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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 5 Su alcune funzioni della letteratura 7 Lettura del Paradiso 23 Sullo stile del Manifesto 30 Le brume del Valois 35 Wilde. Paradosso e aforisma 70 A portrait of the artist as bachelor 91 Tra La Mancha e Babele 114 Borges e la mia angoscia dell'influenza 128 Su Camporesi: sangue, corpo, vita 147 Sul simbolo 152 Sullo stile 172 Les sémaphores sous la pluie 191 Le sporcizie della forma 215 Ironia intertestuale e livelli di lettura 227 La Poetica e noi 253 Il mito americano di tre generazioni antiamericane 274 La forza del falso 292 Come scrivo 324 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Racconta la leggenda, e se non è vera è ben trovata, che una volta Stalin abbia domandato quante divisioni avesse il papa. Quello che è successo nei decenni successivi ci ha dimostrato che le divisioni sono certo importanti in date circostanze, ma non sono tutto. Ci sono dei poteri immateriali, non valutabili a peso, che in qualche modo pesano. Siamo circondati di poteri immateriali, che non si limitano a quelli che chiamiamo valori spirituali, come una dottrina religiosa. È un potere immateriale anche quello delle radici quadrate, la cui legge severa sopravvive ai secoli e ai decreti non solo di Stalin, ma persino del papa. E tra questi poteri annovererei anche quello della tradizione letteraria, vale a dire del complesso di testi che l'umanità ha prodotto e produce non per fini pratici (come tenere registri, annotare leggi e formule scientifiche, verbalizzare sedute o provvedere orari ferroviari) ma piuttosto gratia sui, per amore di se stessi - e che si leggono per diletto, elevazione spirituale, allargamento delle conoscenze, magari per puro passatempo, senza che nessuno ci obblighi a farlo (se si prescinde dagli obblighi scolastici). È vero che gli oggetti letterari sono immateriali solo a metà, perché si incarnano in veicoli che di solito sono cartacei. Ma un tempo si incarnavano nella voce di chi ricordava una tradizione orale, oppure su pietra, e oggi discutiamo sul futuro degli e-books, che dovrebbero permetterci di leggere sia una raccolta di barzellette che la Divina Commedia su uno schermo a cristalli liquidi. Avvertirò subito che non intendo intrattenermi stasera sulla vexata quaestio del libro elettronico. Io appartengo naturalmente a coloro che un romanzo o un poema preferiscono leggerselo su un volume cartaceo, di cui mi ricorderò persino le orecchie e la stazzonatura, ma mi dicono che esiste una generazione digitale di hackers che, non avendo mai letto un libro in vita propria, ora con l'e-book hanno avvicinato e gustato per la prima volta il Don Chisciotte. Tanto di guadagnato per la loro mente e tanto di perduto per la loro vista. Se le generazioni future arriveranno ad avere un buon rapporto (psicologico e fisico) con l'e-book, il potere del Don Chisciotte non cambierà. A che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura? Basterebbe rispondere, come ho già fatto, che è un bene che si consuma gratia sui, e dunque non deve servire a nulla. Ma una visione così disincantata del piacere letterario rischia di ridurre la letteratura allo jogging o alla pratica delle parole crociate - i quali oltretutto servono entrambi a qualcosa, vuoi alla salute del corpo, vuoi all'educazione lessicale. Quello di cui intendo parlare è quindi una serie di funzioni che la letteratura riveste per la nostra vita individuale e la vita sociale. La letteratura tiene anzitutto in esercizio la lingua come patrimonio collettivo. La lingua, per definizione, va dove essa vuole, nessun decreto dall'alto, né da parte della politica, né da parte dell'accademia, può fermare il suo cammino e farla deviare verso situazioni che si pretendano ottimali. Il fascismo si è sforzato di farci dire mescita invece di bar, coda di gallo invece di cocktail, rete invece di goal, auto pubblica invece di taxi, e la lingua non gli ha dato retta. Poi ha suggerito una mostruosità lessicale, un arcaismo inaccettabde come autista in luogo di chauffeur, e la lingua lo ha accettato. Forse perché evitava un suono che l'italiano non conosce. Ha mantenuto taxi, ma gradatamente, almeno nel parlato, lo ha fatto diventare tassì. La lingua va dove vuole ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura. Senza Dante non ci sarebbe stato un italiano unificato. Quando Dante, nel De vulgari eloquente, analizza e condanna i vari dialetti italiani e si propone di foggiare un nuovo volgare illustre, nessuno avrebbe scommesso su un tale atto di superbia, eppure con la Commedia vince la sua partita. È vero che per diventare lingua parlata da tutti, il volgare dantesco ha impiegato alcuni secoli, ma se ci è riuscito è perché la comunità di coloro che credevano alla letteratura ha continuato a ispirarsi a quel modello. E se non ci fosse stato quel modello non si sarebbe forse neppure fatta strada l'idea di una unità politica. Forse è per questo che Bossi non parla un volgare illustre. | << | < | > | >> |Pagina 23"Perciò il Paradiso è poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dímande e risposte fra maestro e discente." Così Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana. Ed esprimeva una riserva che ciascuno di noi ha fatto al liceo, a meno che non avesse un professore straordinario. D'altra parte, a sfogliare qualche storia della letteratura più recente, si trova l'annotazione che la critica romantica il Paradiso lo aveva deprezzato - condanna che ha pesato anche sul secolo successivo. Siccome voglio dire che, naturalmente, il Paradiso è la più bella delle tre cantiche della Commedia, torniamo a De Sanctis, che era sì uomo del suo tempo, ma anche lettore di straordinaria sensibilità, per vedere come la sua lettura del Paradiso sia un capolavoro di tormento interiore, qui lo dico e qui lo nego, di entusiasmo e diffidenza. | << | < | > | >> |Pagina 28Col che si viene al secondo malinteso, che non ci possa essere poesia dell'intelligenza, capace di fare fremere non solo sul bacio di Paolo e Francesca, ma sulla architettura dei cieli, sulla natura della Trinità, sulla definizione della fede come sostanza di cose sperate e argomento delle non parventi. È questo richiamo a una poesia dell'intelligenza che può rendere il Paradiso affascinante anche per il lettore moderno, che ha perduto i riferimenti familiari a quello medievale. Perché nel frattempo questo lettore ha conosciuto la poesia di John Donne, di Eliot, di Valéry o di Borges, e sa che la poesia può essere anche passione metafisica.E a proposito di Borges, da chi ha preso egli l'idea dell'Aleph, quel punto fatale da cui si vede il popoloso mare, l'alba e la sera, le moltitudini d'America, una ragnatela argentea al centro d'una nera piramide, un labirinto spezzato che era Londra, un cortile interno di via Soler con le stesse mattonelle viste trent'anni prima nell'andito di una casa di calle Frey Bentos, grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d'acqua, convessi deserti equatoriali, e a Inverness una donna indimenticabile, e in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione di Plinio, e contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina, un tramonto a Querétaro che sembra riflettere il colore di una rosa nel Bengala, un globo terraqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine in un gabinetto di Alkmaar, una spiaggia del mar Caspio all'alba, un mazzo di carte spagnolo in una vetrina di Mirzapur, stantuffi, bisonti, mareggiate, tutte le formiche che esistono sulla terra, un astrolabio persiano, e il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo? Il primo Aleph è quello dell'ultimo canto del Paradiso, quando Dante vede (e per quello che gli è possibile, ci fa vedere), "legato con amore in un volume - ciò che per l'universo si squaderna - sustanze e accidenti e lor costume - quasi conflati insieme..." Nel descriversi "la forma universal di questo nodo", con mente sospesa e corta favella, in quella chiara sussistenza, Dante vede tre giri di tre colori, e non come Borges i resti atroci di Beatriz Viterbo, perché la sua Beatrice, diventata resto atroce da gran tempo, è ritornata luce - e quindi l'Aleph di Dante è più passionalmente ricco di speranza che non quello allucinato di Borges, il quale ben sapeva che l'Empireo non gli era concesso, e gli restava solo Buenos Aires. È dunque alla luce delle secolari vicende di una poesia dell'intelligenza che il Paradiso potrà essere oggi meglio letto e più gustato. Ma vorrei aggiungere qualcosa di più, per colpire l'immaginazione dei più giovani, o di coloro a cui non interessano né Dio né l'intelligenza. Il Paradiso dantesco è l'apoteosi del virtuale, degli immateríali, del puro software, senza il peso dello hardware terrestre e infernale, di cui rimangono i cascami nel Purgatorio. Il Paradiso è più che moderno, può diventare, per il lettore che abbia dimenticato la storia, tremendamente futuribile. È il trionfo di una energia pura, ciò che la ragnatela del Web ci promette e non saprà mai darci, è una esaltazione di flussi, di corpi senz'organi, un poema fatto di novae e stelle nane, un Big Bang ininterrotto, un racconto le cui vicende corrono per la lunghezza di anni luce e, se proprio volete ricorrere a esempi familiari, una trionfale odissea nello spazio, a lietissimo fine. Se volete, leggete il Paradiso anche così, male non potrà farvi e sarà meglio di una discoteca stroboscopica e dell'ecstasy. Perché, quanto a estasi, la terza cantica mantiene le sue promesse. | << | < | > | >> |Pagina 91Ognuno dei testi che ho menzionato potrebbe essere usato per descrivere una pagina del Book of Kells, così come una pagina del Finnegans Wake, perché in ognuno la lingua fa ciò che nel Book of Kells fanno le immagini. Usare parole per descrivere il Book of Kells significa reinventare una pagina della letteratura isperica. Il Book of Kells è una fioritura di forme di animali intrecciate e stilizzate, di piccole figure scimmiesche tra un fogliame inestricabíle che ricopre pagina dopo pagina, come all'inseguimento dei motivi sempre ugualí di un arazzo laddove - in realtà - ogni linea, ogni corimbo, rappresenta una invenzione diversa. È una complessità spiraliforme che vaga intenzionalmente ignara di ogni regola di disciplinata simmetria, una sinfonia di colori delicati dal rosa al giallo arancione, dal giallo limone al rosso violaceo. Quadrupedi, uccelli, levrieri che giocano col becco di un cigno, inimmaginabili figure umanoidi avvitate come un atleta equestre che con la testa tra le ginocchia si contorce fino a formare una lettera iniziale, esseri malleabili e flessibili come elastici che si introducono in un groviglio di entrelacs, che spingono le loro teste attraverso decorazioni astratte, che si avvinghiano intorno alle lettere iniziali insinuandosi tra le righe. La pagina non si ferma sotto il nostro sguardo, ma sembra prendere vita da se stessa, non ci sono punti di riferimento, ogni cosa è mescolata con qualsiasi altra cosa. Il Book of Kells è il regno di Proteo. È il prodotto di un'allucinazione fredda che non ha bisogno di mescalina o di acido lisergico per creare i suoi abissi, anche perché non rappresenta il delirio di una singola mente ma piuttosto il delirio di un'intera cultura impegnata in un dialogo con se stessa, citando altri Vangeli, altre lettere miniate, altri racconti. Esso è la lucida vertigine di una lingua che cerca di ridefinire il mondo mentre ridefinisce se stessa con la piena consapevolezza che, in un'età ancora incerta, la chiave della rivelazione del mondo non può essere trovata nella linea retta bensì nel labirinto. Non è dunque per caso che tutto ciò ha ispirato il Finnegans Wake nel momento in cui Joyce tentava di realizzare un libro che rappresentasse nello stesso tempo un'immagine dell'universo e un'opera per un "lettore ideale affetto da un'ideale insonnia". | << | < | > | >> |Pagina 114Cosa lega allora questi due autori che hanno scelto entrambi, per salvarsi e per perdersi, la cultura universale come terreno di gioco? Io credo che lo sperimentalismo letterario lavori su quel luogo in cui abitiamo, e che sono le lingue. Ma una lingua, come sanno i linguisti, ha due facce. Da un lato il significante, dall'altro il significato. Il significante organizza dei suoni, il significato organizza idee. E non è che quell'organizzazione delle idee, che costituisce la forma di una data cultura, sia indipendente dalla lingua, perché la conosciamo solo attraverso il modo in cui la lingua ha organizzato i dati ancora informi del nostro contatto con il continuum del mondo. Senza lingua non vi sarebbero idee, bensì puro flusso di esperienza non esperita e non pensata. Lavorare sperimentalmente sulla lingua, e sulla cultura che essa veicola, vuole dunque dire lavorare su due fronti: sul fronte del significante, giocando sulle parole (e attraverso la distruzione e riorganizzazione delle parole si riorganizzano le idee); e giocando sulle idee, e portando quindi la parola a sfiorare nuovi e impensati orizzonti. Joyce ha giocato sulle parole, Borges sulle idee. E a questo punto si delinea una diversa concezione della infinita segmentabilità del proprio oggetto di manipolazione. Gli elementi atomici della parola sono i radicali, le sillabe, i fonemi. Si possono, limite massimo, ricombinare suoni, e si ha il neologismo o il pun, o ricombinare lettere, e si ha l'anagramma, procedimento cabalistico di cui Borges sapeva la magia. L'elemento atomico delle idee, o dei significati, è invece sempre una idea o un altro significato. Si può scomporre uomo in "animale umano maschio" e rosa in "fiore dai petali carnosi", si possono incatenare idee per interpretare altre idee, ma non si va al di sotto. Potremmo dire che il lavoro sul significante agisce a livello subatomico mentre quello sui significati agisce su atomi non altrimenti scomponibili per comporli in nuove molecole. Borges ha fatto questa seconda scelta, che non è quella di Joyce, ma è altrettanto rigorosa, assoluta, e condotta ai limiti del possibile e del pensabile. E per far ciò aveva dei maestri, e li denuncia (e cosi vedete che le citazioni apparentemente extravaganti che ho fatto poco fa non erano ingiustificate). Uno era Raimundo Lullo con la sua Ars Magna, in cui giustamente Borges aveva intravisto l'anticipatore della moderna computer science. L'altro, meno noto, è John Wilkins - che nello Essay toward a real character del 1668 ha cercato di realizzare quella lingua perfetta a cui pensavano Mersenne, Guldin e gli altri autori del suo stesso secolo - salvo che Wilkins non voleva combinare lettere prive di significato per assegnare un nome a ogni individuo, ma voleva combinare quelli che lui e altri chiamavano "caratteri reali" ed erano ispirati agli ideogrammi cinesi, dove a ogni segno elementare corrisponde una idea, così che, combinando questi segni per nominare le cose, attraverso il nome si doveva manifestare la natura della cosa stessa. | << | < | > | >> |Pagina 142È stato rilevato in questi giorni come molte idee su cui poi Borges lavora fossero state elaborate da Peirce e da Royce. Credo che ad analizzare l'indice dei nomi di tutta l'opera di Borges non si trovino né Peirce né Royce. Eppure è possibilissimo che Borges abbia subito quelle influenze attraverso altri scrittori. Io ho alcune esperienze che credo siano comuni a chiunque possiede moltissimi libri (io ne ho ormai circa quarantamila, tra Milano e le altre mie case) e considera una biblioteca non solo un luogo in cui conservare i libri già letti, ma soprattutto un magazzino di libri da leggere un giorno o l'altro, quando se ne senta il bisogno. Ora accade che, ogni volta che l'occhio cade su un libro non ancora letto, si venga colti da rimorso.
Salvo che arriva poi un giorno che, per sapere qualcosa
su un certo argomento, ci si decide finalmente ad aprire
uno dei tanti libri mai letti, si comincia a leggerlo e ci si
accorge che lo si conosceva già. Cos'è successo? C'è la
spiegazione mistico-biologica, che con l'andar del tempo
spostando i libri, spolverandoli e rimettendoli a posto,
attraverso i polpastrelli l'essenza del libro sia penetrata
a poco a poco nella nostra mente. C'è la spiegazione dello
scanníng
casuale e continuato: con l'andar del tempo, prendendo e
riordinando i vari volumi, non è che quel libro non sia mai
stato sbirciato; anche soltanto nello spostarlo, si
guardavano alcune pagine, una oggi, una il mese dopo, e via
via si è finito per leggerlo in gran parte, sia pure in modo
non lineare. Ma la vera spiegazione è che, tra il momento
in cui quel libro ci era arrivato e il momento in cui lo
si è aperto, si sono letti altri libri, nei quali c'era
qualcosa che diceva quel primo libro, e quindi, alla fine di
questo lungo giro intertestuale, si scopre che anche quel
libro che non avevamo letto faceva parte del nostro
patrimonio mentale e forse ci aveva profondamente
influenzato. Credo si possa dire questo di Borges nei suoi
rapporti con Royce o Peirce. Se questa è influenza, non è
diadica.
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