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| << | < | > | >> |Indicel. Baudolino inizia a scrivere 5 2. Baudolino incontra Niceta Coniate 17 3. Baudolino spiega a Niceta cosa scriveva da piccolo 33 4. Baudolino parla con l'imperatore e s'innamora dell'imperatrice 47 5. Baudolino dà saggi consigli a Federico 56 6. Baudolino va a Parigi 68 7. Baudolino fa scrivere lettere d'amore a Beatrice e poesie al Poeta 83 8. Baudolino nel Paradiso Terrestre 90 9. Baudolino rampogna l'imperatore e seduce l'imperatrice 106 10. Baudolino trova i Re Magi e canonizza Carlo Magno 114 1l. Baudolino costruisce un palazzo al Prete Giovanni 127 12. Baudolino scrive la lettera del Prete Giovanni 139 13. Baudolino vede nascere una nuova città 152 14. Baudolino salva Alessandria con la vacca di suo padre 175 15. Baudolino alla battaglia di Legnano 203 16. Baudolino è ingannato da Zosimo 212 17. Baudolino scopre che il Prete Giovanni scrive a troppa gente 226 18. Baudolino e Colandrina 235 19. Baudolino cambia nome alla sua città 240 20. Baudolino ritrova Zosimo 247 21. Baudolino e le dolcezze di Bisanzio 261 22. Baudolino perde il padre e trova il Gradale 272 23. Baudolino alla terza crociata 283 24. Baudolino nel castello di Ardzrouni 296 25. Baudolino vede morire Federico due volte312 26. Baudolino e il viaggio dei Magi 330 27. Baudolino nelle tenebre di Abcasia 348 28. Baudolino attraversa il Sambatyon 362 29. Baudolino arriva a Pndapetzim 369 30. Baudolino incontra il Diacono Giovanni 384 31. Baudolino attende di partire verso il regno del Prete Giovanni 399 32. Baudolino vede una dama con un unicorno 415 33. Baudolino incontra Ipazia 424 34. Baudolino scopre il vero amore 443 35. Baudolino contro gli unni bianchi 452 36. Baudolino e gli uccelli roq 462 37. Baudolino arricchisce i tesori di Bisanzio 474 38. Baudolino alla resa dei conti 490 39. Baudolino stilita 510 40. Baudolino non c'è più 525 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Ratispone Anno /Dommini/ Domini mense decembri mclv kronica Baudolini cognomento de Aulario io Baudolino di Galiaudo de li Aulari con na testa ke somilia un lione alleluja sieno rese Gratie al siniore ke mi perdoni /a yo face/ habeo facto il rubamento più grande de la mia vita cio è o preso da uno scrinio del vescovo Oto molti folii ke forse sono cose de la /kaneel/ cancelleria imperiale et li o gratati quasi tutti meno ke dove non veniva via et adesso o tanto Pergamino per schriverci quel ke volio cioè la mia chronica anca se non la so scrivere in latino se poi scoprono che li folii non ci sono più ki sa ke cafarnaum viene fuori et pensano ke magari è una Spia dei vescovi romani ke voliono male all'imperatore federico ma forse non li importa a nessuno in chancelleria schrivono tutto anca quando non serve et ki li trova [questi folii] /si li infila nel büs del kü/ non se ne fa negott ncipit prologus de duabus civitatibus historiae AD mcxliii conscript saepe multumque volvendo mecum de rerum temporalium motu ancipitq qveste sono linea ke i era prima et non o potuto gratarle bene ke devo saltarle | << | < | > | >> |Pagina 20Ormai, in quella mattina del mercoledì 14 di aprile dell'anno del Signore 1204, ovvero seimilasettecentododici dall'inizio del mondo, come si usava calcolare a Bisanzio, da due giorni i barbari si erano definitivamente impossessati di Costantinopoli. L'esercito bizantino così scintillante di armature e di scudi e di elmi quando era in parata, e la guardia imperiale dei mercenari inglesi e danesi, armati delle loro terribili bipenni, che ancora il venerdì avevano tenuto testa ai nemici battendosi con ardimento, avevano ceduto il lunedì quando i nemici avevano infine violato le mura. Era stata una vittoria così improvvisa che i vincitori stessi si erano arrestati timorosi, verso sera, attendendosi una riscossa, e per tenere lontani i difensori, avevano appiccato il nuovo incendio. Ma la mattina del martedì tutta la città si era accorta che, nottetempo, l'usurpatore Alessio Ducas Murtzuflo era fuggito nell'entroterra. I cittadini, ora orfani e sconfitti, avevano maledetto quel ladro di troni che avevano celebrato sino alla sera prima, così come l'avevano blandito quando aveva strangolato il suo predecessore, e non sapendo che cosa fare (pavidi, pavidi, pavidi, che vergogna, lamentava Niceta di fronte all'onta di quella resa) si erano riuniti in un gran corteo, con il patriarca e preti d'ogni razza in tenuta rituale, i monaci che blateravano pietà, pronti a vendersi ai nuovi potenti come s'erano sempre venduti agli antichi, le croci e le immagini di Nostro Signore levate in alto almeno quanto le loro grida e lamenti, e si erano fatti incontro ai conquistatori sperando di ammansirli.Che follia sperare pietà da quei barbari, che non avevano bisogno che il nemico si arrendesse per fare quello che sognavano da mesi, distruggere la città più ampia, più popolosa, più ricca, più nobile del mondo, e dividersene le spoglie. L'immenso corteo dei piangenti si trovava di fronte a miscredenti dal cipiglio irato, dalla spada ancora rossa di sangue, dai cavalli scalpitanti. Come se il corteo non fosse mai esistito, si era dato inizio al saccheggio. O Cristo Signore, quali furono allora le angustie e le tribolazioni nostre! Ma come e perché il fragore del mare, l'offuscamento o la totale oscurità del sole, il rosso alone della luna, i moti delle stelle non ci avevano presagito quell'ultima sventura? Così piangeva Niceta, la sera del martedi, muovendo passi smarriti in quella che era stata la capitale degli ultimi romani, da un lato cercando di evitare le orde degli infedeli, dall'altro trovandosi la via sbarrata da sempre nuovi focolai d'incendio, disperato di non poter prendere la via di casa e timoroso che frattanto alcune di quelle canaglie non minacciassero la sua famiglia. | << | < | > | >> |Pagina 23Così in quell'istante Niceta si vide morto, pianse la famiglia che l'aveva perduto, e chiese a Dio Onnipotente perdono per i suoi peccati. E fu in quel momento che in Santa Sofia entrò Baudolino.Apparve bello come un Saladino, su un cavallo ingualdrappato, una gran croce rossa sul petto, la spada sguainata, urlando "ventrediddio, madonnalupa, mortediddio, schifosi bestemmiatori, maiali simoniaci, è questo il modo di trattare le cose di nostrosignore?" e via a piattonare tutti quei blasfemi crocesignati come lui, con la differenza che lui non era ubriaco bensì furibondo. E arrivato alla baldracca stravaccata sul seggio patriarcale, si era chinato, l'aveva presa per i capelli e la stava trascinando nello sterco dei muli, gridandole cose orribili della madre che l'aveva generata. Ma intorno a lui tutti coloro che egli credeva di punire erano cosi ebbri, o così intenti a togliere pietre da ogni materia che le incastonasse, che non si accorgevano di quello che stava facendo. Facendolo, arrivò di fronte ai due giganti che stavano per torturare Niceta, guardò il misero che implorava pietà, lasciò le chiome della cortigiana, che cadde a terra ormai storpiata, e disse in ottimo greco: "Per tutti e dodici i Re Magi, ma tu sei il signor Niceta, ministro del basileo! Che cosa posso fare per te?" "Fratello in Cristo chiunque tu sia," aveva gridato Niceta, "liberami da questi barbari latini che mi vogliono morto, salva il mio corpo e salverai la tua anima!" Di questo scambio di vocalizzi orientali i due pellegrini latini non avevano capito gran che e ne domandavano ragione a Baudolino che pareva dei loro, esprimendosi in provenzale. E in ottimo provenzale Baudolino aveva gridato che quell'uomo era prigioniero del conte Baldovino delle Fiandre, per ordine del quale lo stava appunto cercando, e per arcana imperii che due miserabili sergenti come loro non avrebbero mai capito. I due restarono basiti un istante, poi decisero che a discutere perdevano tempo, mentre potevano cercare altri tesori senza sforzo, e si allontanarono verso l'altar maggiore. Niceta non si chinò a baciare i piedi del suo salvatore, anche perché era già a terra, ma era troppo sconvolto per comportarsi con la dignità che il suo rango avrebbe richiesto: "O mio buon signore, grazie per il tuo aiuto, non tutti i latini sono dunque belve scatenate dal volto stravolto dall'odio. Non fecero così neppure i saraceni quando riconquistarono Gerusalemme, quando il Saladino si accontentò di poche monete per lasciar andar salvi gli abitanti! Quale vergogna per tutta la cristianità, fratelli contro fratelli armati, pellegrini che dovevano andare a riconquistare il Santo Sepolcro e che si sono fatti arrestare dalla cupidigia e dall'invidia, e distruggono l'impero romano! O Costantinopoli, Costantinopoli, madre delle chiese, principessa della religione, guida delle perfette opinioni, nutrice di tutte le scienze, riposo di ogni bellezza, dunque hai bevuto dalla mano di Dio il calice del furore, e ti sei abbruciata di un fuoco ben più grande di quello che arse la Pentapoli! Quali invidiosi e implacabili demoni sparsero su di te l'intemperanza della loro ebrietudine, quali folli e odiosi Proci t'hanno accesa la torcia nuziale? O madre già vestita dell'oro e della porpora imperiale, ora sozza e macilenta e orbata dei tuoi figli, come uccelli imprigionati in una gabbia non troviamo la via di lasciare questa città che era nostra, né la tempra per restarvi, ma involti in molti errori come stelle vaganti ci aggiriamo!" "Signor Niceta," aveva detto Baudolino, "mi avevano detto che voi greci parlate troppo e di tutto, ma non credevo sino a questo punto. Adesso come adesso la questione è come portare il culo via di qua. Io posso metterti in salvo nel quartiere dei genovesi, ma tu mi devi suggerire il cammino più rapido e sicuro per il Neorion, perché questa croce che ho sul petto protegge me ma non te: qui intorno la gente ha perso il lume dell'intelletto, se mi vedono con un greco prigioniero pensano che valga qualcosa, e me lo portano via." | << | < | > | >> |Pagina 63"Valeva la pena," si diceva Baudolino, "di fare tanto i prepotenti coi lodigiani, e poi calare così le brache? Vale la pena di vivere in queste terre, dove tutti sembrano avere fatto voto di suicidio, e gli uni aiutano gli altri ad ammazzarsi? Voglio andarmene via." In realtà voleva anche allontanarsi da Beatrice, perché finalmente aveva letto da qualche parte che talora la lontananza può guarire dalla malattia d'amore (e non aveva ancora letto altri libri dove al contrario si diceva che è proprio la lontananza a soffiare sul fuoco della passione). Così era andato da Federico per ricordargli il consiglio di Ottone e farsi mandare a Parigi.Aveva trovato l'imperatore triste e iroso, che andava avanti e indietro per la sua stanza, mentre in un angolo Rainaldo di Dassel attendeva che si calmasse. Federico a un certo punto si era fermato, aveva guardato negli occhi Baudolino e gli aveva detto: "Tu mi sei testimone, ragazzo, io mi sto affannando a porre sotto una sola legge le città d'Italia, ma ogni volta debbo ricominciare da capo. Forse è sbagliata la mia legge? Chi mi dice che la mia legge sia giusta?" E Baudolino, quasi senza pensarci: "Signore, se incominci a ragionare così non la finisci più, e invece l'imperatore esiste proprio per questo, lui non è imperatore perché gli vengono le idee giuste, ma le idee sono giuste perché vengono a lui, e basta." Federico l'aveva guardato, poi aveva detto a Rainaldo: "Questo ragazzo dice le cose meglio di voi tutti! Se queste parole fossero solo volte in buon latino, apparirebbero mirabili!" "Quod principi plaquit legis habet vigorem, ciò che piace al principe ha vigore di legge," disse Rainaldo di Dassel. "Si, suona molto saggio, e definitivo. Ma bisognerebbe che fosse scritta nel Vangelo, altrimenti come persuadere tutti ad accettare questa bellissima idea?" | << | < | > | >> |Pagina 98[...] Ed era stato così che quella sera, Abdul ormai quasi libero dall'effetto del miele, Baudolino leggermente inebriato, si erano rimessi a discutere del Prete, ponendosi appunto la questione della sua esistenza. E poiché pareva che la virtù del miele verde fosse quella di rendere tangibile ciò che non si è mai visto, ecco che avevano deciso per l'esistenza del Prete.Esiste, aveva determinato Baudolino, perché non ci sono ragioni che si oppongano alla sua esistenza. Esiste, aveva convenuto Abdul, perché aveva sentito dire da un chierico che al di là del paese dei medi e dei persiani, ci sono re cristiani che combattono coi pagani di quelle regioni. "Chi è questo chierico?" aveva chiesto Baudolino fremente. "Borone," aveva risposto Abdul. Ed ecco che il giorno dopo si erano messi alla ricerca di Borone. Costui era un chierico di Montbéliard che, vagante come i suoi consimili, era ora a Parigi (e frequentava la biblioteca di San Vittore) e domani sarebbe stato chissà dove, perché pareva inseguire un suo progetto di cui non raccontava mai a nessuno. Aveva una gran testa di capelli arruffati, e gli occhi rossi dal gran leggere a lume di lucerna, ma pareva proprio un'arca di scienza. Li aveva affascinati al primo incontro, naturalmente in una taverna, ponendo loro sottili quesiti su cui i loro maestri avrebbero speso giorni e giorni di dispute: se lo sperma possa congelarsi, se una prostituta possa concepire, se il sudore del capo sia più puzzolente di quello delle altre membra, se le orecchie arrossiscano quando ci si vergogna, se un uomo si addolori più per la morte che per il matrimonio dell'amante, se i nobili debbano avere le orecchie pendenti, o se i pazzi peggiorino durante il plenilunio. La questione che più l'intrigava era quella dell'esistenza del vuoto, su cui si giudicava più sapiente di qualsiasi altro filosofo. "Il vuoto," diceva Borone, già con la bocca impastata, "non esiste perché la natura ne ha orrore. Che non esista è evidente per ragioni filosofiche, perché se esistesse o sarebbe sostanza o accidente. Sostanza materiale non è, perché altrimenti sarebbe corpo e occuperebbe spazio, e non è sostanza incorporea perché altrimenti, come gli angeli, sarebbe intelligente. Non è accidente perché gli accidenti esistono solo come attributi di sostanze. In secondo luogo il vuoto non esiste per ragioni fisiche: prendi un vaso cilindrico... " "Ma perché," l'interrompeva Baudolino, "ti interessa tanto dimostrare che il vuoto non esiste? Che cosa ne importa a te del vuoto?" "Importa, importa. Perché il vuoto può essere o interstiziale, e cioè tra corpo e corpo nel nostro mondo sublunare, oppure esteso, al di là dell'universo che vediamo, chiuso dalla grande sfera dei corpi celesti. Se così fosse potrebbero esistere, in quel vuoto, altri mondi. Ma se si dimostra che non esiste il vuoto interstiziale, a maggior ragione non potrà esistere quello esteso." "Ma che cosa ne importa a te se esistono altri mondi?" "Importa, importa. Perché se esistessero, Nostro Signore avrebbe dovuto sacrificarsi in ciascuno di essi e in ciascuno consacrare il pane e il vino. E quindi l'oggetto supremo, che è testimonianza e vestigio di quel miracolo, non sarebbe unico, ma vi sarebbero tante copie di esso. E che valore avrebbe la mia vita se non sapessi che da qualche parte c'è un oggetto supremo da ritrovare?" "E quale sarebbe questo oggetto supremo?" Qui Borone tirava a tagliar corto: "Affari miei," diceva, "faccende che non sono buone per le orecchie dei profani. Ma parliamo di un'altra cosa: se ci fossero tanti mondi ci sarebbero stati tanti primi uomini, tanti Adami e tante Eve che hanno compiuto infinite volte il peccato originale. E quindi ci sarebbero tanti Paradisi Terrestri da cui sono stati cacciati. Potete pensare che di una cosa sublime come il Paradiso Terrestre ne possano esistere tanti, come esistono tante città con un fiume e con una collina come quella di Santa Genoveffa? Di Paradiso Terrestre ne esiste uno solo, in una terra remota, al di là del regno dei medi e dei persiani." | << | < | > | >> |Pagina 104"Ecco signor Niceta," disse Baudolino, "quando non ero preda delle tentazioni di questo mondo, dedicavo le notti a immaginare altri mondi. Un poco con l'aiuto del vino, e un poco con quello del miele verde. Non c'è nulla di meglio che immaginare altri mondi," disse, "per dimenticare quanto sia doloroso quello in cui viviamo. Almeno cosi pensavo allora. Non avevo ancora capito che, ad immaginare altri mondi, si finisce per cambiare anche questo.""Cerchiamo per ora di vivere serenamente in questo, che la divina volontà ha assegnato," disse Niceta. "Ecco che i nostri impareggiabili genovesi ci hanno preparato alcune delizie della nostra cucina. Assaggia questa zuppa di diverse varietà di pesce, di mare e di fiume. Forse avete del buon pesce anche nei vostri paesi, benché immagino che il vostro freddo intenso non li lasci crescere rigogliosi come nella Propontide. Noi condiamo la zuppa con cipolle saltate nell'olio d'oliva, finocchio, altre erbe, e due bicchieri di vino secco. La versi su queste fette di pane, e puoi metterci dell'avgolemono, che è questa salsa di torli d'uovo e succo di limone, temperata in un nonnulla di brodo. Credo che nel Paradiso Terrestre Adamo ed Eva mangiassero così. Ma prima del peccato originale. Dopo forse si sono rassegnati a mangiare trippa, come a Parigi." | << | < | > | >> |Pagina 114Baudolino era arrivato davanti a Milano quando ormai i milanesi non reggevano più, anche a causa delle loro discordie interne. Alla fine avevano mandato ambascerie per concordare la resa, e le condizioni erano ancora quelle stabilite dalla dieta di Roncaglia, come dire che quattro anni dopo, e con tanti morti e devastazioni, era ancora come quattro anni prima. O meglio, era stata una resa ancor più vergognosa di quella precedente. Federico avrebbe voluto concedere di nuovo il suo perdono, ma Rainaldo soffiava sul fuoco. spietato. Bisognava dare una lezione che tutti ricordassero, e bisognava dare soddisfazione alle città che si erano battute con l'imperatore, non per amor suo ma per odio verso Milano. "Baudolino," disse l'imperatore al suo figlioccio, "questa volta non prendertela con me. Certe volte anche un imperatore deve fare quel che vogliono i suoi consiglieri." E aveva aggiunto sottovoce: "A me quel Rainaldo fa più paura dei milanesi." Cosi aveva ordinato che Milano venisse cancellata dalla faccia della terra, e aveva fatto uscire dalla città tutte le persone, uomini e donne. I campi intorno alla città pullulavano ora di milanesi che si aggiravano senza meta, alcuni si erano rifugiati nelle città vicine, altri rimanevano accampati davanti alle mura sperando che l'imperatore li perdonasse e gli permettesse di rientrare. Pioveva, i profughi tremavano di freddo durante la notte, i bambini si ammalavano, le donne piangevano, gli uomini stavano ormai disarmati, accasciati lungo il ciglio delle strade, levando i pugni al cielo, ché era più conveniente maledire l'Onnipotente che l'imperatore, perché l'imperatore aveva i suoi uomini che giravano intorno e chiedevano ragione dei lamenti troppo violenti. Federico aveva dapprima tentato di annientare la città ribelle incendiandola, poi aveva pensato che era meglio lasciare la cosa nelle mani degli italiani, che odiavano Milano più di lui. Aveva assegnato ai lodigiani il compito di distruggere tutta la porta orientale, che era detta porta Renza, ai cremonesí quello di diroccare porta Romana, ai pavesi di far si che di porta Ticinese non rimanesse pietra su pietra, ai novaresi di radere al suolo porta Vercellina, ai comaschi di far sparire porta Comacina, e a quelli del Seprio e della Martesana di far di porta Nuova una sola rovina. Compito che era molto piaciuto ai cittadini di quelle città, che anzi avevano pagato all'imperatore molto denaro per poter godere del privilegio di regolare di propria mano i loro conti con Milano sconfitta. Il giorno dopo l'inizio delle demolizioni, Baudolino si era avventurato entro la cinta muraria. In certi luoghi non si vedeva nulla, salvo un gran polverone. Entrando nel polverone, si scorgevano qua alcuni che avevano assicurato una facciata a grandi corde, e tiravano all'unisono, sino a che quella si sfasciava, là altri esperti muratori che, dal tetto di una chiesa, davano di piccone sino a che quella rimaneva scoperchiata, e poi con grandi magli rompevano le pareti, o disvellevano le colonne inserendo dei cunei alla base. Baudolino passò qualche giorno girando per le strade sconvolte, e vide crollare il campanile della chiesa maggiore, che così bello e possente non ve n'era un altro in Italia. I più solerti erano i lodigiani, che anelavano solo alla vendetta: furono i primi a smantellare la loro parte, e poi erano corsi ad aiutare i cremonesi a spianare porta Romana. Però i pavesi sembravano più esperti, non davano colpi a caso e dominavano la loro rabbia: sbriciolavano la malta là dove le pietre erano unite l'una all'altra, oppure scavavano alla base delle muraglie, e il resto crollava da solo. | << | < | > | >> |Pagina 118"No certamente. Molte reliquie che si conservano qui a Costantinopoli sono di dubbiosissima origine, ma il fedele che le bacia sente emanare da esse aromi sovrannaturali. È la fede che le fa vere, non esse che fanno vera la fede.""Appunto. Anch'io pensai che una reliquia vale se trova il suo giusto posto in una storia vera. Fuori della storia del Prete Giovanni quei Magi potevano essere l'inganno di un mercante di tappeti, dentro la storia veritiera del Prete diventavano testimonianza sicura. Una porta non è una porta se non ha un palazzo intorno, altrimenti sarebbe solo un buco, che dico, neppure quello, perché un vuoto senza un pieno che lo circonda non è neppure un vuoto. Compresi allora che io avevo la storia entro cui i Magi potevano significare qualcosa. Pensai che, se dovevo dire qualcosa su Giovanni per aprire all'imperatore le vie d'Oriente, avere la conferma dei Magi, che certamente da Oriente provenivano, avrebbe rafforzato la mia prova. Questi poveri tre re dormivano nel loro sarcofago e lasciavano che pavesi e lodigiani facessero a pezzi la città che li ospitava senza saperlo. Non le dovevano nulla, ci stavano di passaggio, come in una locanda, in attesa di andare altrove, in fondo erano per natura dei giramondo, non si erano mossi da chissà dove per seguire una stella? Toccava a me dare a quei tre corpi la nuova Betlemme." | << | < | > | >> |Pagina 170Ovvio che Niceta a quel punto domandasse a Baudolino come si chiamava quella benedetta città. Ebbene (gran talento di narratore quel Baudolino, che sino a quel momento aveva tenuto la rivelazione in sospeso) la città non si chiamava ancora, se non genericamente Civitas Nova, che era nome di genus, non di individuum. La scelta del nome sarebbe dipesa da un altro problema, e non da poco, quello della legittimazione. Come acquista diritto all'esistenza una città nuova, senza storia e senza nobiltà? Al massimo per investitura imperiale, così come l'imperatore può fare cavaliere e barone, ma qui si stava parlando di una città che nasceva contro i voleri dell'imperatore. E allora? Baudolino e il Ghini erano tornati alla taverna mentre tutti stavano discutendo proprio di quello."Se questa città nasce al di fuori della legge imperiale non si può che darle legittimità secondo un'altra legge, altrettanto forte e antica." "E dove la troviamo?" "Ma nel Constitutum Costantini, nella donazione che l'imperatore Costantino fece alla chiesa, dandole diritto di governare territori. Noi doniamo la città al pontefice e, visto che in questo momento di pontefici ce ne sono in giro due, la doniamo a quello che sta dalla parte della lega e cioè Alessandro III. Come abbiamo già detto a Lodi, mesi fa, la città si chiamerà Alessandria, e sarà feudo papale." "Intanto tu a Lodi dovevi stare zitto, perché non avevamo ancora deciso niente," diceva il Boidi, "ma non è questo il punto, il nome per essere bello è bello, e comunque non è più brutto di tanti altri. Però quello che mi resta sullo stomaco è che noi ci facciamo un sedere così per fare una città e poi la regaliamo al papa che ne ha già tante. E così dobbiamo poi pagargli i tributi e gira di qua gira di là sono sempre soldi che se ne escono di casa e tanto valeva allora pagarli all'imperatore." "Boidi non fare il solito, gli diceva il Cuttica, "primo l'imperatore non vuole la città neanche se gliela regaliamo, e se era pronto ad accettarla allora non valeva la pena di farla. Secondo, un conto è non pagare il tributo all'imperatore, che ti arriva addosso e ti fa a tocchi come ha fatto con Milano, e un conto non pagarlo al papa, che sta a mille miglia e con le grane che ha figurati se ci manda un esercito solo per riscuotere due soldi." "Terzo," intervenne allora Baudolino, "se mi permettete di metterci bocca, ma ho studiato a Parigi e su come si fanno lettere e diplomi ho una certa esperienza, c'è modo e modo di regalare. Voi fate un documento in cui dite che Alessandria viene fondata in onore di Alessandro papa e consacrata a San Pietro, per esempio. Come prova costruite una cattedrale di San Pietro su terreno allodiale, che è libero da obblighi feudali. E la costruite col danaro offerto da tutto il popolo della città. Dopo di che ne fate dono al papa, con tutte le formule che i vostri notai troveranno le più appropriata e le più impegnative. Condite il tutto con profferte di figliolanza, affetto e tutte quelle cose lì, mandate la pergamena al papa e vi prendete tutte le sue benedizioni. Chiunque poi vada a sottilizzare su quella pergamena vedrà che alla fin fine gli avete donato solo la cattedrale, e non il resto della città, ma voglio vedere il papa che viene qui a prendersi la sua cattedrale e se la porta a Roma." | << | < | > | >> |Pagina 204Alla fine del maggio dell'anno del Signore 1176 Baudolino aveva appreso che Federico sedeva in Como, e voleva raggiungerlo in quella città. Nel corso dei viaggio gli avevano detto che l'esercito imperiale si stava ormai muovendo verso Pavia, e allora aveva deviato verso sud, cercando di incrociarlo a metà strada.Lo aveva incrociato alla fine di maggio lungo l'Olona, non lontano dalla rocca di Legnano, dove poche ore prima l'armata imperiale e quella della lega si erano incontrate per sbaglio, senza aver voglia nessuna delle due di dare battaglia, e costrette entrambe allo scontro solo per non perdere l'onore. Appena arrivato ai limiti del campo, Baudolino aveva visto un fante che gli correva incontro con una lunga picca. Aveva dato di sprone tentando di travolgerlo, sperando che si spaventasse. Quello si era spaventato, ed era andato a gambe all'aria mollando la picca. Baudolino era sceso da cavallo e aveva afferrato la picca, mentre l'altro si era messo a gridare che lo avrebbe ammazzato, si era alzato e aveva tratto un pugnale dalla cintura. Salvo che gridava in dialetto lodigiano. Baudolino si era abituato all'idea che i lodigiani stavano con l'impero e, tenendolo a distanza con la picca, perché sembrava un invasato, gli gridava: "Ma che fai, pischimpìrola, sono anch'io con l'impero!' E quello: "Appunto, per questo t'ammazzo!" E a quel punto Baudolino si era ricordato che Lodi stava ormai dalla parte della lega e si era chiesto: "Che faccio, lo ammazzo perché la picca è più lunga del suo coltello? Ma io non ho mai ammazzato nessuno!" Allora gli aveva cacciato la picca tra le gambe, facendolo cadere lungo per terra, poi gli aveva puntato l'arma alla gola. "Non ammazzarmi, dominus, perché ho sette figli che se manco io muoiono di fame domani stesso," aveva gridato il lodigiano, "lasciami andare che tanto non posso fare troppo male ai tuoi, hai visto che mi lascio fare su come un cirola!" "Che sei un cirola si vede anche lontano una giornata a piedi, ma se ti lascio andare in giro con qualcosa in mano, del male sei capace di farlo. Levati le brache!" "Le brache?" "Proprio così, ti lascio la vita ma ti faccio andare in giro con le palle al vento. Poi voglio vedere se hai la faccia da tornare nella battaglia, o non corri subito da quei morti di fame dei tuoi figli!" Il nemico si era tolto le brache, ed ora correva per i campi saltando le siepi, non tanto per la vergogna, ma perché aveva paura che un cavaliere avversario lo vedesse da dietro, pensasse che lui gli mostrava le natiche per disprezzo, e lo impalasse come fanno i turchi. Baudolino era soddisfatto di non aver dovuto ammazzare nessuno, ma ecco che uno a cavallo stava galoppando verso di lui che era arrivato vestito alla francese e quindi si vedeva che non era lombardo. Si decise allora a vendere cara la pelle e tirò fuori la spada. Quello a cavallo gli passò di fianco gridando: "Ma cosa fai, insensato, non vedi che a voi imperiali oggi ve l'abbiamo messa in quel posto, vai a casa che è meglio!" E via, senza cercar rogne. [...] Mentre stava meditando sul da farsi, ecco venirgli incontro un altro cavaliere, ed era un ministeriale che ben conosceva. Quello pure lo riconobbe e gli gridò: "Baudolino, abbiamo perduto l'imperatore!" "Cosa significa che lo avete perduto, cristosanto?" "Qualcuno lo ha visto che si batteva come un leone in mezzo a una masnada di fanti che gli spingevano il cavallo verso quel boschetto là in fondo, poi tutti sono scomparsi tra gli alberi. Siamo andati laggiù ma non c'era più nessuno. Deve aver tentato la fuga in qualche direzione, ma certamente non è più tornato presso il grosso dei nostri cavalieri..." "E dov'è il grosso dei nostri cavalieri?" "Ecco, il guaio non è solo che lui non si è riunito al grosso della cavalleria, è che non c'è più il grosso della cavalleria. È stata una strage, maledetta giornata. All'inizio Federico si è lanciato coi suoi cavalieri contro i nemici, che parevano tutti a piedi, e asserragliati intorno a quel loro catafalco. Ma quei fanti hanno resistito bene, e di colpo è spuntata la cavalleria dei lombardi, così che i nostri sono stati presi da due parti." "Insomma, vi siete persi il sacro romano imperatore! E me lo dici così, ventrediddio?" "Tu mi hai l'aria che arrivi fresco fresco, ma non sai che cosa abbiamo passato noi! Qualcuno dice persino che l'imperatore lo ha visto cadere, ma che è stato trascinato via dal cavallo, con un piede impigliato nella staffa!" "Ma che fanno ora i nostri?" "Scappano, guarda laggiù, si disperdono tra gli alberi, si gettano a fiume, ormai corre voce che l'imperatore sia morto, e ciascuno cerca di raggiungere Pavia come può." "O vigliacchi! E nessuno cerca più il nostro signore?" "Sta scendendo il buio, anche quelli che si battevano ancora stanno smettendo, come fai a trovare qualcuno qui in mezzo, e Dio sa dove?" "O vigliacchi," disse ancora Baudolino che non era uomo di guerra ma aveva un gran cuore. Incitò il cavallo e si gettò con la spada tesa là dove si vedevano più cadaveri per terra, chiamando a gran voce il suo direttissimo padre adottivo. Cercare un morto in quella pianura, tra tanti altri morti, e urlandogli di farsi vivo, era impresa assai disperata, tal che le ultime squadre di lombardi che incrociava lo lasciavano passare, prendendolo per qualche santo del Paradiso che era venuto a dar loro man forte, e gli facevano festevoli cenni di saluto. Nel punto dove la lotta era stata più cruenta Baudolino si mise a rovesciare i corpi che giacevano a testa in giù, sempre sperando e temendo al tempo stesso di scoprire alla fioca luce del crepuscolo i cari tratti del suo sovrano. Piangeva, e andava così alla cieca che, fuoriuscendo da un boschetto, andò a sbattere contro quel grande carro tirato dai buoi, che stava lentamente lasciando il campo della battaglia. "Avete visto l'imperatore?" gridò in lagrime, senza senno e senza ritegno. Quelli si erano messi a ridere dicendogli: "Sì, era laggiù in quei cespugli che si trombava tua sorella!", e uno soffiò malamente nella tromba in modo da farne uscire un crepitio osceno. Quelli parlavano a caso, ma Baudolino era andato a guardare anche in quei cespugli. C'era un mucchietto di cadaveri, tre proni sopra uno supino. Sollevò i tre che gli davano la schiena, e sotto vide, con la barba rossa, ma di sangue, Federico. Capì subito che era vivo, perché gli usciva come un rantolo leggero dalle labbra socchiuse. Aveva una ferita sul labbro superiore, da cui sanguinava ancora, e una vasta ammaccatura sulla fronte che arrivava sino all'occhio sinistro, teneva le due mani ancora tese, un pugnale in ciascuna come chi, ormai sul punto di perdere i sensi, aveva ancora saputo trafiggere i tre miserabili che gli si erano fatti addosso per finirlo. Baudolino gli sollevò il capo, gli deterse il volto, lo chiamò, e Federico apri gli occhi e chiese dov'era. Baudolino lo tastava per capire se fosse ferito da qualche altra parte. Quello gridò quando gli toccò un piede, forse era vero che il cavallo lo aveva trascinato per qualche tratto slogandogli la caviglia. Sempre parlandogli, mentre lui chiedeva dove si trovava, lo rimise ritto. Federico riconobbe Baudolino, e lo abbracciò. "Signore e padre mio," disse Baudolino, "ora tu sali sul mio cavallo, e non devi fare fatica. Ma dobbiamo andare guardinghi, anche se si è ormai fatta notte, perché qui intorno ci sono le truppe della lega, e l'unica speranza è che siano tutti in qualche villaggio a fare baldoria, visto che senza offesa mi pare che abbiano vinto. Ma alcuni potrebbero essere qui intorno a cercare i loro morti. Dovremo passare per boschi e per forre, non battere le strade, e raggiungere Pavia, dove i tuoi si saranno ormai ritirati. Tu sul cavallo puoi dormire, starò attento io che non caschi giù." "E chi sta attento a te che non ti addormenti camminando?" chiese Federico con un sorriso tirato. Poi disse: "Mi fa male quando rido." "Vedo che stai bene, ora," disse Baudolino. | << | < | > | >> |Pagina 278In estate l'imperatore tornò in Germania, ma Baudolino non poté seguirlo. Gli vennero a dire che era morta sua madre. Si precipitò ad Alessandria, e mentre andava ripensava a quella donna che lo aveva generato, e a cui non aveva mai mostrato veramente tenerezza, tranne quella sera di Natale tanti anni prima, mentre partoriva la pecora (crispolina, si diceva, sono già passati più di quindici inverni, Dio mio, forse diciotto). Arrivò che la madre era già stata seppellita, e trovò Gagliaudo che aveva abbandonato la città e si era ritirato nella sua vecchia casa nella Frascheta.Stava sdraiato, con una scodella di legno piena di vino accanto, privo di forze, muovendo stancamente la mano per cacciar via le mosche dal viso. "Baudolino," gli aveva subito detto, "dieci volte al giorno mi arrabbiavo con quella povera donna, chiedendo al cielo che la fulminasse con una saetta. E adesso che il cielo me l'ha fulminata non so più cosa fare. Qui dentro non trovo più gnente, le cose le metteva a posto lei. Non trovo più neppure il forcone per la palta, e nella stalla le bestie hanno più aliame che fieno. Per cui e per quanto, ho deciso di morire anch'io che forse l'è meglio." Non erano valse le proteste del figlio. "Baudolino, sai che dalle nostre parti abbiamo la testa dura e quando ci mettiamo qualcosa dentro non c'è verso di farci cambiare idea. Sono mica un ganivlone come te, che un giorno stai di qua e un giorno di là, bella vita voi signori! Tutta gente che pensa solo come ammazzare gli altri, ma se un giorno gli dicono che devono morire se la fanno addosso. Io invece ho vissuto bene senza fare male a una mosca, vicino a una donna che era una santa, e adesso che ho deciso di morire muoio. Tu lasciami andarmene come dico io, e io sono bell'e che contento, perché ancor più che sto cosi e l'è sempre peggio." Ogni tanto beveva un po' di vino, poi si addormentava, poi riapriva gli occhi e domandava: "Sono morto?" "No padre mio," gli rispondeva Baudolino, "per fortuna sei ancora vivo." "O me pover'uomo," diceva lui, "ancora un giorno, ma domani muoio, stai tranquillo." Non voleva toccare cibo a nessun costo. Baudolino gli accarezzava la fronte e gli cacciava via le mosche e poi, non sapendo come consolare suo padre che stava morendo e, volendo mostrargli che suo figlio non era quel buricco che lui aveva sempre creduto, gli raccontava della santa impresa a cui si accingeva da chissà quanto tempo, e di come voleva raggiungere il regno del Prete Giovanni. "Se sapessi," gli diceva, "andrò a scoprire luoghi meravigliosi. C'é un posto dove prospera un uccello mai visto, la Fenice, che vive e vola per cinquecento anni. Quando sono passati cinquecent'anni i sacerdoti preparano un altare spargendovi spezie e zolfo, quindi arriva l'uccello che s'incendia e diventa cenere. L'indomani tra le ceneri si trova un baco, il secondo giorno un uccello già formato, il terzo giorno questo uccello se ne vola via. Non è più grosso di un'aquila, sulla testa ha una cresta di piume come il pavone, il collo di un colore dorato, il becco blu indaco, le ali color porpora e la coda striata di giallo, verde e rosso. E così la Fenice non muore mai." "Tutte balle," diceva Gagliaudo. "Me mi bastava che mi facevi rinascere la Rosina, povera bestia che me l'avete soffocata con tutto quel grano andato a male, altro che la Felice." "Al mio ritorno ti porterò la manna, che si trova sulle montagne del paese di Giobbe. È bianca e dolcissima, proviene dalla rugiada che dal cielo cade sull'erba, dove si coagula. Pulisce il sangue, scaccia la malinconia." "Pulisce i miei coglioni. Roba buona per quella brutta genoira che sta a corte, che mangiano beccaccini e paste frolle." "Non vuoi almeno un pezzo di pane?" "Non ho tempo. devo morire domani mattina." La mattina dopo Baudolino gli raccontava che avrebbe donato all'imperatore il Gradale, la coppa in cui aveva bevuto Nostro Signore. "Ah sì? E com'è?" "Tutta d'oro, tempestata di lapislazzuli." "Vedi che sei gnecco? Nostro Signore era il figlio di un falegname e stava con dei morti di fame peggio di lui; per tutta la vita ha portato lo stesso vestito, ce lo diceva il prete in chiesa, che non aveva cuciture per non andare a male prima che lui avesse compiuto trentatré anni, e tu mi vieni a dire che faceva baldoria con un calice d'oro e di slupizzuppoli. Me la racconti bella, tu. Cara grazia se aveva una scodella come questa, che gliela aveva scavata suo padre in una radice, come ho fatto io, roba che dura una vita e non si rompe gnanca con il martello, anzi già che ci penso, dammi ancora un po' di questo sangue di Gesù Cristo, che è l'unico che mi aiuta a morir bene." Per tutti i diavoli, si diceva Baudolino. Ha ragione questo povero vecchio. Il Gradale doveva essere una scodella come questa. Semplice, povera come il Signore. Per questo magari è lì, alla portata di tutti, e nessuno lo ha mai riconosciuto perché per tutta la vita hanno cercato una cosa che luccica. Però non è che Baudolino in quei momenti pensasse tanto al Gradale. Non voleva vedere suo padre morire, ma capiva che a lasciarlo morire si faceva la sua volontà. Dopo qualche giorno, il vecchio Gagliaudo si era ormai rattrappito come una castagna secca, e respirava a fatica, rifiutando ormai persino il vino. "Padre mio," gli diceva Baudolino, "se proprio vuoi morire conciliati col Signore, ed entrerai in Paradiso, che è come il palazzo del Prete Giovanni. Domine Iddio siederà su un gran trono alla cima di una torre, e sopra la spalliera del trono vi saranno due pomi d'oro, e in ciascuno di essi due grandi carbonchi che brillano tutta la notte. I bracci del trono saranno di smeraldo. I sette gradini per salire al trono saranno d'onice, di cristallo, di diaspro, di ametista, sardonica, cornalina e crisolito. Tutto intorno vi saranno colonne d'oro fino. E sopra il trono voleranno degli angeli cantando canzoni dolcissime..." "E ci saranno dei diavoli che mi cacceranno a calci nel di dietro, perché in un posto cosi uno come me che puzza di andrugia non ce lo vogliono di torno. Ma sta' zitto..." Poi, di colpo, aveva spalancato gli occhi tentando di rizzarsi seduto, mentre Baudolino lo sosteneva. "O Signore, ecco che adesso muoio davvero perché sto vedendo il Paradiso. Oh come è bello..." "Cosa vedi, padre mio?" singhiozzava ora Baudolino. "È proprio come la nostra stalla, ma tutta ripulita, e c'è anche Rosina... E c'è quella santa della tua mamma, brutta disgraziata adesso mi dici dove hai messo il forcone per la palta..." Gagliaudo aveva fatto un rutto, aveva lasciato cadere la scodella, ed era rimasto con gli occhi spalancati a fissare la sua stalla celeste. Baudolino gli aveva passato dolcemente una mano sul volto, perché tanto, ormai, quel che doveva vedere lo vedeva anche a occhi chiusi, ed era andato a dire quanto era successo a quelli di Alessandria. I cittadini vollero che al grande vecchio fossero date onoranze funebri solenni, perché era colui che aveva salvato la città, e decisero che avrebbero posto la sua statua sopra il portale della cattedrale. Baudolino andò ancora una volta a casa dei suoi, per cercarvi qualche ricordo, visto che aveva deciso di non tornarvi mai più. Vide per terra la scodella del padre, e la raccolse come una reliquia preziosa. La lavò per bene, in modo che non puzzasse di vino perché, si diceva, se un giorno si fosse detto che quello era il Gradale, con tanto tempo che era passato dall'Ultima Cena, non avrebbe dovuto più odorare di niente, se non forse di quegli aromi che, pensando che quella fosse la Vera Coppa, tutti avrebbero certamente sentito. Avvolse la scodella nel suo mantello e se la portò via. | << | < | > | >> |Pagina 283In quel tempo - e siamo al 1187 - il Saladino aveva sferrato l'ultimo attacco alla Gerusalemme cristiana. Aveva vinto. Si era comportato generosarnente, lasciando uscire illesi tutti coloro che potevano pagare una tassa, e si era limitato a decapitare davanti alle mura tutti i cavalieri Templari perché, come ammettevano tutti, generoso sì, ma la truppa scelta dei nemici invasori nessun condottiero degno di tal nome poteva risparmiarla, e anche i Templari lo sapevano che, a fare quel mestiere, si accettava la regola che non si fanno prigionieri. Per quanto tuttavia il Saladino si fosse dimostrato magnanimo, l'intero mondo cristiano era stato scosso dalla fine di quel regno franco d'oltremare che aveva resistito per quasi cento anni. Il papa si era appellato a tutti i monarchi d'Europa per una terza spedizione di crocesignati che liberassero di nuovo quella Gerusalemme riconquistata dagli infedeli.
Per Baudolino, che il suo imperatore si unisse
all'impresa era l'occasione che attendeva. Scendere verso
la Palestina significava disporsi a muovere verso oriente
con un'armata invincibile. Gerusalemme sarebbe stata
ripresa in un batter d'occhio, e dopo non rimaneva che
proseguire verso le Indie. Ma fu in quell'occasione che
scoprì quanto davvero Federico si sentisse stanco e incerto.
Aveva pacificato l'Italia, ma certamente temeva che,
allontanandosene, avrebbe perduto i vantaggi guadagnati.
O forse lo turbava l'idea di una nuova spedizione verso la
Palestina, ricordando il suo delitto durante la spedizione
precedente, quando aveva distrutto, spinto dalla collera,
quel monastero bulgaro. Chissà. Esitava. Si chiedeva
quale fosse il suo dovere, e quando inizi a porti questa
domanda (si diceva Baudolino) è già segno che non c'è un
dovere che ti trascina.
"Avevo quarantacinque anni, signor Níceta, e mi stavo giocando il sogno di una vita, ovvero la vita stessa, visto che la mia vita era stata costruita intorno a quel sogno. Così, a freddo, fidando nella mia buona stella, ho deciso di dare al mio padre adottivo una speranza, un segno celeste della sua missione. Dopo la caduta di Gerusalemme arrivavano nelle nostre terre cristiane gli scampati di quella rovina, ed erano passati presso la corte imperiale sette cavalieri del Tempio che, Dio sa come, erano sfuggiti alla vendetta dei Saladino. Erano mai ridotti, ma forse tu non sai come sono i Templari: beoni e fornicatori, e ti vendono la loro sorella se tu gli dai da smanazzare la tua - e meglio ancora, si dice, il tuo fratellino. Insomma, diciamo che li ho rifocillati, e tutti mi vedevano andar per bettole con loro. Per cui non mi è stato difficile dire un giorno a Federico che quei simoniaci svergognati avevano sottratto a Gerusalemme proprio il Gradale. E ho detto che, i Templari essendo ridotti al lumicino, dando fondo a tutte le monete che avevo, lo avevo acquistato. Federico naturalmente, alle prime, si stupì. Ma non era il Gradale nelle mani del Prete Giovanni che voleva regalarlo proprio a lui? E non si divisava di andare a cercare Giovanni proprio per ricevere in dono quel santissimo resto? Era così, padre mio, gli ho detto, ma evidentemente qualche ministro infido lo ha rubato a Giovanni, e l'ha venduto a qualche manipolo di Templari, arrivati a razziare da quelle parti, senza rendersi conto di dove fossero. Ma non importava sapere il come e il quando. Si prospettava ora al sacro e romano imperatore un'altra e più straordinaria occasione: che egli cercasse il Prete Giovanni proprio per restituirgli il Gradale. Non usando quella impareggiabile reliquia per acquistare potere, ma per compiere un dovere, ne avrebbe tratto la riconoscenza del Prete, e fama eterna in tutta la cristianità. Tra impadronirsi del Gradale e restituirlo, tra farne un tesoro e riportarlo dove era stato rubato, tra averlo e donarlo, tra possederlo (come tutti sognavano) e compiere il sacrificio sublime di spogliarsene - era evidente da che parte stava la vera unzione, la gloria di essere l'unico e vero rex et sacerdos. Federico diventava il nuovo Giuseppe d'Arimatea." "Mentivi a tuo padre." "Facevo il suo bene, e il bene dell'impero." "Non ti chiedevi che cosa sarebbe avvenuto se Federico fosse arrivato davvero dal Prete, gli avesse porto il Gradale, e quello avesse spalancato gli occhi chiedendosi che cosa era quella scodella che lui non aveva mai visto? Federico sarebbe diventato non la gloria, ma il giullare della cristianità." "Signor Niceta, conosci gli uomini meglio di me. Immagina: tu sei il Prete Giovanni, un grande imperatore d'Occidente s'inginocchia ai tuoi piedi e ti porge una reliquia di quella fatta, dicendo che è tua di diritto, e tu ti metti a sghignazzare dicendo che non hai mai visto quella tazza da osteria? Ma suvvia! Non dico che il Prete avrebbe fatto finta di riconoscerla. Dico che, abbacinato dalla gloria che sarebbe discesa su di lui riconoscendosene il custode, l'avrebbe riconosciuta subito, credendo di averla sempre posseduta. E così ho porto a Federico, come cosa preziosissima, la scodella di mio padre Gagliaudo, e ti giuro che in quel momento mi sentivo come il celebrante di un sacro rito. Consegnavo il dono e il ricordo del mio padre carnale al mio padre spirituale, e il mio padre carnale aveva ragione: quella cosa umilissima con cui per tutta la sua vita di peccatore si era comunicato, era davvero e spiritualmente la coppa usata da Cristo povero, che stava andando a morte, per la redenzione di tutti i peccatori. Forse che, dicendo la messa, il sacerdote non prende pane vilissimo e vilissimo vino, e li fa diventare carne e sangue di Nostro Signore?" | << | < | > | >> |Pagina 335"Ecco, vedete? Questa è la cornice dell'Oceano. Al di là vi sono terre dove Noè abitava prima del diluvio. Verso l'oriente estremo di queste terre, separate dall'Oceano da regioni abitate da esseri mostruosi - che sono poi quelle attraverso cui dovremo pure passare - c'è il Paradiso Terrestre. È facile vedere come, partendo da quella terra beata. l'Eufrate, il Tigri e il Gange passino sotto l'Oceano per attraversare le regioni verso cui andiamo, e si gettino nel Golfo Persico, mentre il Nilo fa un percorso più tortuoso per le terre antediluviane, entra nell'Oceano, riprende il suo cammino nelle basse regioni settentrionali, e più precisamente in terra d'Egitto, e si getta nel Golfo Romaico, che sarebbe quello che i latini chiamano prima Mediterraneo e poi Ellesponto. Ecco, noi dovremo seguire il cammino verso oriente per incontrare prima l'Eufrate, poi il Tigri e poi il Gange, e piegare per le basse regioni orientali.""Ma," interloquì il Poeta, "se il regno del Prete Giovanni è vicinissimo al Paradiso Terrestre, per arrivarci dovremo traversare l'Oceano?" "È vicino al Paradiso Terrestre, ma al di qua dell'Oceano," disse Ardzrouni. "Piuttosto ci sarà da traversare il Sambatyon...' "Il Sambatyon, il fiume di pietra," disse Solomon giungendo le mani. "Dunque Eldad non aveva mentito, e questa è la strada per trovare le tribù disperse!" "Il Sambatyon lo abbiamo citato anche noi nella lettera del Prete," tagliò corto Baudolino, "e dunque è evidente che da qualche parte ci sia. E va bene, il Signore è venuto in nostro soccorso, ci ha fatto perdere Zosimo ma ci ha fatto trovare Ardzrouni, che a quanto pare ne sa più di lui." | << | < | > | >> |Pagina 344Un bel giorno entrarono in una selva ricca di alberi frondosissimi, con frutti di tutte le specie, attraverso la quale scorreva un fiume dall'acqua bianca come latte. E nella selva si aprivano radure verdeggianti, con palme e vitigni carichi di splendidi grappoli dagli acini grandi come un cedro. In una di queste radure c'era un villaggio di capanne semplici e robuste, di paglia pulita, da cui uscirono uomini completamente nudi dalla testa ai piedi, e ad alcuni dei maschi era solo per caso che talora la barba lunghissima e fluente copriva le pudenda. Le donne non si vergognavano di mostrare e i seni e il ventre, ma davano l'impressione di farlo in modo assai casto: guardavano i nuovi venuti arditamente negli occhi, ma senza suscitare pensieri sconvenienti.Coloro parlavano greco e, accogliendo cortesemente gli ospiti, dissero di essere dei gimnosofisti, vale a dire creature che, in innocente nudità, coltivavano la sapienza e praticavano la benevolenza. I nostri viaggiatori furono invitati ad aggirarsi liberamente per il loro silvestre villaggio, e a sera vennero invitati a una cena fatta soltanto di cibi prodotti spontaneamente dalla terra. Baudolino pose alcune domande al più vecchio tra loro, che tutti trattavano con particolare reverenza. Chiese che cosa possedessero, e quello rispose: "Possediamo la terra, gli alberi, il sole, la luna e gli astri. Quando abbiamo fame mangiamo i frutti degli alberi, che seguendo il sole e la luna producono da soli. Quando abbiamo sete andiamo al fiume e beviamo. Abbiamo una donna per ciascuno e seguendo il ciclo lunare ciascuno feconda la sua compagna, fino a che non partorisce due figli, e ne diamo uno al padre e l'altro alla madre." Baudolino si stupì per non aver visto né un tempio né un cimitero, e il vecchio disse: "Questo posto in cui stiamo è anche la nostra tomba, e qui moriamo stendendoci nel sonno della morte. La terra ci genera, la terra ci nutre, sotto terra dormiamo il sonno eterno. Quanto al tempio, sappiamo che ne erigono in altri luoghi, per onorare ciò che essi chiamano Creatore di tutte le cose. Ma noi crediamo le cose siano nate per charis, in grazia di se stesse, così come per se stesse si mantengono, e la farfalla impollina il fiore che, crescendo, la nutrirà." "Ma a quanto capisco voi praticate l'amore e il rispetto reciproco, non uccidete animali, né tanto meno vostri simili. In virtù di quale comandamento lo fate?" "Lo facciamo proprio per compensare l'assenza di ogni comandamento. Solo praticando ed insegnando il bene possiamo consolare i nostri simili della mancanza di un Padre." "Non si può fare a meno di un Padre," mormorava il Poeta a Baudolino, "guarda come si è ridotta la nostra bella armata alla morte di Federico. Questi stanno qui a sbattere l'uccello per aria ma non sanno mica come va la vita..." Borone era stato invece colpito da quella saggezza, e aveva preso a porre una serie di domande al vegliando. "Chi sono di più, i vivi o i morti?" "I morti sono di più, ma non si possono più contare. Pertanto quelli che si vedono sono più degli altri che non si possono più vedere." "Cosa è più forte, la morte o la vita?" "La vita, perché il sole quando sorge ha raggi luminosi e splendenti e quando tramonta appare più debole." "Cos'è di più, la terra o il mare?" "La terra, perché anche il mare poggia sul fondo della terra." "Cosa è venuto prima, la notte o il giorno?" "La notte. Tutto ciò che nasce si forma nel buio del ventre e solo dopo viene dato alla luce." "Qual è la parte migliore, la destra o la sinistra?" "La destra. Infatti anche il sole sorge da destra e percorre la sua orbita nel cielo verso sinistra, e la donna allatta prima dalla mammella destra.' "Qual è il più feroce degli animali?" chiese allora il Poeta. "L'uomo." "Perché?" "Domandalo a te stesso. Anche tu sei una fiera che ha con sé altre fiere e per brama di potere vuole privare della vita tutte le altre fiere." Allora disse il Poeta: "Ma se tutti fossero come voi il mare non verrebbe navigato, la terra non sarebbe coltivata, non nascerebbero i grandi regni che portano ordine e grandezza nel meschino disordine delle cose terrene." Rispose il vegliando: "Ciascuna di queste cose è certo una fortuna, ma è costruita sull'altrui sfortuna, e questo noi non vogliamo." | << | < | > | >> |Pagina 415[...] Mentre Baudolino meditava sulle rive di quello specchio d'acqua, vide uscire dal bosco un animale che non aveva mai incontrato in vita sua, ma riconosceva benissimo. Sembrava un cavallo in tenera età, era tutto bianco e le sue movenze erano delicate e flessuose. Sul muso ben formato, proprio sopra la fronte, aveva un corno, bianco anch'esso, foggiato a spirale, che terminava con una punta aguzza. Era il liocorno o, come diceva Baudolino da piccolo, il lioncorno, ovvero l'unicorno, il monoceros delle sue fantasie infantili. Lo ammirava trattenendo il respiro, quando dietro di esso uscì dagli alberi una figura femminile. Astata, avvolta in una lunga veste che le disegnava con grazia dei piccoli seni ritti, la creatura camminava con passo di camelopardo indolente, e la sua veste sfiorava l'erba che abbelliva le rive del lago come se muovesse aliando sopra la terra. Aveva lunghi e morbidi capelli biondi, che le arrivavano sino alle anche, e un profilo purissimo, come se fosse stato modellato sopra un monile d'avorio. La carnagione era appena rosata, e quel volto angelico era rivolto verso il lago in atteggiamento di muta preghiera. L'unicorno le scalpitava mitemente intorno, talora levando il muso con le piccole froge vibranti per ricevere una carezza.
Baudolino guardava rapito.
"Tu penserai, signor Niceta, che era dall'inizio del viaggio che non avevo più visto una donna degna di tale nome. Non fraintendermi: non era desiderio quello che mi aveva preso, quanto piuttosto un senso di serena adorazione, non solo davanti a lei, ma all'animale, al lago tranquillo, ai monti, alla luce di quel giorno che declinava. Mi sentivo come in un tempio." Baudolino cercava, con le parole, di descrivere la sua visione - cosa che certamente non si può. "Vedi, ci sono momenti in cui la perfezione stessa appare in una mano o in un volto, in qualche sfumatura sui fianchi di una collina o sul mare, momenti in cui ti si paralizza il cuore di fronte al miracolo della bellezza... Quella creatura mi pareva in quel momento un superbo uccello acquatico, ora un airone, ora un cigno. Ho detto che i suoi capelli erano biondi, ma no, come muoveva leggermente la testa prendevano talora dei riflessi azzurrini, talora sembravano percorsi da un fuoco leggero. Le scorgevo di profilo il seno, morbido e delicato come il petto di una colomba. Ero diventato puro sguardo. Vedevo qualcosa di antico, perché sapevo non di vedere una cosa bella ma la bellezza stessa, come sacro pensiero di Dio. Scoprivo che la perfezione, a scorgerla per una volta, e una volta sola, era qualcosa di lieve e leggiadro. Guardavo quella figura da lontano, ma sentivo che su quell'immagine non avevo presa, come accade quando sei avanti negli anni, e ti sembra di scorgere segni chiari sopra una pergamena, ma sai che appena ti avvicinerai essi si confonderanno, e che non potrai mai leggere il segreto che quel foglio ti prometteva - o come nei sogni, che ti appare qualche cosa che vorresti, allunghi la mano, muovi le dita nel vuoto, e non afferri nulla." "Ti invidio quell'incanto." "Per non spezzarlo, mi ero trasformato in una statua.' | << | < | > | >> |Pagina 424[...] "E allora perché ti ha dato la libertà di scegliere tra il bene e il male. in modo che tu rischi poi di soffrire i castighi eterni?" "Iddio ci ha dato la libertà pensando che noi la usassimo bene. Ma c'è stata la ribellione degli angeli, che ha introdotto il male nel mondo, ed è stato il serpente a tentare Eva, così che ora soffriamo tutti del peccato originale. Non è colpa di Dio." "E chi ha creato gli angeli ribelli e il serpente?" "Dio, certamente, ma prima che si ribellassero erano buoni come lui li aveva fatti." "Allora il male non lo hanno creato loro?" "No, loro lo hanno commesso, ma esisteva prima, come possibilità di ribellarsi a Dio." "Quindi il male lo ha creato Dio?" "Ipazia, sei acuta, sensibile, perspicace, sai condurre una disputatio molto meglio di me che pure ho studiato a Parigi, ma non dirmi queste cose del buon Dio. Egli non può volere il male!" "Certo che no, un Dio che vuole il male sarebbe il contrario di Dio." "E allora?" "E allora Dio il male se lo è trovato accanto, senza volerlo, come la parte oscura di se stesso." "Ma Dio è l'essere perfettissimo!" "Certo, Baudolino, Dio è quanto di più perfetto possa esistere, ma sapessi che fatica essere perfetto! Ora, Baudolino, ti dico chi è Dio, ovvero che cosa non è." Non aveva davvero paura di nulla. Disse: "Dio è l'Unico, ed è talmente perfetto che non è simile a nessuna delle cose che sono e a nessuna delle cose che non sono; non puoi descriverlo usando la tua intelligenza umana, come se fosse qualcuno che si adira se tu sei cattivo o che si occupa di te per bontà, qualcuno che abbia bocca, orecchie, volto, ali, o che sia spirito, padre o figlio, neppure di se stesso. Dell'Unico non puoi dire che c'è o che non c'è, abbraccia tutto ma non è nulla; puoi nominarlo solo attraverso la dissomiglianza, perché è inutile chiamarlo Bontà, Bellezza, Sapienza, Amabilità, Potenza, Giustizia, sarebbe lo stesso che dirlo Orso, Pantera, Serpente, Drago o Grifone, perché qualunque cosa tu ne dica non lo esprimerà mai. Dio non è corpo, non è figura, non è forma, non ha quantità, qualità, peso o leggerezza, non vede, non sente, non conosce disordine e perturbazione, non è anima, intelligenza, immaginazione, opinione, pensiero, parola, numero, ordine, grandezza, non è uguaglianza e non è disuguaglianza, non è tempo e non è eternità, è una volontà senza scopo; cerca di capire, Baudolino, Dio è una lampada senza fiamma, una fiamma senza fuoco, un fuoco senza calore, una luce oscura, un rimbombo silenzioso, un lampo cieco, una caligine luminosissima, un raggio della propria tenebra, un cerchio che si espande contraendosi sul proprio centro, una molteplicità solitaria, è... è..." Esitò per trovare un esempio che convincesse entrambi, lei la maestra e lui l'allievo. "È uno spazio che non c'è, in cui tu e io siamo la stessa cosa, come oggi in questo tempo che non scorre. Una fiamma lieve le tremolò sulla guancia. Tacque, spaventata da quell'esempio incongruo, ma come giudicare incongrua qualsiasi addizione a una lista d'incongruità? Baudolino sentì la stessa fiamma che gli attraversava il petto, ma temette per l'imbarazzo di lei, s'irrigidì senza permettere a un solo muscolo del viso di tradire i moti del cuore, né alla sua voce di tremare, e chiese, con teologica fermezza: "Ma allora, la creazione? Il male?" Il volto d'Ipazia riprese il suo pallore rosato: "Ma allora l'Unico, a causa della sua perfezione, per generosità di se stesso tende a diffondersi, ad allargarsi in sfere sempre più ampie della propria pienezza, è come una candela vittima della luce che spande, più illumina e più si scioglie. Ecco, Dio si liquefa nelle ombre di se stesso, diventa una folla di divinità messaggere, Eoni che hanno molto della sua potenza, ma in forma già più debole. Sono tanti dei, demoni, Arconti, Tiranni, Forze, Scintille, Astri, e quegli stessi che i cristiani chiamano angeli o arcangeli... Ma non sono creati dall'Unico, sono una sua emanazione." "Emanazione?" "Vedi quell'uccello? Prima o poi genererà un altro uccello attraverso un uovo, come un'ipazia può generare un figlio dal suo ventre. Ma, una volta generata, la creatura, sia ipazia o uccellino, vive per contro proprio, sopravvive anche se la madre muore. Ora pensa invece al fuoco. Il fuoco non genera calore, lo emana. Il calore è la stessa cosa del fuoco, se tu spegnessi il fuoco cesserebbe anche il calore. Il calore del fuoco è fortissimo dove il fuoco nasce, e si fa sempre più debole a mano a mano che la fiamma diventa fumo. Così accade a Dio. A mano a mano che si effonde lontano dal proprio centro oscuro, in qualche modo perde vigore, e sempre più ne perde sino a che diventa materia vischiosa e sorda, come la cera senza forma in cui si disfa la candela. L'Unico non vorrebbe emanarsi così lontano da sé, ma non può resistere a questo suo disciogliersi sino alla molteplicità e al disordine." "E questo tuo Dio non riesce a dissolvere il male che... che gli si forma intorno?" "Oh sì, egli potrebbe. L'Unico continuamente cerca di riassorbire questa sorta di fiato che può diventare veleno, e per settanta volte sette migliaia di anni è riuscito continuamente a fare rientrare nel nulla i suoi cascami. La vita di Dio era un respiro regolato, egli ansimava senza sforzo. Così, senti." Aspirava l'aria vibrando le sue delicate narici, poi emetteva il fiato dalla bocca. "Un giorno, però, non è riuscito a controllare una delle sue potenze intermedie, che noi chiamiamo il Demiurgo, e che forse è Sabaoth o Ildabaoth, il falso Dio dei cristiani. Questa imitazione di Dio, per sbaglio, per orgoglio, per insipienza ha creato il tempo, là dove c'era prima solo l'eternità. Il tempo è un'eternità che balbetta, capisci? E con il tempo ha creato il fuoco, che dà calore ma rischia anche di bruciare tutto, l'acqua, che disseta ma anche annega, la terra, che nutre le erbe ma può diventare valanga e soffocarle, l'aria che ci fa respirare ma può diventare uragano... Ha sbagliato tutto, povero Demiurgo. Ha fatto il sole, che dà luce, ma può inaridire i prati, la luna, che non riesce a dominare la notte per più di pochi giorni, poi si assottiglia e muore, gli altri corpi celesti, che sono splendidi ma possono emettere influssi nefasti, e poi gli esseri dotati d'intelligenza, ma incapaci di comprendere i grandi misteri, gli animali, che talora ci sono fedeli e talora ci minacciano, i vegetali, che ci nutrono ma hanno vita brevissima, i minerali, senza vita, senz'anima, senza intelligenza, condannati a non capire mai nulla. Il Demiurgo era come un bambino, che pasticcia col fango per imitare la bellezza di un unicorno, e gli viene fuori qualcosa che assomiglia a un topo!" "Quindi il mondo è una malattia di Dio?" "Se sei perfetto, non puoi non emanarti, se ti emani ti ammali. E poi cerca di capire che Dio, nella sua pienezza, è anche il luogo, o il non-luogo, in cui gli opposti si confondono, no?" "Gli opposti?" "Sì, noi sentiamo il caldo e il freddo, la luce e l'oscurità, e tutte quelle cose che sono l'una il contrario dell'altra. Talora il freddo ci spiace, e ci pare male rispetto ai calore, ma talora è troppo il calore, e desideriamo la frescura. Siamo noi che, di fronte agli opposti, crediamo, a seconda del nostro capriccio, della nostra passione, che l'uno di essi sia il bene e l'altro il male. Ora, in Dio gli opposti si compongono e trovano reciproca armonia. Ma quando Dio comincia ad emanarsi, non riesce più a controllare l'armonia degli opposti, e questi si spezzano e lottano l'uno contro l'altro. Il Demiurgo ha perduto il controllo degli opposti, e ha creato un mondo dove silenzio e fragore, il sì ed il no, un bene contro un altro bene combattono tra loro. Questo è ciò che noi sentiamo come male." | << | < | > | >> |Pagina 525Niceta andò a visitare Pafnuzio. Gli riferi tutto da cima a fondo, dal momento che aveva incontrato Baudolino a Santa Sofia, e tutto quello che Baudolino aveva raccontato a lui. "Che debbo fare?" gli chiese. "Per lui? Nulla, va incontro al suo destino." "Non per lui, per me. Sono uno scrittore di Istorie, prima o poi dovrò accingermi a stendere il regesto degli ultimi giorni di Bisanzio. Dove collocherò la storia che mi ha raccontato Baudolino?" "Da nessuna parte. È una storia tutta sua. E poi, sei sicuro che sia vera?" "No, tutto quello che ne so, l'ho appreso da lui, come da lui ho appreso che era un mentitore." "Vedi dunque," disse il saggio Pafnuzio, che uno scrittore di Istorie non può prestare fede a una testimonianza così incerta. Cancella Baudolino dal tuo racconto." "Ma almeno gli ultimi giorni abbiamo avuto una storia in comune, nella casa dei genovesi." "Cancella anche i genovesi, altrimenti dovresti dire delle reliquie che fabbricavano, e i tuoi lettori perderebbero la fede nelle cose più sacre. Ti ci vorrà poco ad alterare leggermente gli eventi, dirai che sei stato aiutato da dei veneziani. Sì, lo so, non è la verità, ma in una grande Istoria si possono alterare delle piccole verità perché ne risalti la verità più grande. Tu devi raccontare la storia vera dell'impero dei romani, non una piccola vicenda che è nata in una palude lontana, in paesi barbari e tra genti barbare. E poi, vorresti mettere in testa ai tuoi lettori futuri che esiste un Gradale lassù tra nevi e il gelo, e il regno del Prete Giovanni nelle terre peruste? Chissà quanti forsennati si metterebbero a vagare senza sosta, per secoli e secoli." "Era una bella storia. Peccato che nessuno la venga a sapere."
"Non crederti l'unico autore di storie a questo mondo.
Prima o poi qualcuno, più bugiardo di Baudolino, la
racconterà."
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