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| << | < | > | >> |Pagina 11Dopo l'incidente, diventai meno visibile. Non nel senso ovvio che andavo a meno feste e non mi si vedeva più in giro. O almeno non solo. Nel senso che, dopo l'incidente, diventò letteralmente più difficile vedermi. Nel ricordo, l'incidente ha acquisito una sua aspra e abbagliante bellezza: la luce bianca del sole, un lento e ripetuto volteggio nello spazio, come su una di quelle giostre i cui abitacoli ruotano su una piattaforma rotante a sua volta (da sempre le mie preferite), la sensazione che il mio corpo si muovesse più veloce del veicolo che lo conteneva e in senso opposto. Quindi una luminosa, ramificata incrinatura, io che sfondo il parabrezza e volo all'esterno, insanguinata e terrorizzata e confusa. La verità è che non ricordo nulla. L'incidente avvenne di notte, durante un acquazzone estivo su un tratto d'autostrada deserto circondato da campi di mais e soia, a qualche chilometro da Rockford, la città dell'Illinois in cui sono nata. Schiacciai il freno e la mia faccia si schiantò contro il parabrezza, facendomi perdere i sensi all'istante. Mi fu così risparmiato il batticuore della macchina che dalla carreggiata sbandava in un campo di mais, si ribaltava più volte, prendeva fuoco e infine esplodeva. Gli airbag non si aprirono. Avrei potuto fare causa, naturalmente, ma non avendo la cintura allacciata fu probabilmente un bene che non si fossero aperti, con il rischio di decapitarmi, aggiungendo, come dire, al danno la beffa. Il parabrezza infrangibile resse in effetti abbastanza bene l'impatto con la mia testa, tanto che pur essendomi rotta praticamente tutte le ossa della faccia, di cicatrici visibili quasi non me ne sono rimaste. Devo la vita a un cosiddetto «buon samaritano», una persona che mi estrasse dai rottami in fiamme così velocemente da lasciarmi bruciare soltanto i capelli, che mi adagiò con delicatezza sul bordo del campo di mais, chiamò un'ambulanza, descrisse con una certa precisione il luogo in cui mi trovavo e poi, con una modestia che a me pare addirittura perversa, per non dire antiamericana, scelse di dileguarsi rimanendo anonima, anziché prendersi il merito di gesti così nobili. Un automobilista di passaggio e che andava di fretta, qualcosa di simile. L'ambulanza mi portò al Rockford Memorial Hospital, dove mi ritrovai nelle mani di tale dottor Hans Fabermann, straordinario chirurgo plastico ricostruttivo. Quando quattordici ore dopo riemersi dall'incoscienza, fu proprio il dottor Fabermann che trovai seduto al mio fianco, un signore anziano con la mascella ampia e forte, e ciuffi di peli bianchi che spuntavano da entrambe le orecchie, anche se buona parte di queste cose non le vidi quella sera. Ci vedevo a malapena. Con calma, il dottor Fabermann mi spiegò che ero stata fortunata: mi ero rotta le costole, un braccio e una gamba, ma non avevo lesioni interne. Il mio viso si trovava nel bel mezzo di quello che lui definì un «momento di grazia» prima che subentrasse il «gonfiore grottesco». Se avesse operato immediatamente, avrebbe potuto giocare d'anticipo sulla mia «grave asimmetria», vale a dire la disconnessione dei miei zigomi dalla parte superiore del cranio, e della mandibola da quella «mediana». Io non avevo idea di dove mi trovavo, né di cosa mi fosse successo. Sentivo il viso intorpidito, vedevo doppio e appannato, e provavo una strana sensazione intorno alla bocca, come se i denti superiori e quelli inferiori fossero disallineati. Sentendo una mano sulla mia, mi resi conto che accanto al letto c'era anche mia sorella Grace. Avvertii la vibrazione del suo terrore, che instillò in me un ben noto desiderio di tranquillizzarla, Grace che mi si rannicchiava contro durante un temporale, odore di cedri, foglie bagnate... Va tutto bene, avrei voluto dirle. Č un momento di grazia.
«Se non operiamo subito, poi dovremo aspettare cinque o sei
giorni perché il gonfiore si riduca», disse il dottor Fabermann.
Cercai di parlare, di acconsentire, ma nessuna delle parti mobili della mia
testa voleva muoversi. Produssi uno di quei gorgoglii soffiati che emettono i
personaggi dei film in fin di vita per le
ferite di guerra. Poi chiusi gli occhi. Ma il dottor Fabermann dovette capire,
perché mi operò quella sera stessa.
Dopo dodici ore di intervento, durante le quali ottanta viti di titanio vennero impiantate nelle ossa distrutte del mio viso per riconnetterle e tenerle unite; dopo che la testa mi fu incisa da un orecchio all'altro affinché il dottor Fabermann potesse scollarmi la pelle dalla fronte e riattaccarmi gli zigomi alla parte superiore del cranio; dopo che mi furono praticate in bocca alcune incisioni per connettere la mandibola inferiore a quella superiore; dopo undici giorni durante i quali mia sorella si librò intorno al mio letto come un impressionabile angelo, mentre suo marito Frank Jones, che disprezzavo e mi disprezzava a sua volta, restava a casa con le mie due nipoti femmine e il nipote maschio, dopo tutto ciò venni dimessa dall'ospedale. Ritrovandomi a uno strano bivio. Avevo passato la giovinezza ad attendere l'occasione per fuggire da Rockford, Illinois, cosa che avevo fatto non appena mi era stato possibile. Ero tornata di rado, con rammarico dei miei genitori e di mia sorella, e quelle poche visite erano state precipitose, umorali e brevi. Nella vita reale, o almeno in quella che concepivo come tale, mi ero data da fare per nascondere i miei legami con Rockford, raccontando alla gente, se proprio dovevo raccontare qualcosa, che ero di Chicago. Ma per quanto dopo l'incidente desiderassi tornare a New York, camminare a piedi nudi sulla morbida moquette bianca del mio appartamento al venticinquesimo piano affacciato sull'East River, il fatto che vivessi da sola lo rendeva impossibile. Avevo la gamba destra e il braccio sinistro incastonati nel gesso. Il mio viso stava entrando nella «fase acuta della guarigione»: lividi neri che si estendevano fino al petto, il bianco degli occhi divenuto di un rosso mostruoso; una testa gonfia, grossa quanto un pallone da basket, con la sommità coperta di punti (un miglioramento, rispetto alle graffette che avevano usato inizialmente). Avevo il cranio parzialmente rasato, e i pochi capelli rimasti erano strinati, fetidi e venivano via a ciocche. Il dolore, grazie al cielo, non era un problema: i danni ai nervi mi avevano lasciato pressoché insensibile, specie dagli occhi in giù, anche se soffrivo di mal di testa lancinanti. Volevo rimanere nei paraggi del dottor Fabermann, che però, con tipico autolesionismo da Midwest, sosteneva che avrei trovato un suo equivalente chirurgico altrettanto capace, se non superiore, a New York. Ma New York era per i forti, e io ero debole, debolissima! Dormivo quasi sempre. Mi sembrava appropriato cullare la mia debolezza in un posto che avevo sempre associato ai miti, ai deboli e agli inutili. E così, tra lo stupore degli amici e dei colleghi di New York, e con dolore di mia sorella, il cui marito si rifiutò di accogliermi sotto il suo tetto (non che io potessi tollerarlo), Grace fece in modo che mi trasferissi a casa di una vecchia amica dei nostri genitori, Mary Cunningham, che abitava a est del fiume Rock, in Ridgewood Road, vicino alla casa dove eravamo cresciute. I miei genitori si erano da tempo trasferiti in Arizona, dove i polmoni di mio padre si stavano lentamente dissolvendo per un enfisema, e dove mia madre aveva finito per credere nel potere di certe pietre dalla forma irregolare, che di notte gli collocava sul petto ansante mentre lui dormiva. «Fammi venire lì, ti prego», implorava al telefono mia madre, che nel frattempo aveva confezionato sacchettini pieni d'erbe e piume e denti. Ma io le dicevo no, per favore. Rimani con papà. «Andrà tutto bene», le dicevo. «C'è Grace che si prende cura di me», e anche in quella mia voce roca ed estranea percepivo una determinazione che mi era familiare, e che senza dubbio lo era per mia madre. Di me stessa mi sarei presa cura io. Come avevo sempre fatto. | << | < | > | >> |Pagina 148Tempo permettendo, a Moose piaceva percorrere a piedi la breve distanza dalla sua casa di Versailles all'ufficio nel Winnebago College, in parte per gli ovvi benefici — l'aria fresca e via dicendo — anche se in realtà il suo interesse per l'aria fresca era quasi solo teorico: si preoccupava della qualità dell'aria (o meglio, della sua sempre più scarsa qualità), gli piaceva respirarla, ma aveva smesso da tempo di dedicarsi al tipo di attività che ne sottolineavano l'esistenza e la freschezza: la caccia, il campeggio, le escursioni, la pesca. L'esercizio fisico di ogni tipo. No. Non era l'aria fresca che spingeva Moose ad andare al lavoro a piedi: era il fatto che, in un'epoca caratterizzata, fra altri sinistri fenomeni, dalla scomparsa dei marciapiedi, proponeva come gesto di rivolta la sua ostinazione a camminare dove un marciapiede ci sarebbe dovuto essere. Potrò anche sembrare stupido, così pensava, mentre scalava siepi divisorie a forma di cuneo fra un parcheggio e l'altro e si faceva agilmente da parte per lasciar passare Chevrolet Suburban dal respiro pesante, ma non certo stupido quanto un mondo senza marciapiedi: anzi, la mia apparente stupidità è solo una frazione di una stupidità incalcolabilmente più grande di cui io sono la cartina di tornasole. Non diceva queste cose ad alta voce, e neppure le pensava più, in quanto tali, ma camminava con un certo orgoglio virile, un'aria insolente e compiaciuta che durava esattamente per gli ottocento metri di State Street che univano Versailles al Winnebago College, dopodiché imboccava un vialetto che scendeva verso i prati del campus, e subentrava la paranoia. Seguendo le sinuosità della stradina, Moose alzò gli occhi verso la trama logora dei rami mezzi spogli, rimandando il più possibile il momento in cui avrebbe incrociato lo sguardo dei due colleghi che gli venivano incontro: Janice Fine, con i suoi occhietti a punta di spillo e la pettinatura da insetto, e Jim Rasmussen, che aveva sempre l'aria di uno che sta lì lì per vomitare. Insieme, otto mesi prima, i due si erano messi a capo di un movimento che mirava a farlo cacciare dal corpo docente. «CIA- O», li salutò infine Moose, calcando la prima sillaba della parola. Fu ricambiato con un tiepido cenno della testa. Dopo averli superati, Moose non riuscì a fare a meno di girarsi a sbirciare con ansia l'inclinarsi cospiratorio delle loro teste, chiedendosi se stessero pianificando la sua futura infelicità e disoccupazione. Si costrinse a proseguire. Avevano paura di lui, ed erano invidiosi — sì, ne era convinto — perché nonostante il suo disonorevole passato, nonostante il fatto che era sottopagato e confinato in una stanzetta buia nel seminterrato dove nessun altro aveva l'ufficio, nonostante queste molteplici umiliazioni, che Moose sopportava con uno stoicismo reso possibile dall'imperativo di un progetto che gli stava ben più a cuore, era un insegnante molto amato. Gli studenti lo trovavano simpatico: scendevano volentieri nella sua tana sotterranea per conquistarsi con mille moine l'ingresso nel suo corso sempre in sovrannumero e per chiedergli ore di tutoraggio diretto che l'università rifiutava poi di pagargli. Perché una manciata di laureandi si andavano a cercare con tanta dedizione un insegnante che aveva una catastrofica difficoltà a guardare la gente negli occhi? Moose non avrebbe saputo dirlo con precisione. Tanto tempo prima, attirava le persone a sé senza nessuno sforzo: per anni interi ricordava di essere stato quasi sempre in compagnia. Quel periodo era finito, ovviamente, e adesso Moose passava un sacco di tempo da solo. Eppure la popolarità di cui godeva presso gli studenti gli faceva l'effetto dell'indugiare di un'ultima calda carezza proveniente da quell'epoca lontana. Ogni semestre, Moose sceglieva due o tre ragazzi fra i più entusiasti e gli faceva lezione individualmente, malgrado l'acuto disagio che gli provocavano le conversazioni a tu per tu, per non parlare dell'assenza di remunerazione. Quelle ore di tutoraggio avevano per lui un'importanza fondamentale; era la missione della sua esistenza: trasmettere la visione che gli aveva cambiato la vita diciotto anni prima, quando ne aveva ventitré, a un gruppetto di persone più giovani e più capaci di portare avanti il lavoro quando lui non ne avrebbe più avuto la forza. Ma come riuscire a fargliela vedere? La domanda lo incalzava, lo perseguitava e lo tormentava. Lui non aveva avuto un insegnante a fianco: aveva riconosciuto quella visione da solo, in un attimo preciso: così come, quando una volta un oculista gli aveva puntato una luce abbagliante negli occhi, Moose si era visto davanti un paesaggio intriso di sangue, terra rossa solcata da fenditure come una distesa di fango dopo la siccità; erano i suoi stessi vasi sanguigni, gli aveva spiegato il dottore, osservando inoltre che quel fenomeno visivo testimoniava un'intelligenza superiore alla media. «Stronzate!», obiettò Moose ad alta voce, ma subito si rimangiò la parola perché stava aprendo con una spinta la porta della Meeker Hall, sede della facoltà di storia. Le segretarie del dipartimento, Amity e Felicity (che nomi ingannevoli), lo squadrarono con un fremito di sospetto mentre raccoglieva la posta dal suo angolino. «CIA- O», disse Moose, lanciando il saluto a tutte e due, e poi allontanandosi con sollievo dal loro territorio. No, l'intelligenza non c'entrava nulla con il tipo di capacità visiva che Moose si augurava per i suoi studenti – ora stava camminando lungo il corridoio, ben attento a non lanciare neanche un'occhiata verso gli uffici dei colleghi per non incrociare lo sguardo di qualcuno ed essere costretto a scegliere se fare conversazione o continuare maleducatamente per la sua strada – perché quella visione non era intellettuale ma istintiva. Una leggera premonizione e poi la piena conoscenza, come un colpo d'accetta. Scese un'umida rampa di scale di cemento fino al piano seminterrato della Meeker Hall e infilò la chiave nella porta del suo ufficio. Ma la trovò... già aperta! | << | < | > | >> |Pagina 272Arrivarono i secondi, e mentre attaccavo il salmone grigliato Thomas trovò il modo di descrivermi un servizio che stava creando su internet, chiamato Persone Comuni.«Non è una rivista; è un database», disse. «Si tratta di questo: sto comprando diritti di opzione sulle storie personali della gente, normalissimi cittadini americani: un meccanico, un contadino, un sommozzatore, una madre con sei figli, una guardia carceraria, un giocatore di biliardo professionista... Ciascuna di queste persone avrà una propria home page – la chiamiamo PersonalSpace® – dedicata esclusivamente alla propria vita, interiore ed esteriore». La mia conoscenza di internet era limitata a qualche esitante giretto sul computer di Oscar in ufficio, ma decisi di fingere di capire. «E che aspetto avranno questi... PersonalSpace?», chiesi. Ciascuno sarebbe stato diverso dagli altri, mi spiegò, per rispecchiare la vita della singola persona, ma sulla base di certe categorie standard: Foto del soggetto e della sua famiglia. Ricordi d'infanzia. Sogni. Pagine di diario – a tutti veniva richiesto di tenere un diario settimanale, e venivano incoraggiati gli aggiornamenti quotidiani. Progetti futuri/Fantasie. Rimpianti/Occasioni perse. E la gente poteva anche aggiungere categorie proprie: Cose che mi fanno arrabbiare. Opinioni politiche. Hobby. «L'idea è di dare a te, che ti abboni al servizio» – Thomas si voltò di scatto verso Philippe, il quale rimase così sconcertato da quella sferzata di attenzione nei suoi confronti che la penna gli cadde di mano e dovette chinarsi a raccoglierla sotto al tavolo, a culo per aria (pantaloni beige logori) – «accesso a ogni aspetto di questa persona, a tutti gli elementi su cui ti fai domande quando, per dire, leggi un articolo del New York Times sui lavoratori delle miniere e ti chiedi: Oh, chissà come dev'essere fare il minatore... Ecco, i miei abbonati potranno avere la risposta a questa domanda in un modo fluidissimo: non dovranno comprare un libro o alzare il telefono o aprire un giornale o andare in biblioteca o scaricare un sacco di stronzate noiosissime da siti tipo Lexis: possono entrare direttamente nella vita di un minatore: i figli, la casa, i traumi infantili, cos'ha mangiato per cena ieri sera, i problemi di salute, i sogni... I minatori sognano il carbone? Sarei proprio curioso di saperlo!» Ci sarebbero stati anche materiali audio e video, mi assicurò Thomas, così la gente avrebbe potuto sentire la viva voce del minatore e guardarlo estrarre il carbone dalla miniera. Victoria aveva ripreso posto al tavolo, e il cameriere le portò la bistecca alla tartara. Geniale. Rimpiansi di non averla ordinata anch'io. «Ora: è chiaro che c'è un sacco di gente che sta già facendo la stessa cosa per conto suo», disse Thomas: la semplice presenza di Victoria l'aveva spinto a mettersi un tantino sulla difensiva. «Non so se hai mai visto qualcuno di quei siti "personali", ma, francamente, sono noiosi da morire. Č la gente sbagliata: ragazzini patiti del web con troppo tempo libero, ma a chi gliene frega niente? Di minatori non ce ne sono, te l'assicuro». «Sì, ma perché... un minatore dovrebbe voler mettersi a fare questo?», chiesi. «Per lo stesso motivo per cui chiunque fa le cose», rispose Victoria. «Fama e fortuna». Philippe non capì. Protese verso Victoria un orecchio ben aperto. «Fama è...?» «Fortuna», ripeté Victoria, spaccando la parola come una noce e ingoiandone il morbido interno. La «fortuna», spiegò Thomas, era rappresentata da un compenso per l'opzione sui diritti, che poteva essere seguito, una volta sviluppato il PersonalSpace, da un vero e proprio acquisto. La fama sarebbe derivata dalla successiva visibilità. «E da questa visibilità potrebbero nascere opportunità incredibili», disse. «Opzioni sui diritti cinematografici, contratti di ricerca...» Dovevo avere un'espressione incredula. (Ero incredula.) «Ok. Facciamo un esempio. La Paramount sta mettendo in cantiere una versione aggiornata di Moby Dick. Allo sceneggiatore serve sapere com'è la vita di un pescatore. Si abbona al nostro servizio, ricevendo così accesso a tutto il materiale che abbiamo: per dire, un pescatore di tonni del Maine e uno che pesca salmoni in Alaska. Legge tutto quello che scrivono sul loro PersonalSpace, ma ancora non gli basta. Allora, per un compenso da stabilire, può proprio passare del tempo in compagnia di una Persona Comune, il tipo dei salmoni, ad esempio, nel suo ambiente: incontrare i suoi amici, salire sulla sua barca, imparare il suo gergo, magari anche pescare con lui: insomma, immergersi nell'atmosfera della vita del soggetto. E voilà! Adesso il pescatore di salmoni è un consulente cinematografico. Chissà, magari lo metteranno anche dentro il film per maggiore autenticità, magari gli daranno un paio di battute... voilà! Adesso il pescatore è diventato un attore. E questo è solo uno dei possibili scenari, ma ce ne sono a decine: contratti editoriali, ospitate in tv, consulenze tecniche nei processi in tribunale... suvvia, siamo la società più litigiosa del mondo, e ciascuno di noi è esperto di qualcosa! Per non parlare poi del product placement e via dicendo. Credimi, la Coca-Cola è pronta a pagare un bel po' di quattrini per infilare il suo marchio in casa di questa gente. Ovviamente con quello dovremo andarci piano, perché qui l'autenticità è tutto. Vogliamo presentare i soggetti nel loro ambiente naturale, fargli fare esattamente quello che farebbero nella vita di tutti i giorni, ma se le aziende sono disposte a pagarli perché usino i prodotti che usano comunque da tutta la vita, io dico: Perché no? Gli faccio da agente, questo fa parte degli accordi, e prendo una percentuale del cinquanta per cento su ogni contratto». Mi aspettavo che si fermasse esausto (io ero esausta; troppo esausta per finire il salmone, che adesso mi appariva sgradevolmente legato al pescatore diventato attore), ma il pistolotto pareva avergli confermato ancora una volta la magnificenza del suo progetto. Dietro gli occhiali dalla montatura metallica, nei suoi occhi luccicava una sorta di follia. Philippe, avendo evidentemente abbandonato ogni speranza di poterlo seguire usando strumenti antiquati e rudimentali come carta e penna, aveva disseppellito un registratore a cassette dalla sua tracolla floscia di pelle, e adesso era intento al delicato compito di spolpare un granchio tenendo sotto il mento di Thomas il bulbo arancione di un microfono. «Però aspetta un attimo», dissi, in parte per dare al francese, che avevo notato sforzarsi molto meno per registrare le mie osservazioni, il tempo di mandar giù qualche boccone. «Ok, uno che fa ricerche ha bisogno di qualche informazione, d'accordo. Ma a chi altro gliene frega qualcosa dei sogni di un pescatore e della storia della sua famiglia? Cioè, non voglio essere offensiva, ma mi sembra un po' come stare a guardare la vernice che si asciuga». «Non è affatto vero», disse Thomas, gettandosi nella sfida con tanto entusiasmo che spostò letteralmente il tavolo di un paio di centimetri nella mia direzione, facendo tintinnare i bicchieri d'acqua. «Con tutto il rispetto, Charlotte, secondo me forse in questo sei l'eccezione che conferma la regola. La maggior parte di noi va disperatamente in cerca di esperienze autentiche. Facciamo lavori d'ufficio, ci occupiamo di cose intangibili; andiamo a pranzo e parliamo con altre persone circondate da cose intangibili. Nessuno fabbrica più niente con le sue mani, e le nostre cosiddette esperienze sono scalare il Kilimangiaro durante due settimane di vacanza o scattare una foto al Dalai Lama a Central Park. Ma abbiamo una consapevolezza fortissima di quello che ci stiamo perdendo! E quindi si crea questa frustrazione, questa smania di uscire da noi stessi. La tv tenta di soddisfarla, così come i libri, i film: ci provano, ma sono tutti talmente mediocri... talmente mediati! Non sono mai abbastanza reali. «Col passare del tempo, il nostro servizio diventerà internazionale: un guerriero Yanomamo in Brasile, un ribelle della Sierra Leone. Un kamikaze Hezbollah... immagina se ci fosse un modo per ascoltare gli ultimi pensieri di una persona del genere mentre si prepara a morire per quello in cui crede! E anche per lui, la visibilità... enormemente maggiore di quella che potrebbe ottenere da un paio di giorni in prima pagina». «Č davvero un'idea rivoluzionaria», commentò Philippe, portandosi il registratore all'orecchio come fosse una conchiglia, probabilmente per accertarsi che stesse funzionando. Lanciò uno sguardo accorato ai suoi granchi non finiti mentre il cameriere glieli toglieva da davanti per portarli via. Victoria, che nel frattempo aveva mangiato con fervore meditativo, ripulì il piatto con un pezzo di pane fino a farlo luccicare. «E in tutto questo io che c'entro?», chiesi. «Neanch'io fabbrico niente. Sono una newyorkese come tanti, circondata di cose intangibili». «Vero», disse Thomas. «Vero. E però per un contadino – e speriamo che fra gli abbonati ci siano anche dei contadini – per un contadino la vita di una modella sarebbe interessante eccome». A questo scopo, aveva creato uno spin off di Persone Comuni che paragonava ai canali premium della tv via cavo: «Persone Fuori dal Comune», ossia persone che stavano vivendo esperienze insolite. Aveva reclutato una donna che stava per farsi un trapianto di fegato, un condannato alla pena di morte, uno che era appena stato eletto al Congresso. Come le persone «Comuni», quelle «Fuori dal Comune» avrebbero usato le categorie dei Ricordi, dei Sogni e del Diario, ma focalizzandosi su una certa situazione e sui suoi effetti. «Il che si lega perfettamente con l'idea di libro che stavo proponendo a Charlotte!», intervenne Victoria, riepilogandola brevemente per Thomas. «La sua lotta interiore, giorno per giorno. Senza volto: il mio viaggio nella follia. O qualcosa del genere». «Perfetto», disse Thomas. «E vedi, se fossi una dei nostri Fuori dal Comune, quel libro potrebbe venir fuori con la massima naturalezza. Mettiamo su il tuo PersonalSpace, lasciamo che ci cresca intorno un bel po' di interesse, e poi andiamo dagli editori con un progetto di libro che specifichi quanti visitatori hai avuto, e gli diciamo: Sentite, qui dentro c'è già un pubblico di settantamila persone, questo è il testo, ed ecco che ti facciamo avere mezzo milione di dollari invece di zero, la cifra che ti darebbero altrimenti». «Duecentocinquantamila», precisai, «al netto della commissione». «Giusto». «E mettiamo che io vada online e apra un PersonalSpace», dissi, provando già un filo di dimestichezza con questi termini, «se dopo qualche mese volessi mollare che succede?» «Non c'è problema», rispose Thomas. «Conserviamo tutti i materiali che hai creato per altri cinque anni, con un'opzione che ci consenta di diffonderli per quel lasso di tempo e di negoziare i contratti che potrebbero derivarne». «Cinque anni», dissi. «Be', tieni conto», disse Thomas, buttando un occhio sul menù dei dolci, e poi mettendolo risolutamente da parte, «che trasformare le persone in comunità di telelavoro non è una passeggiata: gli apriamo gli occhi su certe potenzialità e diamo al loro materiale una forma digeribile, e penso che in cambio meritiamo qualcosa. Altrimenti sarebbe semplicemente: Tà-tà, grazie per avermi aiutato a strutturare bene la mia storia, e tanti cari saluti».
«Capisco», dissi: aveva indovinato dove stavano andando a
parare i miei pensieri. Lo sguardo azzurro di Victoria mi graffiò
con la consistenza della carta vetrata. Non le sfuggiva niente.
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