Temistocle, di Pericle e di Alcibiade. Ma nella provincia che cosa avete di tutto quello che ha Napoli, la quale potrebbe tutto avere e che ha sì poco: NIENTE !!! Credete che ciò sia per fare un rimprovero a voi ed ai padri vostri che io dico tutto questo francamente? No, è un obbrobrio che io getto nella faccia a' vostri passati governi, che io metto sotto gli occhi dei vostri futuri ministri, è una petizione che presento alla nazione in favore della nazione stessa. Nos canimus surdis, noi cantiamo per i sordi, diceva Virgilio, ma io dico il contrario. Audientibus loquemur, noi parliamo per coloro che ci ascoltano. Voi siete addivenuti uomini liberi, voi siete i mastri dell'avvenire per essere la prima nazione del mondo, per brillare in mezzo dell'Italia, come Atene vostra avola brillava nel mezzo della Grecia, e come la Grecia brillava nel mezzo del mondo, voi non avete che una volontà. VOGLIATE! Aless. Dumas | << | < | > | >> |Pagina 45Una parola al lettore D'una sola città al mondo fu detto: Vedermi e morire. Napoli è quella. Imprendiamo a scrivere la storia archeologica, storica e pittoresca di Napoli e dei suoi contorni. Napoli occupa un gran posto, non dirò soltanto al sole di Dio, ma nei fasti del mondo, ed è non solo agli occhi ed ai sensi stupiti del viaggiatore il giardino dell'Europa, ma altresì, per lo storico, il poeta ed il filosofo, uno di quei centri radianti, intorno ai quali gravitano la civiltà, il progresso, la politica e l'arte. Napoli, fiore del paradiso, ebbe profumi di poesia e d'amore, che inebriarono la terra. Napoli, figlia del vulcano, ebbe scosse politiche onde traballò il mondo. Non solo è Napoli il paese più splendido d'Europa, ma la terra ancora più feconda dell'universo. Nella sua prodigalità vi adunò la natura i prodotti di tutti i climi. La cinse di quella fascia d'azzurro che si chiama il Mediterraneo; l'appoggiò a quel faro gigantesco che guida a lei le nazioni e si chiama il Vesuvio. Trasparente e profondo è il suo cielo; limpido e ceruleo il mare. In compenso d'un breve inverno ha un'eterna primavera, in cui maturano i frutti fra due stagioni di rose. Sulle chine dei suoi monti, sulle rive dei suoi fiumi scorrono, come nella favolosa Arcadia, il latte ed il vino, l'olio ed il miele. Talvolta passa, fermasi e canta fra i suoi alberi dell'equatore e le sue piante tropicali qualche uccello dalle piume di smeraldo, di topazio e di rubino ignoto all'India, e che sembra fuggito ai boschetti dell'Eden. Nel suo clima fortunato, nelle sue elisee campagne, cuore non v'è che non s'apra alla speranza, non c'è anima che dubiti di Dio. E da Gaeta a Reggio, da Catania a Palermo, le sue sponde cantate dai poeti, illustrate dai pittori, accolgono all'ombra dei palmizi ville ridenti, che sembrano scendere dalle colline per porgere ai viaggiatori il saluto antico ed amicale dell'ospitalità. Nella parte più ubertosa, nel luogo più pittoresco del suo impero benedetto appare Napoli, bella ninfa infingarda vagamente distesa sul golfo incantato. La crederesti una città d'Oriente, se l'Oriente avesse città degna d'essere comparata; ed, in effetti, Napoli è più che una città: è il sogno favorito delle nazioni, è la patria del sole, della musica e della poesia. Vi nacquero le Sirene, Tasso vi visse, Pergolesi v'è morto. | << | < | > | >> |Pagina 64Da Napoli a Cuma(seguito) Questa strada fu costruita, nel 1568, dal vicerè Parafan de Ribeira, che vi pose una doppia iscrizione al punto ove si biforca, distaccandosi dal sentiero che mena al lago d'Agnano, e continua ad avanzarsi verso Pozzuoli: Hinc Puteolos. L'altra, che era la strada antica, scendeva da Posillipo per Antignano, passava per Agnano, e salendo attraverso la Solfatara andava a confondersi alla via Campana, che conduceva a Capua ed a Roma: Hinc Romam. Ivi bisogna fermarsi, appressarsi al mare, e mandar l'occhio intorno. A sinistra, cioè ad Oriente, ergesi su una rupe tempestata di verdura l'isoletta di Nisida; quasi unita ancora oggi al lido da quel ponte antico, che aveva fatto dare a Lucullo il nome di Piccolo Serse. A destra, cioè a mezzodì, Pozzuoli ed i Campi Flegrei. Ad occidente, il monte Nuovo, mostruoso prodotto d'una notte di tremuoto, ed il bruno lago Averno, illustrato da Virgilio; Baia, dalle spiagge amorose temute da Properzio; Bauli, la parricida; i Campi Elisi ed il capo Miseno; da ultimo, dietro i Campi Elisi, disegnasi vagamente in lontananza, attraverso un'atmosfera vaporosa, una città che crederesti trasportata dall'Oriente in Campania. Procida è questa, celebre per le vezzose donne, dalle fattezze e dalle vesti greche. Infine completasi il quadro con l'Epomeo, che rizzasi lontano, come per ricordar quel terribile Tifeo, che, con la vista, incusse tale sgomento negli Dei che scamparono fino in Egitto. Percorreremo successivamente tutti i prefati punti storici; ma, perchè non avrem forse occasione di tornar a Nisida, occupiamoci di essa, prima di andar oltre. Nisida, piccola isola, come il nome stesso dinota, era anch'essa proprietà di Lucullo. Per maggior comodità l'aveva legata al continente per mezza d'un ponte, i cui ruderi ancora esistono. Abbiam già detto che quel ponte gettato sul mare gli aveva fatto dare il nome di Piccolo Serse. Quel ponte la univa alla sua villa di Posilipo, come un altro ponticello rilegava l'isola di Megara, cioè Castel dell'Ovo al monte Echia, cioè al Chiatamone. Una seconda fabbrica, in forma di scogliera, che s'avanzava in mare verso ponente, formava un porto tranquillo e sicuro. Lucullo, gran generale non solo, ma ancora uomo dei più dotti e più colti dei suoi tempi, fu il primo a lanciare in mare quei moli meravigliosi, che servirono poscia di modello ai porti di Pozzuoli e di Miseno. Velleio Patercolo dice, libro III, cap. III:
"Lucullo, grand'uomo per altro, introdusse in Roma il lusso
degli edifizi, dei banchetti e delle grandi riunioni; gettò moli in
mare, e forò montagne, per far venire il mare a lui".
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