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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione 33 Francesco Ricciardi — L'interrogatorio di Pulcinella, 35 41 Riccardo Cordiferro — Il pezzente, 45 — Giuseppina Terranova ovvero L'onore vendicato, 53 — Macabra, 70 — La festa del 20 settembre a New York, 70 — Il «polisso» italo-americano, 72 75 Eduardo Migliaccio — 'O spuorto 'e Mulberry Stritto, 79 — Iammo a Cunailando, 83 — 'O cafone c'a sciammeria, 85 — Pascale Passaguaie, 88 — L'impresario di pompe funebri (L'Ondertecco), 92 — 'O bloffo, 93 95 Tony (Carlo) Ferrazzano — La lengua 'taliana, 96 — Lu cafone che ragiona, 99 — Le donne a «Cunailando», 101 103 Giovanni De Rosalia — Nofrio al telefono, 107 117 Altre canzoni e macchiette di Little Italy — Rosina Trubia Gioiosa: Sta terra nun fa pi' mmia, 117 — Giuseppe De Laurentiis: So' nu bomme, 119 — Frank Amodio: 'A morte 'e Rodolfo Valentino, 121, 'O squarcione, 123 — Guglielmo Onofri: Muglierema luntana, 126, Se n'e' fuiuto 'o banchiere, 128 — Alfredo Bascetta: Lacreme 'e cundannate, 130 — Rocco De Russo: Where do you work-a, John?, 133 135 Armando Cennerazzo — Rapitori di Fanciulli, ovvero La Mano Nera, 137 144 Gino Calza — Tra prominenti, 145 — Si nun c'era mi' matre..., 145 147 Michele Pane — Lu calavrise 'ngrisatu, 150 156 Achille Almerini — La colonia di Dante, 157 161 Pasquale Seneca — Il «pichinicco», 163 167 V.A. Castellucci — Lo sbarco di Dante, 169 173 Vincenzo Campora — Spaghetti House, 174 175 Alfredo Borgianini — Er mejo gasse, 176 — A chi cià l'automobile, 176 178 Rodolfo Valentino You, 179 — A Baby's Skin, 180 — Dust to Dust, 180 — Italy, 180 — Money, 181 — Day Dreams, 181 182 Silvio Picchianti — Tribunali domestici, 184 187 Ario Fiamma — Foglie nel turbine, 189 199 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 9INTRODUZIONE«Mandolin players on clear nights filled the salt air with soulful strumming of old folk tunes...» Così, con questa immagine di quieta, toccante malinconia, un romanziere degli anni Trenta ritrae un gruppo di emigranti sul ponte del Conte Bertoldi, immaginario vapore transoceanico che li sta portando in America. Si potevano dare italiani senza musica? No, fin dai tempi del teatro d'opera dapontiano; e, se è per questo, anche da prima: la musica, e con essa il più vasto complesso delle arti rappresentative — dalla prestidigitazione alla pirotecnia, dall'equilibrismo alle varie altre arti circensi, dal teatro delle marionette agli esperimenti medianici — è per gli americani, fin dal XVIII secolo, qualcosa di strettamente associato al nome italiano. L'aveva scritto lo stesso Thomas Jefferson a un amico italiano non identificato: Se ho qualcosa da invidiare a un qualche popolo del mondo, questa cosa è la musica, e il popolo è il vostro. La musica è la passione preferita dalla mia anima, ma la sorte ha voluto che la mia stirpe fosse dislocata in un paese in cui essa versa in uno stato di deplorevole barbarie. L'inclinazione musicale degli italiani, testimoniata per secoli da schiere di illustri viaggiatori, era un elemento originario: era la stessa lingua, il suo suono, a rivelarla, e gli italiani parevano nati per cantare ballare suonare. Era un tratto del carattere, buono e cattivo al tempo stesso. Associato a elementi come la violenza e l'ignoranza, rinviava a un'idea di esasperata teatralità, di irriducibile indisciplina, indolenza, rumorosità. D'altra parte, era indizio di un'inveterata tendenza all'astrazione sentimentale che, per quanto da condannare rispetto a una visione concretamente moderna dell'esistenza, era pur sempre l'indice di un'antica civiltà, legata all'esperienza diretta della vita di ogni giorno: una maniera romantica di affrontarla, di coglierne la semplice bellezza.
A livello popolare, gli americani avrebbero fatto conoscenza dei cantastorie
e dei musicanti di strada italiani già prima della metà dell'Ottocento. Dopo i
liguri, dopo gli ambulanti dell'Appennino tosco-emiliano,
sarebbero giunti a New York e in tante altre città i famosi viggianesi,
provenienti appunto da Viggiano, da Corleto e da altri centri lucani, i quali
non di rado sarebbero poi riusciti a riscattare la propria immagine pauperistica
sia conseguendo posizioni sociali ed economiche di rilievo nei
più vari campi di attività, sia specializzandosi proprio nel campo musicale. Di
tale Vincenzo Abecco, viggianese, morto a Washington nel 1869
all'età di 67 anni, Giovanni Schiavo ha registrato il franco successo su vari
palcoscenici, e in particolare su quelli di San Francisco, dove diventò
assai popolare negli armi Sessanta la sua «serenade»
La Neapolitaine:
Schiavo ricorda, peraltro, che Abecco cantava anche un significativo Viva l'America, home of the free! Nel bagaglio degli emigranti che sbarcavano a New York c'erano spesso strumenti musicali; del resto, proprio la musica fornì a non pochi italiani, fin dal primo Ottocento (si pensi a Piero Maroncelli), opportunità di lavoro in America. Accanto all'infame traffico dei bambini musicanti negli anni Settanta-Ottanta dell'Ottocento; accanto all'immagine truce e oleografica insieme dell'ambulante italiano fornito di organetto di Barberia e scimmietta (un'immagine che, prima di trapiantarsi in America, aveva già fatto il giro d'Europa), gli ultimi anni del secolo e i primi del Novecento vedono l'emergere, in totale o semitotale autonomia rispetto alle tournée delle Patti e dei Caruso e degli altri grandi dell'opera lirica, di un professionismo «etnico» che, esportando modelli di intrattenimento popolare già ampiamente sperimentati in Italia, li trasforma in maniera originale nel nuovo contesto americano; rispondendo così a una precisa domanda delle nuove colonie, interessate a ricreare un'atmosfera il più possibile famigliare. Musica, dunque; e canzoni, canzoni per lo più napoletane, le più amate dalla stragrande maggioranza dei protagonisti senza nome dell'emigrazione di fine Ottocento. Ecco perché non quello di un vero teatro, ma quello più modesto di un caffè fu «il primo palcoscenico italiano a New York». Scriveva Giuseppe Cautela nel 1927: Trentacinque anni fa l'attore o cantante italiano che sbarcava su questo suolo con le sue grandi speranze di buona fortuna, si ritrovava confuso e smarrito finché, vagando nel quartiere italiano, non vedeva nell'insegna di un caffè un barlume di salvezza. Nella pigra atmosfera di quel luogo impregnato dell'odore di anisetta, di cognac e di caffè, trovava una sedia e, scarmigliato e affamato, meditava sul proprio destino. Non appena rivelava la sua professione, il proprietario, con le lacrime agli occhi, si disponeva ad ascoltare quei ricordi della vita teatrale in patria, e concordava poi con lui un'esibizione per i suoi clienti. Così i primi immigrati italiani incominciarono a sentire le canzoni della madrepatria in America. Il caffè, corrispondendo ai medesimi bisogni sociali cui per secoli aveva corrisposto in Italia, era l'unico luogo in cui si potesse trovare un pubblico. All'inizio degli anni Novanta un locale di New York situato in Mulberry Street, dalla parte di Canal, e chiamato Villa Vittorio Emanuele, fu tra i primi a dotarsi d'uno spazio stabile per gli artisti, i quali, racconta Cautela, non ricevevano compenso dal proprietario, ma, a esibizione ultimata, si arrangiavano con le offerte del pubblico (poco più tardi questo sistema fu corretto con l'istituzione di una modesta tariffa per gli avventori). La paga per l'attore e/o cantante rimaneva comunque bassa – «sette-otto dollari a settimana – e la si poteva arrotondare un poco con le offerte lanciate sul palco alla richiesta del bis. Secondo Cautela, ogni sera, all'ingresso del Villa Vittorio Emanuele, si formava una folla. A quelle dell'intrattenimento spettacolare si sommavano ragioni più generali e «sociali»: in un periodo di emigrazione per lo più ancora pendolare, era proprio lì, nel caffè, che si potevano trovare gli altri connazionali, coloro che avrebbero potuto risolvere i vari problemi del nuovo venuto. [...] La «macchietta» è un tipico prodotto del teatro partenopeo, che proprio in quel periodo trovava in Nicola Maldacea, Berardo Cantalamessa, Pasquale Villani e altri i suoi più celebrati interpreti sulla vecchia sponda dell'Atlantico. Era uno spettacolo «totale», di canto, recitazione, pantomima, trasformismo, che non a caso sarebbe stato tra gli archetipi del teatro sintetico futurista. In buona sostanza, ogni singola macchietta era dedicata a un personaggio emblematico, a un «tipo» da commedia, il quale la impersonava cantandone i versi e recitando, nella parte centrale, un monologo più o meno lungo nel quale era praticamente illimitata la possibilità di andare a soggetto secondo le esigenze e l'atmosfera dell'occasione. L'interprete doveva essere travestito secondo le caratteristiche del personaggio, e siccome nel corso della serata avrebbe dovuto interpretare più macchiette, gli erano richieste notevoli doti di rapidità e versatilità. Al cadere del secolo, Migliaccio non fu soltanto il più bravo tra i macchiettisti, ma anche il primo a scegliere di non limitarsi a replicare il repertorio dei maestri di Napoli, inventando bensì, spesso in stretta collaborazione con TONY FERRAZZANO, il nuovo genere delle «macchiette coloniali», che ritraevano il mondo intorno a lui, e che, per essergli fedeli, dovevano adeguarsi al suo inaudito linguaggio. [...] È dunque soprattutto nell'ambito comico-macchiettistico che trova un apprezzabile esito letterario lo slang italoamericano, lo strumento più efficace, oltre che il più credibile, per rappresentare un piccolo mondo bizzarro, e registrarne gli umori, i colori, i suoni in un modo che anticipa i successivi trattamenti del linguaggio sperimentati da molti scrittori di seconda generazione, in particolare D'Agostino, Mangione, Di Donato. Questa del linguaggio è questione fondamentale nella definizione di un'originale linea espressiva italoamericana, nell'individuazione, potremmo dire, di un primo e più caratteristico prodotto letterario elaborato dall'interno della colonia. Più che tentare un'esatta cronologia del fenomeno, si dovrà parlare di una fioritura spontanea e diffusa, benché sia fuori di dubbio che Italy di Giovanni Pascoli è il primo caso in cui un poeta — e che poeta — mostra interesse per le possibilità espressive di questo nuovo, curioso ibrido linguistico. I Primi poemetti, che da Italy sono per l'appunto chiusi, vengono pubblicati nel 1897. A quel giro d'anni risalgono altre testimonianze che ci indicano come l'italoamericano fosse un «dialetto» ormai consolidato, soprattutto (ma non esclusivamente) nelle aree metropolitane della costa orientale. Al tema dedica non poche pagine del suo Un italiano in America Adolfo Rossi, allorché, offrendo «un saggio autentico di dialogo fra due contadini delle provincie meridionali che partono dai Cinque Punti e s'avviano alla stazione Grand Centrai Depot», mette loro in bocca alcune tipiche espressioni: carro (da car) per «vagone», nipò (da depot) per «stazione», terza venuta per Third Avenue, siti colle per City Hall, cecca da chek (sic) per «biglietto», tronco (da trunk) per «baule», e così via, con qualche probabile, compiaciuta esagerazione (Giacomo Squea per Chatam Square, Morbida stretta per Mulberry Street, Cosimo stretto per Crosby Street ecc.). Anche Giuseppe Giacosa ha orecchio per quella lingua che avrebbe in seguito formato l'argomento per i più coloriti capitoli di diversi viaggiatori in America, italiani ma non solo, se si considera che Rémy de Gourmont, nel 1899, ne riconobbe il valore estetico oltre che pratico. [...] Non è qui il caso di soffermarsi su morfologia e sintassi della lingua italoamericana. Ciò che piuttosto vale la pena sottolineare è il suo indubbio carattere di codice comunicativo fortemente connotato e connotante: una lingua zerga nata in qualche modo per necessità, per consentire a contadini illetterati provenienti da regioni diverse di ritrovarsi su una base linguistica comunque nazionale — tale dunque da garantire una piena comunicazione all'interno dell'eterogeneo mondo coloniale italiano — ma fornita di risorse lessicali atte a far fronte alla nuova realtà, profondamente diversa da quella che essi si erano lasciati alle spalle. Antonio Marinoni raccontava di essersi imbattuto sul vapore che, probabilmente nel 1900, lo portava in America, in un barbiere italoamericano, «don Giovà», il quale si esprimeva appunto in un curioso misto di americano e napoletano: — Voi dicite in italiano Va bene: 'mbe', in inglese voi dicite dazzorai. E l'ortografia di questa parola? Via: il modo di scrivere in inglese dazzorai?
E che ne saccio io? — mi rispose colui francamente. — L'inglese io
lo parlo, ma non lo scrivo.
Ma la prova più concreta di questa finalità pratica è data non tanto dai brandelli di conversazione, autentici o virtuali, presentati dagli scrittori (particolarmente dal Rossi), quanto dai documenti «scritti» — annunci pubblicitari, fogli volanti, manifesti, giornali — che efficacemente esprimono la necessità per la popolazione coloniale di avere un rapporto immediato con la realtà americana, di non rinominarne, quindi, gli oggetti o gli istituti, bensì di conservarli nell'originale inglese, riportandoli, semplicemente, a un più famigliare livello di pronuncia. Anthony Turano, uno scrittore di seconda generazione, ricordava di essere stato consultato per risolvere il caso, assai significativo, del testamento manoscritto (in un italiano piuttosto scorretto) di un ex minatore residente nel Nevada in cui venivano usate le parole nota e morgico, che nessun notaio era riuscito a decifrare. A Turano non ci volle molto per capire che morgico (variante morgheggio) stava per mortgage, cioè «ipoteca»; e che quella nota altro non era che l'equivalente di note, ossia «cambiale». Non è difficile immaginare che «ipoteca» e «cambiale» non dovevano essere termini famigliari per il testante, il quale aveva sì fatto fortuna in America, ma è probabile che in Italia non si fosse mai trovato alle prese con simili procedure. In effetti, il grosso del vocabolario italoamericano è costituito proprio da termini che non hanno un equivalente italiano o dialettale, oppure designano oggetti, concetti, usi, istituti ignoti in Italia. [...] | << | < | > | >> |Pagina 41[...]
LA FESTA DEL 20 SETTEMBRE A NEW YORK
| << | < | > | >> |Pagina 85'O CAFONE C'ASCIAMMERIA I Me piace questa terra americana, perché qua siamo tutte quante eguale e il presidente m'hadda da' la mano, a me come la da' al frato carnale. Mo che saccio ll'America, nun tengo cchiù crianza, ammarcio col principio, nisciuno è meglio 'e me. Si tu si nnato principe, o tu si scenziato, io tengo la sciammeria e songo 'o stesso 'e n'ato. Dezze bicos Franci', mi laiche dis contrì. II A lu paese mio pe fa ll'ammore, t'he 'a mettere il cortiello nella sacca. O lu pate o lu frate per l'annore, la ponta de lu naso te ll'ammacca. Ma qua ll'ammore è orraite, overamente è bello, il padre penza 'e dollare, il frate penza 'e ghelle. Perciò la strada è libera, aperte so' li porte. La chiamme: Come daune, t"a pigli e te la puorte. Dezze bicos Franci', mi laiche dis contrì. III Si tu te nzure dalli parte poste, passe li guai e nun nce fai cchiù niente. Quell'è e quell'è cumpa', caro te costa, o fosse orraite o fosse malamente. Ma qua dentro all'America, si nun te pare bbona, scasse lu matremmonio e te la vai a cagna'. Dice: misto no laiche, fai na carta mbollata, e quello lesto il sinneco, te ne prepara n'ata. Dezze bicos Franci', mi laiche dis contrì. IV Io sento sempre di' che un taliano, scoprì sta terra qua ma nun è overo. Cristofano fu il primo crestiano che la pigliò. Fu il primo passaggiero. Ma si ho parlato proprio, c"uno c"o ssape e dice, che un tale 'e coppa il bronchese trovò sta terra qua, te pare che in America ca sanno il bisinisso quelli po' ti facevano scopri' sta terra a isso?... Dezze bicos Franci', mi laiche dis contrì. V E la stagione vai a Cunailando... Lu paraviso... Quante belli ccose. Il lupo il lupo... Dentro il drimilando li vvide cierti ccose curiose... Li specchie te ncuieteno, mannaggia e che resate, li scale che t'abballano, la rota fa accussì. Che mbruoglie. Uommene e femmene. chi allucca, chi te votta, s'abbracciano, se vasano 'o scuro sotto 'a grotta. Dezze bicos Franci', mi laiche dis contrì. | << | < | > | >> |Pagina 133WHERE DO YOU WORK-A, JOHN? — Hello Johnny! — How you do Mary? — Comme staje Johnny? — Very fine Mary! — Do you work, Johnny? — Sure, I got a nice job now, Mary! — That's good! — Where do you work-a, John? — 'Int'a la station 'e Lackawanne. — Che faje, ne' mammalucco? — Mi pusce, mi pusce lu trucco. — Pur'io mo' tengo già la giobba de puscià. — Si tutt'e duje pusciammo pezze assaje nce guadagnammo. Pusciammo pusciammo pusciammo pusciammo, po' doppo spusammo. Oh oh oh... — Mary? — Johnny? — Tu saje puscià? — Gnorsì. — Ma nu pusce lu trucche like me! — Where you work, Mary? — In the telephone company. — E che ffaje là dinto Mary? — I push, I push pur'i'. — Tu pusce e che pusce Marì? — Che ciuccio, l'avisse 'a capì. — Bella, dillo a Giuvanne tu che faje là 'ncoppo puscianno puscianno puscianno puscianno puscianno, dillo a Giuvanne. Oh oh oh... – Mary, tell me: uoriu pusce? – I push the plug, Johnny! – Who learned you that, Mary? – A night colleague in the telephone company! – Quanto so' mammalucco, you pusce lu plagghe and I pusce lu trucche. – Now, do you work, John? – E tu pure mo' staje faticanno. – Pecché nun ce spusammo, – Po' tutt'e duje pusciammo. – Johnny, you like me? – Oh yes, sweet Mary. – I work 'nzieme a Johnny – 'Int'a la station de Lackawanne. Puscianno puscianno puscianno puscianno Lu paparascianno. Oh oh oh... – Oh, wait a minute Mary! – What's the matter, John, you want to marry me? – Oh yes sweet Mary, but you know, I ain't got no monì. – That's nothing Johnny! – Bella mia che t'aggia dì? Si sorde 'un ce ne stanno Te cunzule abbracciata a Giuvanne. Puscianno puscianno puscianno puscianno, lu paparascianno. | << | < | > | >> |Pagina 137RAPITORI DI FANCIULLI, OVVERO LA MANO NERA Una stanza sotterranea semibuia. Poche sedie appena usabili. Un piccolo tavolo rozzo con lume a petrolio acceso. Fogli di carta bianca per lettere, alcune buste, un calamaio, una penna. Due pugnali infissi ai due angoli opposti del tavolo. In fondo alla scena, a destra dello spettatore per terra, un giaciglio di paglia; alle pareti qualche immagine di Madonna e di Santi. Uscio a sinistra. In fondo nel mezzo comune con scalinata che conduce alla strada. SCENA I Luigi, seduto al tavolo e intento a scrivere. Marco in piedi, lo guarda, fumando alla rozza pipa. Voci interne di Pasquale e di Annie. Annie (gemente sotto le percosse) No... no... per carità, voi mi uccidete!... Pasquale (cinico, alternando parole e busse) Taci, santo diavolone!... o ti strappo la lingua, ti strappo!... Marco (avvicinandosi all'uscio) Aoh! Come finì, là dentro!... Ah!... a lei dico, mastro Pasquale; la lasciasse sgolare da sola e se ne venisse qua fuori, con noi... Annie (come sopra prima che Marco abbia finito) Che male, che male v'ho fatto io?!... Pasquale (come sopra) A me?... Niente... E non io te ne faccio. È quel vigliacco avaro di tuo padre, che t'ha così poco a cuore! (s'ode uno schiaffo) Mandasse i piccioli, mandasse! (un gemito strozzato di Annie) Segue un silenzio. Luigi straccia un foglio e ne comincia a scrivere un altro; Marco gli si accosta. Luigi Figlia d'un cane! Con quelle grida m'ha rotta la testa. Marco E che ci vuoi fare?... Se la scanni, ci perdi i piccioli che deve mandare il padre per riscattarla. Luigi (sempre scrivendo) Ma se i piccioli non vengono?! Marco (scattando) Non vengono!... Chiacchiere sono, come dice mastro Pasquale!... Verranno i piccioli, verranno, te lo dico io!... Luigi (come sopra) Intanto, il «Telegrafo» di stamattina... Marco (subito) Che dice il «Telegrafo» ah!... Luigi (come sopra) Dice che la polizia ha saputo, che ssò... sta per sapere... insomma è probabile che sappia già... Marco (interrompendolo) Che cosa?!... Luigi (cava il «Telegrafo» di tasca e glie lo porge) Toh! leggilo te stesso. Marco (impadronendosi del giornale, lo scorre rapidamente con gli occhi, poi chiama verso l'uscio) Venisse qua mastro Pasquale, un momento; interessa anche a lei. Pasquale (comparendo) Che c'è?... Marco (sedendo) Sentisse ciò che dice il «Telegrafo» di stamattina. Pasquale (avvicinandosi) E che può dire?!... Chiacchiere sono... Luigi (ingommando la lettera) No, no, non pare tanto che si tratti di chiacchiere questa volta. Pasquale E leggesse allora. Marco (depone la pipa sul tavolo e comincia a leggere ad alta voce) La ragazza decenne, Annie Del Gaudio, non ancora ritrovata! – Vittima della Mano Nera?... La polizia è certa che la scomparsa della ragazza Annie Del Gaudio, figlia adorata d'un ricco importatore di Brooklyn, avvenuta [sic] circa sei mesi or sono, in circostanze del tutto misteriose, come i nostri lettori ricorderanno, sia da attribuirsi alla solita, impunita audacia di quella tenebrosa setta di malviventi, nota col nome di Mano Nera. Infatti, nonostante le reticenze del signor Del Gaudio, le attive indagini di alcuni poliziotti della squadra italiana hanno portato alla scoperta della terribile verità, ed è reso noto che la detta ragazza scomparve di casa, in seguito a tre lettere di ricatto ricevute dal padre, le cui richieste non sortirono l'effetto desiderato. Ciò nonostante, il signor Del Gaudio seguita a restar chiuso in un mutismo impenetrabile, per paura che non gli capiti peggio. (a questo punto Annie comparisce sull'uscio, e non vista rimane ad ascoltare, ritraendosi ad ogni movimento dei suoi custodi) Ma la polizia, anche senza l'ausilio della parte più interessata, è già sulla buona traccia e non tarderà a porre le mani sulla canaglia che detiene la povera ragazza, e che gitta fasci di luce equivoca sul nome rispettabilissimo degli Italiani in America. Iddio non voglia che delusi nell'aspettativa del danaro, quei manigoldi assassini non si macchino del sangue della tenera Annie. Annie (colpita dalle ultime parole, scappa verso la comune, emettendo un urlo di terrore, lungo, straziante) Ah! Madonna... Pasquale (con un balzo le è addosso, e le serra la bocca con la mano. Momen- to di silenzio pauroso. Nessuno si muove) | << | < | > | >> |Pagina 157LA COLONIA DI DANTE I Tengo lo storo in basso di città e quando vuoi puoi farmi il telefòno: viemmi a trovare, ogni momento è buono: mattina e sera il business mi tien là. Distante? Eh! Cento blocchi, non canzono: ma la distanza a te che te ne fà? Dont chèr, con tutte le comodità di tutti i treni e i carri che ci sono. Non è un gran trubel; basta che tu provi; alla terza Avenù c'è l'oliveta: prendi il treno e discendi in Aussonstritto, fai quattro blocchi a destra e vedi scritto fra l'andetèca ed il rialestèta: «Qui si parla italiano» e lì mi trovi. II Vedi all'Italia, se anche ci hai moneta, magari non ti stimano per niente: sono paesi piccoli e la gente sa le faccende tue dall'A alla Zeta. Qui, più ci hai morgheg sul rialestèta più isi tu diventi prominente, e più isi ti fanno presidente le società, più sei analfabeta. Con l'amicizia poi d'un pezzo grosso, politiscia, bartenda od avvocato da Mister so end so diventi un bosso; poi ti fanno il banchetto, tal e quale come da noi lo fanno al deputato, e ti mettono in coppa del giornale. III Ma sciùa che prende tempo, e te l'ho scritto (è meglio certe cose dirle prima): non credere che sceso dalla stima trovi le pezze in mezzo dello stritto. Non aver fretta d'arrivare in cima: chi troppo corre non cammina ritto, nel bisniss si comincia zitto, zitto, dal poco e miete solo chi concima. L'America non è come al paese: non esser stingi, perché guarda male, ma se puoi cerca di salvar moneta. Eniuè, lascia che te lo ripeta, perché questa è la cosa più essenziale: prima di tutto imparati l'inglese. IV Difficile? Non tanto quanto credi; sei giovane e fai presto ad imparare: 0llrait, detsòll, sciaràp, go hom, gherare! (a un seccatore che ti vien fra i piedi). E quando non ti puoi capacitare tu chiedi: Uazz de matter? se mai vedi una guagliona ci si dice: ledi: e dà del mistar fino al tuo compare! Ma imparati l'inglese, perché se domandi la tua strada in italiano a un sciainatore o a quel del fruttistendo, quello, sia piemontese o siciliano, per far veder che ne sa più di te, sai che risponde?: ai du not andestendo. V Vedi un po' gli altri: i germanesi, i scini (ma sì, i giuda!) se san l'americano: tu contentati d'essere italiano ma spicca come spiccano i vicini. Neviorca l'ha scoperta Verrazzano! d'accordo: già lo sanno anche i bambini; per cui se senti mai gridarti ghini! non ci far caso, è un lofar o un villano. Non cercare di farlo persuaso! È inutile! Finisce che quel là ti fa un blecch'ài o ti fracassa il naso. E tieni a mente! quando si fa il fait chi le busca ci ha torto e chi le dà è uno smart fello end evritingsollrait. VI Ormai è una leggenda vecchia e sciapa che noi qui siamo un branco di straccioni: gli airisc, si sa, che son loro i padroni, ci soffian dentro per l'amor del Papa. A quelli che ci togli dalla capa che a Roma c'è i briganti coi tromboni. Bisogna compatirli... son coloni anche loro e han le sue teste di rapa! Che ce n'importa? Ne abbiam fatte tante per affermare l'italianità e mò facciamo il monumento a Dante! Me lo saluta lei? direbbe Oronzo ma in colonia, nun te ne incaricà! Se l'ideale è cip, più cip è il bronzo. | << | < | > | >> |Pagina 180The earth is earth - and that is its worth To men who walk below But to the soul that seeks its goal Each land is all they know. One calls it Home, another Heart, another Prosperity But to the one who loves the Sun He calls it Italy. Money - you Harlequin of the great masquerade of life You wear the dollar sign as your mask It may hide you - yes, for a time, But when at last grim reality stalks into the midst of the festivities, The mask is ruthlessly torn away and then - is seen The true expression behind it - the cruel visage of discordant greed. Yesterday - in contemplation We dreamed of love to be And in the dreaming, Wove a tapestry of Love. Today - We dream our dream awake Realization Coloring our Romance With all the glory of a flaming rose. Tomorrow - What awakening lies before us Our tapestry In shreds perchance Or mellowed - glorified By love's reflection? I wonder - | << | < | |