Copertina
Autore Friedrich Dürrenmatt
Titolo Giustizia
EdizioneMarcos y Marcos, Milano, 2005, Gli alianti 120 , pag. 216, cop.fle., dim. 130x205x15 mm , Isbn 978-88-7168-427-7
OriginaleJustiz
EdizioneDiogenes, Zürich, 1987
TraduttoreGiovanna Agabio
LettoreGiorgia Pezzali, 2005
Classe narrativa svizzera
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Pagina 13

Certo, scrivo questa relazione per amore dell'ordine, per una certa pedanteria, perché venga messa agli atti. Voglio costringermi a esaminare ancora una volta i fatti che hanno portato all'assoluzione di un assassino e alla morte di un innocente. Voglio riflettere ancora sui passi che sono stato indotto a fare, sulle misure che ho preso, sulle possibilità che sono state trascurate. Ancora una volta voglio sondare scrupolosamente le probabilità che forse restano alla giustizia. Ma questa relazione la stendo soprattutto perché ho tempo, molto tempo, almeno due mesi. Sono appena tornato dall'aeroporto (i bar dove poi sono andato non contano, anche il mio stato attuale non ha importanza. Sono ubriaco fradicio, ma domani sarò di nuovo sobrio). Il gigantesco apparecchio diretto in Australia con a bordo il dottore honoris causa Isaak Kohler si è sollevato nel cielo notturno, ruggendo, mugghiando, mentre io mi precipitavo fuori dalla mia Volkswagen, dopo aver tolto la sicura alla rivoltella. Telefonarmi ancora è stato uno dei suoi capolavori, probabilmente il vecchio conosceva le mie intenzioni; che non ho i soldi per seguirlo, lo sanno tutti.

Quindi non mi resta altro che aspettare il suo ritorno un giorno o l'altro, in giugno forse, o in luglio, aspettare, ubriacarmi ogni tanto o più spesso, a seconda delle finanze, e scrivere, unica attività ancora confacente a un avvocato caduto così in basso. In una cosa, però, il consigliere cantonale s'illude: il tempo non sanerà il suo crimine, la mia attesa non lo diminuirà, la mia ubriachezza non lo estinguerà, ciò che scrivo non lo giustificherà. Mentre espongo la verità me la imprimo nella mente, acquisto la capacità, un giorno o l'altro, in giugno, come ho detto, o in luglio o comunque quando lui ritornerà (e ritornerà), di fare in piena consapevolezza, sia da ubriaco che da sobrio, quel che fino a oggi volevo fare soltanto in stato di eccitazione. Questa relazione non è solo la giustificazione, bensì anche la preparazione di un assassinio. Di un assassinio giusto.

Di nuovo sobrio nel mio studio: ormai si può ristabilire ciò che è giusto soltanto con un delitto. Che subito dopo mi debba suicidare, è inevitabile. Con questo non intendo sottrarmi alla responsabilità, al contrario, solo in tal modo la mia condotta si può giustificare, se non sotto il profilo giuridico, senz'altro sotto il profilo umano. In possesso della verità, non posso dimostrarla. Per il momento decisivo mi mancano i testimoni. Con il mio suicidio sarà più facile credermi, anche senza testimoni. Mi avvio alla morte non come uno scienziato, che per amore della scienza giustizia se stesso in un esperimento, muoio perché analizzo il mio caso fino alle estreme conseguenze.


Luogo del delitto: il Du Théàtre con la sua facciata rococò, è uno dei pochi edifici illustri della nostra città costruita in modo irrimediabilmente sbagliato. Il ristorante è su tre piani, ma non tutti lo sanno, i più ne conoscono soltanto due. Durante le lunghe mattine – nella nostra città tutti si svegliano presto – al piano terra si possono trovare studenti assonnati, ma anche uomini d'affari che spesso rimangono per il mezzogiorno, e in seguito, dopo il caffè e il bicchierino di Kirsch, l'atmosfera diventa tranquilla, le cameriere si eclissano, e soltanto verso le quattro si fermano insegnanti sfiniti, prendono posto impiegati stanchi. La gente che conta naturalmente arriva per la cena e anche più tardi, dopo le dieci e mezza, politici, manager, finanzieri, oltre a esponenti delle professioni libere e liberissime, ma anche stranieri un po' smarriti, la nostra città ci tiene a darsi un tono internazionale. Allora al primo piano tutto comincia a puzzare di eleganza. L'espressione è appropriata: nei due locali dal soffitto basso, tappezzati di rosso, regna una calura tropicale, tuttavia si resiste, le signore in abito da sera, i signori spesso in smoking. L'aria è impregnata di sudore, di profumo e, quel che più conta, dell'odore delle specialità culinarie della nostra città, come lo spezzatino di vitello con rösti ecc. Qui ci si incontra (in fondo sono le stesse persone del piano terra, solo che indossano abiti di gala) dopo le prime e dopo gli affari importanti non per concludere trattative, bensì per festeggiare le trattative concluse. Sopra, al secondo piano, il carattere del Du Théàtre cambia ancora. Si avverte con stupore un tocco di sregolatezza. La disinvoltura è di casa. Le stanze sono alte e luminose, più simili a quelle di un ristorante a buon mercato, comuni sedie di legno, tovaglie a quadri sui tavoli, dappertutto sottobicchieri per la birra, accanto alla scala un cabaret semivuoto con prestigiatori mediocri e uno spogliarello ancor più mediocre, in sala si gioca a carte e a biliardo. Qui siedono i commercianti di frutta e verdura della nostra città, gli imprenditori edili e i proprietari di grandi magazzini, i garagisti e gli specialisti in lavori di demolizione; spesso per ore, le puntate sono altissime, pazzesche, attorno a loro si radunano i curiosi, tipi strani e ambigui, ma anche qualche prostituta in attesa, tre, quattro, sempre allo stesso tavolo vicino alla finestra, più che tollerate, fanno parte dell'arredamento e sono a buon mercato. Relativamente. La gente davvero ricca bada agli spiccioli.

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Il nostro penitenziario: con la macchina si può raggiungere in venti minuti circa. La valle è piatta, il villaggio di tipo suburbano, noioso, molto calcestruzzo, qualche fabbrica, foreste all'orizzonte. Tra l'altro non si può dire che ogni abitante della nostra citta conosca il nostro penitenziario, le quattrocento persone che esso ospita rappresentano poco più dell'un per mille della popolazione. L'istituto dovrebbe però essere noto ai gitanti della domenica, anche se molti di loro probabilmente lo scambiano piuttosto per una birreria o un manicomio. Tuttavia, quando si è superato il portone dell'ingresso con le guardie e ci si trova di fronte alla costruzione principale, la si potrebbe anche credere una chiesa o una cappella di mattoni rossi di stravagante architettura. Questa vaga impressione religiosa persiste anche davanti alla portineria: volti amichevoli, miti come quelli dell'esercito della salvezza, ovunque un devoto silenzio, benefico per i nervi, viene spontaneo lo sbadiglio nella fresca semioscurità, la giustizia, anche se forse è un po' oppressa, ha assunto i suoi tratti sonnolenti, e non c'è da meravigliarsi, considerando gli occhi perennemente bendati della signora. Vi sono anche altri indizi di carità e di cura delle anime, sbuca fuori un prete con la barba, solerte e instancabile, poi il parroco dell'istituto, quindi una psicologa con occhiali, si avverte l'intento di salvare, di rinvigorire, di rinfrancare le anime, soltanto dal fondo di quel corridoio decisamente desolato si avverte un mondo più minaccioso, ma la porta a vetri munita di inferriata non lascia vedere molto al di là, anche i due uomini in civile, che stanno in attesa rispettosi e cupi su una panca davanti all'ufficio del direttore, risvegliano una lieve diffidenza, un vago malessere. Quando poi si apre la porta a vetri, si oltrepassa la soglia fatale, si penetra all'interno, sia che si tratti di un membro di commissione un po' confuso oppure di un prigioniero inviato dalla giustizia, ci si trova con stupore dinnanzi a un regno di tipo patriarcale, con un regolamento molto severo ma non inumano, cioè davanti a tre impressionanti gallerie a cinque piani, che da un certo punto si possono abbracciare con lo sguardo, niente affatto buie, anzi inondate di luce dall'alto, un mondo fatto di gabbie e di inferriate, certo, ma non privo di cordialità e non del tutto impersonale: dalla porta semiaperta di una cella si scorgono qui un soffitto dipinto d'azzurro e il verde tenero di una pianta in vaso, là persone cordiali e allegre con indosso la divisa marrone dell'istituto; le condizioni di salute dei residenti sono ottime, la vita monastica, regolare, la luce spenta presto, il cibo semplice operano veri e propri miracoli. La biblioteca poi oltre a descrizioni di viaggio e a biografie, oltre a storie edificanti delle due confessioni, offre, se non le ultime novità, comunque i classici, mentre la direzione offre dal canto suo una rappresentazione cinematografica una volta la settimana, questa è la volta di Noi bambini prodigio; la frequenza alla predica supera notevolmente quella al di là del muro, la vita si svolge con ritmo lento e regolare, si è tenuti e mantenuti con moderazione, si prendono i voti, la buona condotta è elogiata, contribuisce a far diminuire la pena, naturalmente soltanto per coloro che hanno dieci o anche solo pochi anni da scontare, in questo caso conviene essere educati. Quando invece non c'è niente da fare, come nel caso dei condannati a vita, si concedono agevolazioni senza l'obbligo al miglioramento: dopotutto costoro rappresentano l'orgoglio della casa, come per esempio Drossel e Zärtlich, i quali, quando imperversavano, erano il terrore della cittadinanza, e ora sono trattati dai carcerieri con rispettosa considerazione, sono i prigionieri più importanti e si sentono tali. Bisogna anche dire che nei criminali più comuni talvolta subentra l'invidia e qualcuno si propone, se dio vuole, di andare più a fondo la prossima volta; anche la medaglia che il nostro penitenziario merita ha il suo rovescio, ma in complesso ognuno lì diventa virtuoso; personalita rovinate, che hanno perso cariche e impieghi, ricominciano a sperare, assassini si dedicano all'antroposofia, chi fornicava e praticava l'incesto adesso coltiva aspirazioni spirituali. S'incollano sacchetti, s'intrecciano cesti, si rilegano libri, si stampano brossure, nella sartoria si fanno confezionare abiti su misura persino i consiglieri del governo; inoltre si diffonde per l'edificio un caldo profumo di pane, la panetteria è famosa, i suoi panini con salsicce mirabili (le salsicce sono fornite dall'esterno), se si è solerti e cortesi ci si può meritare pappagalli, piccioni, apparecchi radio, per l'istruzione superiore ci sono le scuole serali, e non senza invidia può balenare l'idea, si può capire d'un tratto, che questo è il mondo che funziona, non il nostro.

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La posizione della villa: per un avvocato di umili origini, o per meglio dire, del tutto privo di origini, che aveva appena deciso di arrischiare il salto mortale (citazione di Friedli) nella vita più comoda, il percorso dalla Porsche di Lienhard alla porta di casa del dottor honoris causa Isaak Kohler era stimolante, attraversava un parco. Già la natura esalava ricchezza. La vegetazione era in pieno splendore. Gli alberi lungo la via erano maestosi, ancora nella loro veste estiva. Non si avvertiva neppure il föhn, anche su questo dovevano aver stipulato accordi con certe istanze, i ricchi possono molto. (Per i forestieri: nella nostra città si definisce föhn una condizione atmosferica che provoca cefalee, suicidi, adulteri, incidenti stradali e atti di violenza.) Si passava per una strada coperta di ghiaia rastrellata e sarchiata con cura. Comunque non era un parco moderno. Piuttosto progettato secondo il vecchio stile, curato. Siepi e arbusti potati ad arte. Statue ricoperte di muschio. Divinità nude e barbute con deretani e polpacci giovanili. Stagni silenti. Una coppia di pavoni sussiegosi. Inoltre il parco era situato nel centro della città, un solo metro quadrato di quel terreno doveva raggiungere cifre astronomiche. Tutt'attorno sferragliavano i tram, rombavano le macchine, il traffico imperversava come un oceano contro le rispettabili inferriate in ferro battuto dalle punte dorate, si scatenava con squilli e colpi di clacson, tuttavia nel parco di Kohler c'era silenzio. Probabilmente le onde acustiche avevano il divieto di oltrepassare la cancellata. Soltanto qualche uccello si faceva sentire.

La casa: in realtà un tempo era stata orribile, dal punto di vista architettonico una sentina di vizi, il pensatore occidentale l'aveva progettata da sé. Come sia poi riuscito il consigliere cantonale a ricavarne qualcosa di confortevole, di umano, è uno dei suoi segreti. Evidentemente furono distrutti un mucchio di cupole, torri, bovindi, putti e bestiacce dello zodiaco (Nikodemus Molch praticava anche l'astrologia), sino a che da quel guazzabuglio si liberò una villa circondata da viti, edera, caprifoglio e rose, a dire il vero sempre munita di timpani, ma infinitamente più gradevole, grande e spaziosa, e tale si presentava anche all'interno, quando vi entrai dopo aver gettato un ultimo sguardo alla Porsche, ormai visibile soltanto come una macchia rossa. Gli architetti avevano operato con abilità, avevano eliminato pareti, inserito paraventi ecc., tutto era comodo ed elegante. Mobili antichi, tutti pezzi preziosi, alle pareti impressionisti famosi, più avanti maestri olandesi (una cameriera mi faceva da guida). Nello studio del consigliere cantonale dovetti aspettare. L'ambiente era spazioso, indorato dal sole. La porta a due battenti era aperta e dava sul parco, le due finestre ai lati della porta arrivavano quasi fino a terra. Parquet pregiato, un enorme scrittoio, basse poltrone di pelle, alle pareti niente quadri, solo libri fino al soffitto, unicamente opere di matematica e di scienze naturali, una biblioteca considerevole, che contrastava in modo davvero singolare con il biliardo, situato in un'ampia rientranza. Sul piano verde c'erano ancora tre palle, alla parete della rientranza una collezione di stecche. Molti pezzi antichi con iscrizioni. Una stecca che era stata di Honoré de Balzac, una di Gottfried Keller, un'altra del generale Dufour, una di Bismarck, persino una presumibilmente appartenuta a Napoleone. Mi guardai attorno con un lieve imbarazzo. Ovunque si avvertiva la presenza del vecchio dottor honoris causa, era come se in qualsiasi momento lui potesse entrare dal parco, come se sentissi la sua risata e il suo sguardo attento mi sfiorasse.

La visione: allora accadde qualcosa di strano, in realtà qualcosa di spettrale. D'un tratto capii il consigliere cantonale. Inaspettatamente. La comprensione mi colse di sorpresa. All'improvviso indovinai il motivo del suo comportamento. Lo avvertii dai mobili costosi, dai libri, dal tavolo da biliardo. Lo percepii dal legame tra la logica più rigorosa e il gioco, che aveva segnato quell'ambiente. Ero penetrato nella sua tana, e ora vedevo chiaro. Kohler non aveva ucciso perché era un giocatore. Non era un giocatore d'azzardo. Non lo attirava la puntata. Lo attiravano il gioco in sé, il percorso delle palle, il calcolo e l'esecuzione, le possibilità della partita. La fortuna per lui non significava nulla (per questo poteva considerarsi estremamente fortunato, non fingeva neppure). Era soltanto fiero del fatto che fosse in suo potere scegliere le condizioni del gioco, seguire lo sviluppo di una necessità che aveva creato lui stesso – in questo consisteva il suo senso dell'umorismo.

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Schönbächler era un uomo sensibile. Il suo aspetto non rivelava nulla di particolare, al contrario, agli estranei sembrava il cittadino modello in persona. Si vestiva con cura, aveva un profumo gradevole e non era mai ubriaco, in genere era in ottimi rapporti col mondo. Quanto alla sua nazionalità, si definiva cittadino del Liechtenstein. Non che significasse un granché, soleva poi spiegare, lo ammetteva, ma almeno non c'era da vergognarsi: rispetto all'attuale situazione del mondo il Liechtenstein era relativamente innocente, a parte il fatto che stampava troppi francobolli e le sue perdonabili trasgressioni venivano ignorate; era lo stato più piccolo che se la cavava egregiamente. Inoltre un cittadino del Liechtenstein non si lasciava sedurre tanto facilmente dalla megalomania di attribuirsi un particolare valore solo per il fatto di essere cittadino del Liechtenstein, come accadeva per esempio agli americani, ai russi, ai tedeschi, oppure ai francesi, i quali ritenevano a priori che un tedesco o un francese fosse già di per sé un essere superiore. Appartenere a una grande potenza – e per un cittadino del Liechtenstein quasi tutti gli altri stati non potevano che essere grandi potenze, persino la Svizzera – causava alle persone in questione un notevole svantaggio psicologico, e cioè il pericolo di esser vittima di una certa stupidità nei rapporti con gli altri. Questo pericolo aumentava a seconda della grandezza di una nazione. Schönbächler soleva spiegare questo concetto con l'esempio dei topi: un topo che si trova solo si considera ancora soltanto un topo, ma non appena si trova insieme a milioni di topi si considera un gatto, e quando è insieme a cento milioni di topi si considera un elefante. Ma i più pericolosi di tutti sono senz'altro i cinquanta milioni di popoli di topi (cinquanta milioni come ordine di grandezza). Costoro sarebbero topi, che per quanto si ritengano gatti, aspirano a essere elefanti. Questo eccesso di megalomania è pericoloso non soltanto per i topi in questione, ma anche per tutto il mondo dei topi. Tuttavia chiamava il rapporto tra il "numero di topi" e la megalomania da esso provocata "legge di Schönbächler". Quanto alla professione, dichiarava di fare lo scrittore. La cosa poteva stupire, in quanto non aveva mai pubblicato né scritto nulla. Lui non lo negava. Si limitava a definirsi uno "scrittore potenziale". Non era mai imbarazzato quando doveva spiegare che non scriveva. All'occasione affermava che l'attività di scrittore cominciava con il "piacere dei nomi", questa era la sua condizione poetica primaria, a cui si aggiungeva la sua condizione morale, non meno importante, fondata sull'amore per la verità. Ora, considerando queste due condizioni fondamentali, era evidente che un titolo per esempio come Poesie di Raul Schönbächler diventava impossibile già solo per il concetto che questa lirica doveva scorrere via gorgogliando come un bel ruscelletto. Certo, si poteva obiettare che in tal caso bisognava cambiare il nome "Schönbächler" ma allora si entrava in conflitto con il principio dell'amore per la verità. Quando arrivava Schönbächler c'era da divertirsi. Era un buon diavolo, che dava da vivere a molti ristoranti. Faceva prendere nota delle consumazioni, ogni mese gli mandavano il conto e la somma doveva essere notevole. Delle sue entrate si sapeva poco. Le sue affermazioni a proposito di una congrua borsa di studio da parte dello stato del Liechtenstein non potevano certo essere vere. Alcuni sostenevano che fosse il rappresentante generale di certi articoli di gomma. Né si poteva trascurare il fatto che sapeva molte cose e aveva un'acuta capacità di giudizio, sempre ben motivata. (Forse il suo non scrivere non era soltanto una forma di pigrizia come sembrava, forse c'era dietro la convinzione che, contrariamente ai molti che producevano, fosse meglio non produrre affatto.)

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