Copertina
Autore Catherine Dunne
Titolo Tutto per amore
EdizioneGuanda, Parma, 2011, Narratori della fenice , pag. 362, cop.fle., dim. 14x22x3 cm , Isbn 978-88-6088-414-5
OriginaleMissing Julia [2010]
TraduttoreAda Arduini
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa irlandese
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Indice


Novembre 1999                             9

PRIMA PARTE  Dieci anni dopo             11

SECONDA PARTE                           233

TERZA PARTE  Settembre 2010             351


 

 

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Pagina 9

Novembre 1999



Le tre in punto. Un pomeriggio tetro, grigio acciaio. Un cielo con un piede ben piantato oltre la soglia dell'inverno.

«Sei pronta?» chiede Julia.

Lucy annuisce. «Sì, pronta.»

«Copriti bene.» Julia si avvolge una sciarpa al collo e si infila i guanti. «Mi sa che fa un gran freddo là fuori.»

Lucy alza il bavero e ficca le mani nelle tasche del cappotto. «Sono a posto. Andiamo.»

Julia fa per dirigersi verso la porta.

«Aspetta.»

Si gira e cerca lo sguardo di Lucy. «Cosa c'è?» Per un istante le compare sul viso un'espressione animata, piena di speranza.

«Sono felice che tu sia qui con me.»

Allunga una mano e sfiora il viso della ragazza. «Era quello che desideravo.»

Lucy annuisce. «Be', volevo che lo sapessi.»

«Sì. Adesso lo so.» Julia sta per dire qualcosa, ma poi si interrompe e sorride.

«Vai avanti tu; ti seguo.» Lucy indica l'uscita.

Julia si gira e si dirige verso le porte del terminal. Guarda dritto davanti a sé e cammina decisa.

Non si volterà indietro.

Uscite dal terminal degli arrivi, c'è un'auto che le aspetta. L'autista è basso, robusto, e ha un berretto di velluto a coste calcato sugli occhi. Nei guanti di montone scoloriti le mani sembrano tozze. Quando Julia e Lucy si avvicinano, l'uomo si scosta dallo sportello semiaperto, dietro il quale si è protetto dal freddo. «La signora Delaney?»

Lucy annuisce. «Sì. E questa è... mia sorella Julia. Seymour.»

Lui accenna un saluto toccandosi la falda del berretto. Gli occhiali rotondi lo fanno somigliare a un gufo. Julia non distingue bene gli occhi: le lenti riflettono il fiacco sole invernale creando un effetto sconcertante.

«Mi chiamo Bernard» dice lui con un sorriso. «Sono il vostro accompagnatore. Mia madre era una grande appassionata di teatro e mi ha voluto battezzare con il nome del vostro celebre Shaw.» Tende le mani a Julia. «La prego, lasci fare a me.»

Lei gli affida lo zaino.

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Pagina 11

PRIMA PARTE
Dieci anni dopo



Julia



Julia entra nella veranda e chiude la porta esterna, alzando la maniglia per bloccare la serratura. Il buio di quella sera d'ottobre è denso e pesante e lei è ben felice di lasciarselo alle spalle. Anche i lampioni non ce la fanno; sono circondati da un alone di nebbia granulosa e mandano una luce giallastra e malata. Armeggia con le chiavi per un minuto buono, poi perde la pazienza. «Oh, dai, su!» esclama quando alla fine riesce ad aprire la porta con il gomito, lasciando cadere alcuni sacchetti che le hanno segato le dita. Il contenuto si sparge sul pavimento dell'ingresso.

Scosta tutto con i piedi mentre scatta l'allarme: un suono aggressivo e acuto, che ti assale. Inserisce il codice premendo forte i tasti e poi accende tutte le luci di cui riesce a raggiungere gli interruttori. La veranda, l'ingresso, il pianerottolo superiore. Solo allora prende un respiro e chiude a chiave la porta. Non si è quasi resa conto di avere trattenuto il fiato: ultimamente le succede così spesso che ha smesso di farci caso.

Si china e spinge i sacchetti verso le scale, borbottando. «Altre cinque ore» dice. «Tieni duro, Julia. Non mollare. Ci sei quasi.» Posa il mazzo di chiavi sul tavolino a sinistra della ringhiera. Lì c'è sempre stato un piattino di smalto brillante, blu e verde smeraldo, che la riportava nelle profondità della memoria fino a un paesaggio marino dell'infanzia. Ha contenuto le chiavi per più di trent'anni, ma ora è imballato, avvolto con cura in un foglio di plastica fermato da una croce di nastro adesivo. Julia è ben decisa a far sì che non subisca danni. Sente l'eco dei suoi passi mentre percorre il corridoio diretta in cucina. La sua energia è già stata convogliata fuori di li, da quella casa solida e comoda in cui ha vissuto per più di trent'anni.

A metà strada apre la porta di uno studio. La scrivania è vuota, il portatile è già stato imballato. Ha lasciato quasi tutti i volumi sugli scaffali che ricoprono tre pareti. I suoi vecchi testi di medicina accanto a narrativa e poesia; il manuale di giardinaggio scompagnato, e i volumi illustrati pieni di fotografie patinate di opere d'arte e architettura, una passione parallela e recente. Ne intravede le sagome familiari nella luce che filtra dal corridoio. Alcuni di quei libri potrebbero interessare a Melissa o William, altri a entrambi. Julia, con una smorfia, immagina una scena improbabile: quei due che si contendono i titoli preferiti. Allunga una mano sulla destra e accende la lampada da tavolo. Il paralume di vetro diventa opalescente e la luce si riversa sul telefono. Julia si accorge che il minuscolo ovale rosso della segreteria telefonica sta lampeggiando. Si acciglia, per un attimo contempla la possibilità di non ascoltare, ma poi la curiosità ha il §opravvento. Preme il tasto «play».

«Mamma, sono io. Sono le nove di sera di lunedì?» Le parole di Melissa hanno la consueta sfumatura interrogativa, la solita enfasi venata di rimprovero. Sottintendono che Julia non dovrebbe essere fuori quando la sua unica figlia le telefona. È come se le dicesse: È tardi, troppo tardi perché tu sia ancora in giro. Dove sei, mamma? Il sottinteso sarebbe: Non ci sei mai quando ho bisogno di te. La voce di Melissa è quella di chi è già deluso, già stanco della vita. «Io e Derek siamo invitati fuori a cena, sabato sera» continua, «e Chloe, la baby-sitter, è malata. So che probabilmente avrai da fare con William, ma ho pensato di chiedertelo comunque. Se non avete programmi, potresti tenermi Jamie e Susie?» E poi, come dopo un ripensamento: «Mi faresti questo favore? Richiamami, quando senti il messaggio».

Julia rimane per un istante accanto alla scrivania. Riascolta la registrazione e scuote la testa al pensiero di tutte le recriminazioni presenti sotto la superficie delle parole di sua figlia. Poi cancella il messaggio, spegne la lampada e raggiunge la porta. In quel momento squilla il telefono e Julia trasale. Stasera quel suono sembra molto più acuto del solito. Julia fa un respiro profondo e resta immobile nel buio, una mano sullo stipite e l'altra alla base della gola, come se volesse difendersi da un aggressore. Combatti o scappa, pensa a un tratto, mentre sente l'adrenalina scorrerle nelle vene. Quella vampata, quel formicolio improvviso la surriscaldano e la testa inizia a pulsarle.

«Julia? Sono William. Prima ti ho cercato al cellulare, ma non rispondevi.» Caro Will, sempre così premuroso. «Adesso esco a bere una birra con Jack, ti chiamo domattina. Spero vada tutto bene. Riuscire a parlarti è un'impresa! Comunque, se hai bisogno di qualcosa fammi un fischio. Sai dove trovarmi.» E poi, dopo una breve pausa: «Ti amo».

Julia esita un istante, poi esce in corridoio. Sta per chiudersi la porta alle spalle, ma resta lì; i suoi lineamenti tradiscono indecisione. Si passa una mano tra i capelli e ancora una volta si rende conto di quanto siano diventati ribelli. Continua a dimenticarsi che li sta lasciando crescere e che non li taglia da mesi. Sa che questo cambiamento confonde William, sebbene lui non glielo faccia notare. Sa anche che fa arrabbiare Melissa, che invece glielo fa notare eccome. Ma Julia non ha intenzione di discutere. Scuote la testa. «Lascia perdere, devi lasciar perdere!» esclama a voce alta costringendosi a mollare la maniglia, come se fosse improvvisamente diventata bollente.

Va verso la stanza dove fanno colazione e spinge la porta con cautela. Dentro c'è Tinkerbelle, nella solita posizione. Il corpo bianco e nero, anziano ma robusto, è sdraiato sulla soglia in attesa del ritorno di Julia. Sembra un vecchio paraspifferi, ha detto una volta William, ridendo, e Julia trova che sia una definizione perfetta. Spinge ancora un po' la porta e sente la gatta che si muove e inizia a fare le fusa. Julia è sicura che sappia qualcosa: nelle ultime due settimane le è rimasta attaccata tutte le sere, con un'ombra d'ansia negli occhi verdastri.

«Dovrei cambiarti nome» dice, chinandosi per accarezzarla mentre inizia a strofinarsi contro le sue caviglie. «Appiccicata come una cozza, eh? Ti piace essere paragonata a un mollusco?» Poi entra in cucina e le riempie la ciotola d'acqua. Apre il frigo e Tinkerbelle rizza la coda. Tutto il suo pelo sembra sull'attenti. «Cos'abbiamo qui?» canticchia Julia, tirando fuori alcuni pacchettini avvolti nell'alluminio. «Non c'è molto, Tinky, perché questa è l'ultima sera, sai, piccolina? Questa è l'ultima sera.»

Mischia un po' di pollo arrosto avanzato con delle crocchette e ammorbidisce il tutto con del sugo freddo. Poi capovolge il bricco del sugo e lo fa vedere a Tinkerbelle. «Finito.» La gatta controlla, per sicurezza, e poi si distrae. È tutta agitata per la ciotola che Julia tiene in mano. Julia la deposita accanto alla porta che dà sul retro. «Buon appetito» dice, grattandole il piccolo osso tra i due triangoli vellutati delle orecchie. «L'ultima cena, TinkyWink. Dacci dentro.»

Julia si alza e si avvicina decisa alla porta. Indugiare lì non ha senso. Spegne la luce e torna in corridoio. Si china e raccoglie i sacchetti che ha abbandonato poco prima. Rimette velocemente dentro il contenuto, quasi senza guardare, poi sale le scale.

In camera tira le tende, cercando di chiudere fuori la notte. Sul letto ci sono un trolley di medie dimensioni, uno zaino e la custodia gonfia del portatile. Julia rovescia sulla trapunta il contenuto dei sacchetti. Sei t-shirt bianche e sei nere, due paia di pantaloni sportivi neri, due beige e due paia di jeans, due paia di scarpe sportive, biancheria, calzini e una crema solare protezione 50.

Piega gli abiti rapidamente e li infila nel trolley, sopra i maglioni, la borsa nera e cinque o sei libri. Chiude la cerniera e la ferma con il piccolo lucchetto a combinazione. Poi solleva la valigia, la porta sul pianerottolo e la lascia in cima alla scala. Rientra in camera e decide di provare a mettersi lo zaino in spalla, cercando di trovare un equilibrio e distribuire meglio il peso,

Mentre compie questi gesti, coglie un'immagine nel lungo specchio d'angolo. Si irrigidisce, e l'immagine fa altrettanto. Dapprima non si riconosce. Si rende conto di avere evitato il proprio riflesso per un bel po' di tempo. Vede una figura alta, molto alta per essere una donna: quasi un metro e ottanta, in jeans e maglione blu scuro. I capelli, una gran massa di onde grigie, le spiovono sulle spalle. Ha gli occhi azzurri, limpidi, un'espressione stupefatta su un viso che d'un tratto impallidisce... anzi, diventa quasi grigio, come i capelli. Julia non ha mai perso la figura slanciata: ha un corpo forte e nervoso, di quelli che non ingrassano mai. Dimostra molto meno dei suoi sessant'anni, e lo sa bene, ma ormai non le importa più.

Si libera dello zaino e lo posa sul pianerottolo vicino al trolley. Prende un pezzo di carta dalla tasca posteriore dei jeans e lo spiana con il palmo della mano. «Fatto» ripete più volte, facendo scorrere rapidamente l'indice lungo le voci di un elenco stampato. Alla fine accartoccia il foglietto e lo getta nel cestino vicino allo specchio. Poi, in un ripensamento improvviso, lo tira fuori e se lo rimette in tasca. Mentre si raddrizza coglie di nuovo la propria immagine nello specchio e si ferma un istante. Si guarda dritta negli occhi azzurri, limpidezza contro limpidezza, intensità contro intensità.

«Siamo sicure, vero, Julia?» dice. «Proprio sicure?» L'immagine annuisce e Julia torna diritta, spalle indietro, «Brava» dice. «Adesso datti da fare. Con impegno.»

Spalanca le ante dell'armadio. È vuoto, a parte tre capi avvolti in custodie di plastica sottili e trasparenti, gli scontrini della lavanderia ancora attaccati. Sono gli unici vestiti che Julia non è riuscita a dare in beneficenza. Il resto delle sue cose l'ha distribuito attentamente, cercando i negozi più lontani da casa, dal luogo dove è sempre vissuta. In quelle circostanze, era meglio che i suoi scarti non finissero in giro per il quartiere, come un rimprovero. Melissa avrebbe avuto da ridire, e rischiava di diventare un'offesa imperdonabile da parte di Julia.

I capi appesi nell'armadio non sono rimasti li nemmeno per un eccesso di sentimentalismo. Julia ne è più che certa. Non prova attaccamento per quei vestiti, solo non è riuscita a stabilire la cosa migliore, la cosa giusta da farsi. La sua incapacità di prendere una decisione su questioni così semplici la preoccupa e teme sia qualcosa di più profondo di quanto possa sembrare. Comunque, ormai è tardi. Probabilmente Melissa si arrabbierà moltissimo con lei per averli lasciati li; ma si arrabbierà con lei comunque. E di recente le aveva ripetuto per l'ennesima volta quanto le piacessero, quei vestiti, al punto che Julia aveva pensato che volesse farseli regalare. Aveva accarezzato quello di seta e osservato piena di desiderio il completo di cashmere. Sul viso le era comparsa un'espressione simile all'ammirazione, dietro la quale si erano affacciati risentimento e avidità, come gemelli. Julia poteva quasi sentirli piagnucolare.

Melissa non è riuscita a diventare ricca come avrebbe voluto. Julia lo sa, lo sente fin nelle ossa, e sa anche che la figlia pensa che la colpa sia sua. L'ennesimo fallimento. L'ennesima cosa che sua madre ha trascurato di insegnarle. Come accalappiare un marito ricco è un altro dei talenti che ha tenuto per sé. Julia sospira e fa scorrere gli abiti sull'asta. Be', se li vuole che se li prenda. Ormai non sa più cosa rende felice sua figlia, e forse non l'ha mai saputo. L'abito di seta froissée dorata, la giacca di paillette, il completo pantalone costosissimo che ha indossato al suo matrimonio: forse le farebbero piacere. Sicuramente le starebbero bene, Julia ne è certa. Sono alte uguali, hanno una corporatura simile, e Melissa ha sempre approvato il gusto di sua madre per l'abbigliamento. O almeno, ha sempre approvato il gusto che sua madre aveva per l'abbigliamento: adesso non più.

Le grucce rimaste oscillano piano, urtandosi con un lieve tintinnio metallico. Julia le saluta con un cenno del capo chiudendo l'armadio e accostando le ante con forza eccessiva. Stasera, l'ultima sera, non vuole che si spalanchino nel buio, ogni tanto è come se la chiusura perdesse la sua capacità magnetica. Quando capita, Julia si sveglia con il cuore che batte forte e non riesce più a riaddormentarsi.

Torna sul pianerottolo e va verso le altre due camere. Tutti gli armadi, ripostigli e comodini sono stati svuotati. Continua a sembrarle strano che l'assenza di alcuni effetti personali qua e là abbia immediatamente ridotto casa sua a un edificio qualsiasi. Nella grande e fredda camera degli ospiti, usata solo in caso di visite, c'era un set di antiche spazzole di tartaruga davanti allo specchio della toeletta. In cima al cassettone c'era da sempre un piccolo vaso Moorcroft, un dono non amato e regalato senza amore da una zia di Julia. E sugli scaffali della libreria e sul comodino erano state disseminate alcune foto scolorite. Non ha mai attribuito un particolare significato agli oggetti contenuti in quella camera, quindi la sorprende rendersi conto che la loro presenza, nel corso degli anni, deve avere insufflato nell'aria qualcosa di silenzioso e potente. Qualcosa che ora manca.

Julia sa di avere gradualmente preso le distanze dai suoi spazi, negli ultimi mesi. Tuttavia, l'improvvisa assenza di calore, di un senso di appartenenza in quei locali, la loro mancanza di personalità, la disturba più di quanto vorrebbe. Accosta rapidamente le porte e le chiude a chiave.

Scende di nuovo ed entra nella stanza che ha volutamente lasciato per ultima. Il soggiorno, punteggiato di divani, tavolini bassi, vecchie poltrone in cui si sprofonda. Anche il televisore nuovo, quello che William l'ha convinta a comprare. Era rimasto allibito di fronte alla sua ignoranza cinematografica e si era impegnato a colmare tutte le lacune. Le viene da sorridere, a ripensarci. Le sere trascorse insieme a Bette Davis, Humphrey Bogart e Katharine Hepburn: Julia si era divertita molto, molto di più di quanto fosse disposta ad ammettere con Will. Aveva adorato la sua serietà mentre le spiegava quanto quei film fossero fondamentali, in anticipo sui tempi.

Ha lasciato la stanza così com'era, com'è stata negli ultimi tre anni, da quando lei e Will sono insieme. È ancora vivo, questo soggiorno. Julia avverte la presenza di entrambi, riesce quasi a vedere il lungo profilo di William sul divano e la propria sagoma, più morbida, appoggiata alla sua. Davanti al divano c'è il brutto tavolino della madre di Richard: Julia non ha mai avuto il coraggio di buttarlo via. Sopra, la scacchiera aperta e pronta per la partita del mercoledì sera. La partita che non si giocherà mai. Julia spera che William capirà il messaggio che gli ha lasciato, spera che comprenderà che è il suo modo di preservare ciò che c'è stato – e c'è ancora – tra di loro. La cosa che desidera di più al mondo è aiutarlo a capire.

Si chiude la porta alle spalle, lasciando la stanza al suo silenzio e ai suoi fantasmi. Non ci rimetterà mai più piede.

Sale lentamente le scale. È l'ultima volta che calpesterà quei gradini. Dopo stasera, il viaggio sarà di sola andata.

Entra in camera sua e punta la sveglia del cellulare alle due del mattino. Si spoglia, ripiega accuratamente i vestiti, li appoggia sulla sedia, pronti per il giorno dopo. Poi scivola tra le lenzuola fredde e allunga una mano per spegnere la lampada sul comodino.

La stanza è silenziosa. Fuori, sente il vicino, Peadar, che fischia per chiamare il cane. «Su, bello» risuona nell'aria notturna. «Vieni, Oscar.» E poi: «Bravo» e lo scatto della porta sul retro che si chiude piano.

A un tratto, e più rapidamente del previsto, Julia viene travolta da una tremenda stanchezza. È felice di quell'agguato: sente le emozioni raccogliersi intorno a lei nel buio della camera e sospingerla verso la debolezza. Non ha intenzione di piangere. Non lo farà. Sospira e si gira sul fianco destro. Rivolta verso il futuro, come diceva sempre William.

Poi si addormenta.

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