Copertina
Autore Mircea Eliade
Titolo Tecniche dello Yoga
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2003 [1984], Saggi , pag. 202, cop.fle., dim. 148x220x14 mm , Isbn 978-88-339-1504-3
OriginaleTechniques du Yoga
EdizioneGallimard, Paris, 1948
TraduttoreAnna Macchioro
LettoreGiovanna Bacci, 2004
Classe filosofia , psicologia , religione , paesi: Tibet
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Indice

  7 Presentazione di Mario Piantelli
 11 Prefazione dell'autore
 15 Trascrizione

    Tecniche dello Yoga


 17 1. Le dottrine

       1. Yoga e Samkhya, 17
       2. L'Uomo nel Cosmo, 22
       3. L'equazione dolore-esistenza, 27
       4. Il «sé», 31
       5. La sostanza, 33
       6. Il rapporto «spirito»-«sostanza», 36
       7. Come è possibile la liberazione?, 39

 45 2. Le tecniche

       1. Punto di partenza, 45
       2. La struttura della vita psichica
          normale, 47
       3. Il subcosciente, 50
       4. La tecnica yogica, 55
       5. Le posizioni e la disciplina della
          respirazione, 59
       6. La «concentrazione», 65
       7. Il compito del «dio», 71
       8. Il Samadhi, 74
       9. Alcune osservazioni, 85

 89 3. Yoga e induismo

       1. L'interiorizzazione rituale, 89
       2. La tecnica yogica nelle Upanishad, 94
       3. Lo Yoga e l'induismo, 104

114 4. La tecnica dello Yoga nel buddhismo e
       nel tantrismo

       1. Meditazione e «mirabili poteri» nel
          buddhismo primitivo, 114
       2. La tecnica del jhana, 122
       3. «Conoscenza» ed «esperienza», 127
       4. Il tantrismo, 135
       5. Tantrismo e Hathayoga, 146
       6. L'erotica mistica, 155

163 5. Conclusioni

       1. Origini delle tecniche yogiche, 163
       2. Ultime osservazioni, 170

183 Note

    A. Edizioni e traduzioni dei testi di
       Samkhya e Yoga,182
    B. Intorno all'asana, 185
    C. Il pranayama nelle ascesi extra-indiane,
       185
    D. I «suoni mistici», 188
    E. Sulla letteratura tantrica, 189
    F. Sulla letteratura hathayogica, 190

193 Aggiornamenti bibliografici per il lettore
    italiano
199 Vocabolarietto dei termini tecnici

 

 

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Pagina 11

Prefazione dell'autore


È da gran tempo che l'Occidente si volge con curiosità al pensiero orientale, alle sue filosofie, alle sue gnosi, alle sue «tecniche mistiche»: ci sarebbe quindi da augurarsi di veder scritta, una volta o l'altra, la storia di tanto successo. Ne varrebbe la pena: in attesa non è eccessivo predire che in quel libro lo Yoga occuperà un posto di primo piano. A garantirglielo sarebbe sufficiente la sua importanza intrinseca; prescindendo dall'inseparabile aureola di mistero che in ogni tempo ne ha accompagnato la diffusione fuori dell'India. «Mistero» reale, del resto; ché nessuna tecnica orientale comporta, probabilmente, una iniziazione così dura e così lunga. Di quella élite che si rinchiude negli açram dell'Himalaya, solo una minima parte giunge infatti a penetrare i segreti dello Yoga. Questo esoterismo funzionale e naturale s'è venuto poi complicando di una sovrastruttura poco scrupolosa. Lo Yoga si è gravato, a uso dell'Occidente, del mistero di un alone sospetto, e ciò ne ha accresciuto il fascino, ma ne ha alterato il significato e il valore. Su questo punto molti sono gli argomenti, e c'è invero da restarne imbarazzati: tanti e tali sono gli «Yoga alla portata di tutti» che hanno pullulato nei due mondi. In tutti quegli Yoga, o in quasi tutti, gli autori si arrogavano il compito di «rivelare» i «segreti» millenari della saggezza indù. Noi non vorremmo tirare in ballo la loro buona fede, ma disgrazia vuole che a ogni annunziata rivelazione in fatto di tecnica yogica, abbia sempre corrisposto un nuovo problema il più delle volte insolubile.

Di guisa che, alla fine dei conti, ci si trova costretti a un interrogativo preliminare: che cosa si può dire utilmente dello Yoga senza abusare della curiosità, e senza deludere gli spiriti ansiosi di un'informazione pertinente? Messi in disparte gli studi volti esclusivamente all'indianistica, due soli generi di libri ci appaiono veramente utili:

1) Un trattato pratico delle tecniche dello Yoga.

2) Un'esposizione riassuntiva che abbracci, da una parte, le dottrine e le pratiche dello Yoga, e dall'altra parte la loro storia e la storia del loro influsso nel vastissimo campo della spiritualità indiana.

A nostro avviso il trattato pratico urta contro difficoltà considerevoli e, per molti aspetti, presenta dei pericoli seri per il lettore. Infatti gli elementi essenziali delle pratiche yogiche non possono sempre comunicarsi per mezzo della scrittura, come del resto non è sempre possibile comunicarli mediante un semplice insegnamento orale. La trasmissione delle pratiche yogiche non è concepibile senza una dimostrazione, per così dire, ginnica o fisiologica, concreta e diretta. Fanno parte di queste pratiche dei gesti-atteggiamenti del corpo, per esempio, che solo tenendo sott'occhio il modello possono apprendersi; come pure fanno parte di esse certe «esperienze fisiologiche» (fra le altre, l'accrescimento volontario del calore del corpo) le quali hanno bisogno dell'assistenza e della guida di un maestro. Pertanto, destinato in partenza a essere incompleto, un tal trattato lanciato sul mercato sarebbe pericoloso. Nonostante i debiti avvertimenti, ci sarebbero sempre dei lettori, che si ostinerebbero a mettere in pratica, senza controllo, l'uno o l'altro esercizio, salvo ad andare incontro a gravi rischi. La pratica incontrollata della ritmica respiratoria (pranayama) si è risolta spesso in caratteristiche affezioni polmonari. E occorre ricordare i disordini nervosi a cui si espone l'amatore imprudente di talune tecniche tantriche, in particolar modo delle tecniche della «erotica mistica»?

Un occidentale può continuare a ignorare, nei suoi particolari, la pratica yogica: il fenomeno non ha poi per lui un estremo interesse. Esso pertanto va trattato in quel che è il suo giusto valore, e cioè come una dottrina soteriologica, come una tecnica mistica e come un'autentica storia della spiritualità indiana. Lungi dall'essere appannaggio di una scuola filosofica o di una setta magico-religiosa, le sue tecniche furono adottate e adoperate da tutte le gnosi e da tutte le soteriologie. Nel mio Yoga. Essai sur les origines de la mystique indienne (1936) ho insistito su questo carattere pan-indiano dello Yoga: il presente lavoro vuol essere la documentazione e la conclusione di quello.

[...]

Parigi, ottobre 1946

M.E.

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Pagina 40

La situazione dello spirito (purusha) nella maniera come la concepiscono il Samkhya e lo Yoga, è in certo modo paradossale. Pur essendo puro eterno e intangibile, lo spirito si presta ad associarsi, sia pure illusoriamente, alla materia: e per giungere a conoscenza del suo modo di essere e di «liberarsi», è obbligato a servirsi di uno strumento creato dalla prakrti (l'intelligenza). Non v'è dubbio che, da questo punto di vista, l'esistenza umana ci appare drammatica e anche sprovvista di senso. Se lo spirito è libero, per qual ragione gli uomini sono condannati a patire nell'ignoranza o a lottare per una libertà che già posseggono? Se il purusha è perfettamente puro e statico, perché rende possibili l'impurità, il divenire, l'esperienza, il dolore, la storia? e i problemi possono moltiplicarsi. Ma la filosofia indiana ci ricorda che non bisogna giudicare il «sé» da un punto di vista logico o storico, vale a dire ricercando le cause che hanno determinato lo stato attuale di cose: la realtà va accettata tale quale essa è.

In realtà su queso punto, la posizione del Samkhya si regge con difficoltà: sicché per evitare il paradosso di quel «sé» completamente escluso dal contatto con la natura e tuttavia autore del dramma umano, il buddhismo ha soppresso del tutto l'«anima-spirito», intesa come unità spirituale irriducibile, e l'ha sostituita con gli «stati di coscienza». Il Vedanta invece, per evitare la difficoltà inerente ai rapporti fra anima e universo, nega la realtà dell'universo e lo considera come maya, «illusione». Il Samkhya e lo Yoga non hanno voluto negare la realtà ontologica dello spirito e della sostanza: ragion per cui, soprattutto a causa di tale dottrina, Vedanta e Buddhismo attaccarono entrambi il Samkhya.

Il Vedanta critica anch'esso la concezione della pluralità dei «sé», cosí come la si trova formulata nel Samkhya e nello Voga. I due darçana affermano in realtà che esistono tanti purusha quanti sono gli uomini. E ogni purusha è una monade, ed è completamente isolato: il «sé» infatti non può avere alcun contatto né con il mondo che lo circonda (che deriva dalla prakrti) né con gli altri spiriti. Il cosmo è popolato di purusha eterni, liberi, immobili: monadi fra cui nessun contatto è possibile. Stando al Vedanta, codesta è concezione sprovvista di fondamento e la pluralità dei «sé» è una illusione. In ogni caso, è una concezione tragica e paradossale dello spirito, che viene in tal modo a essere tagliato fuori non solo dal mondo dei fenomeni, ma anche dai «sé» che si sono liberati. Samkhya e Yoga erano tuttavia obbligati a postulare la molteplicità dei purusha; se infatti vi fosse stato uno spirito solo, la salvezza sarebbe stata un problema infinitamente più semplice, e il primo uomo liberato avrebbe portato con sé la liberazione di tutto il genere umano. Se vi fosse stato un solo spirito universale, l'esistenza concomitante degli «spiriti liberati» e degli «spiriti asserviti» non avrebbe avuto luogo a esistere. C'è di più: non avrebbero potuto coesistere, in tal caso, né la vita, né la morte, né la diversità dei sessi e delle azioni ecc. (Karika, 18). Il paradosso è evidente: tale dottrina riduce l'infinita varietà dei fenomeni a un principio solo, la materia (prakrti); fa derivare da un'unica matrice l'universo fisico, la vita e la coscienza, e afferma tuttavia la pluralità degli spiriti nonostante che, per loro natura, essi siano essenzialmente identici. A questo modo essa dottrina congiunge ciò che in apparenza sembra tanto diverso - il fisico, il vitale, il mentale - e isola ciò che, in India soprattutto, appare unico e universale: lo spirito.

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Pagina 55

4. La tecnica yogica


Nella meditazione dello Yoga punto di partenza è la concentrazione di un oggetto solo: un oggetto fisico (mezzo delle sopracciglia, punta del naso, un oggetto luminoso ecc.), un pensiero (una verità metafisica), o anche Dio (Içvara). Questo concentrarsi fisso e continuo prende il nome di ekagrata («in un punto solo») e si ottiene integrando il flusso psico-mentale (sarvarthata, attenzione multilaterale, discontinua e diffusa, Yoga-Sutra, III, II). Nello stesso modo si definisce la tecnica yogica: yogah cittavrttinirodhah (Yoga-Sutra, I, 2).

L' ekagrata, concentrazione in un solo punto, ha come risultato immediato la censura pronta e lucida di tutte le distrazioni e di tutti gli automatismi mentali che dominano e, in realtà, fanno la coscienza profana. Il profano, abbandonato all'arbitrio delle associazioni (generate alla loro volta dalle sensazioni e dalle vasana), trascorre la sua giornata in balia di un'infinità di momenti disparati e come esteriori a lui stesso. I sensi, oppure il subcosciente, inducono continuamente nella coscienza oggetti che la dominano e la modificano a seconda della loro forma e intensità. Le associazioni disperdono la coscienza, le passioni la violentano, la «sete di vita» la tradisce proiettandola al di fuori. Perfino nei suoi sforzi intellettuali l'uomo è passivo: destino del pensiero profano (tenuto a freno non già dall' ekagrata, ma unicamente da concentrazioni occasionali, kshiptavikshipta), è infatti di essere «pensato» da oggetti. Sotto l'apparenza del «pensiero» si cela uno sfavillio indefinito e disordinato che le sensazioni e le parole e la memoria alimentano. Primo dovere dello yogin è di pensare, cioè di non lasciarsi pensare. Ecco perché la pratica dello Yoga prende inizio dall' ekagrata, la quale sbarra il flusso mentale e costituisce pertanto un «blocco psichico», una continuità salda e unitaria. L'esercizio della ekagrata mira al controllo delle due generatrici della fluidità mentale: l'attività sensoriale (indriya) e l'attività del subcosciente (samskara). Il controllo consiste nella capacità di intervenire quando si voglia e con immediatezza nel funzionamento delle due fonti di «vortici» mentali (cittavrtti). Uno yogin può ottenere a suo piacimento la discontinuità della coscienza: in altre parole egli può provocare, quando e dove vuole, la concentrazione della sua attenzione in un «solo punto» e farsi insensibile a ogni altro stimolo sensoriale o mnemonico. Tramite l' ekagrata si ottiene una volontà vera, il potere, cioè, di governare liberamente un importante settore dell'attività bio-mentale. Va da sé che l' ekagrata non può realizzarsi se non attuando esercizi e tecniche, nei quali la fisiologia tiene un posto capitale. Non sarebbe possibile, per esempio, raggiungere l' ekagrata se il corpo fosse in posizione faticosa o semplicemente difficile, e neppure se la respirazione fosse disorganica e aritmica. Ecco perché, secondo Patañjali, la tecnica yogica implica molte categorie di pratiche fisiologiche e di esercizi spirituali (detti anga, «membri»), che bisogna aver appreso se si vuole raggiungere l' ekagrata e, infine, la concentrazione suprema, il samadhi. Questi «membri» dello Yoga li si può considerare come un complesso di tecniche, e insieme come tappe dell'itinerario ascetico e spirituale di cui ultimo termine è la liberazione definitiva. Essi sono: 1) i raffrenamenti (yama); 2) le discipline (niyama); 3) le attitudini e le posizioni del corpo (asana); 4) il ritmo della respirazione (pranayama); 5) l'emancipazione dell'attività sensoriale dal gorgo degli oggetti esterni (pratyahara); 6) la concentrazione (dharana); 7) la meditazione yogica (dhyana); 8) samadhi (Yoga-Sutra, II, 29; con questa sutra Patañjali inizia l'esposizione della tecnica dello Yoga, che continua poi nel III libro).

I due primi gruppi, yama e niyama, costituiscono i preliminari inevitabili di qualunque ascesi: non presentano quindi una peculiarità specificatamente yogica. I «raffrenamenti» (yama) purificano da quei peccati, che una qualsiasi morale denunci, ma che tuttavia la vita sociale tolleri. Ora i comandamenti morali non possono, in questa sede, venire infranti - come verosimilmente accade nella vita civile - senza che ne consegua un rischio immediato per colui che è alla ricerca della redenzione.

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Pagina 85

9. Alcune osservazioni


Ricapitoliamo le tappe del lungo e difficile itinerario proposto da Patañjali. Dal primo momento, egli ha uno scopo preciso: liberare l'uomo dalla sua condizione umana, conquistare la libertà assoluta, realizzare l'incondizionato. Il metodo comporta molteplici tecniche (fisiologiche, mentali, mistiche), tutte, però, hanno un elemento comune: il loro carattere antiprofano, o meglio antiumano. Il profano vive in società, si sposa, fonda una famiglia: lo Yoga prescrive la solitudine e l'assoluta castità. Il profano è «posseduto» dalla propria vita: lo yogin rifiuta di «lasciarsi vivere»; al movimento continuo oppone la posizione statica, l'immobilità dell' asana; alla respirazione agitata aritmica multiforme, oppone il pranayama e pensa finanche di poter giungere alla completa ritenzione del respiro. Al flusso caotico della vita psico-mentale, risponde con la «fissazione del pensiero in un punto solo», primo passo verso il ritrarsi definitivo dal mondo fenomenico che il pratyahara raggiungerà. Tutte le tecniche yogiche invitano a uno stesso gesto: fate esattamente l'opposto di quello cui la natura umana vi costringe. Dall'isolamento e dalla castità, al samyama non c'è soluzione di continuità. L'orientamento è lo stesso: reagire contro l'inclinazione «normale», «profana», «umana» infine.

L'opposizione alla vita non è cosa nuova, né in India né altrove, ed è facile riconoscervi la polarità arcaica e universale fra il sacro e il profano. Da sempre, il sacro è stato qualche cosa di «tutt'altro» dal profano: giudicato a questa stregua, lo Yoga di Patañjali e tutti gli altri Yoga hanno in sé un valore religioso. L'uomo che rifiuta la sua condizione, e scientemente reagisce a essa tentando di eliminarla, è un uomo assetato di incondizionato, di libertà, di «potere»: assetato, in poche parole, di una delle in numeri modalità del sacro. C'è poi tutta una lunga tradizione indiana che sta a convalidare quel «rovesciamento di tutti i valori umani» che lo yogin persegue: in linguaggio vedico il mondo degli dèi è infatti esattamente l'opposto del nostro (la mano destra del dio corrisponde alla mano sinistra dell'uomo, un oggetto rotto. quaggiù è intatto nell'aldilà ecc.). Col rifiuto da lui opposto alla vita, lo yogin imita un modello trascendente: Içvara. E anche se la parte del Dio nella lotta per l'affrancamento si dimostra assai modesta, l'imitazione di una modalità trascendente serba il suo valore religioso.

Si noti che nell'interrompere i suoi rapporti di solidarietà con la vita, lo yogin procede per tappe. Comincia col sopprimere le abitudini vitali meno essenziali: le comodità, le distrazioni, l'inutile perdita di tempo, la dispersione delle forze mentali ecc. Di poi cerca di unificare le funzioni vitali più importanti: la respirazione, la coscienza. Disciplinare il proprio respiro, ritmarlo, ridurlo a una sola modalità - la modalità del sonno profondo - equivale a unificare tutte le varietà respiratorie. Sul piano della vita psico-mentale, l' ekagrata persegue lo stesso fine: fissare il flusso della coscienza, realizzare una continuità psichica in cui non vi siano interruzioni, «unificare» il pensiero. Anche la più elementare delle tecniche yogiche, asana, propone un fine consimile: perché se mai si giunge ad aver coscienza della «totalità» del proprio corpo, sentito come «unità», lo si può solo sperimentando una delle sue positure ieratiche. L'estrema semplicità della vita, la calma, la serenità, la statica posizione del corpo, la ritmizzazione del respiro, la concentrazione in un punto solo ecc., sono tutti esercizi che mirano a un identico fine: abolire la molteplicità e la disgregazione, reintegrare, unificare, totalizzare.

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Pagina 114

4.

La tecnica dello Yoga nel buddhismo e nel tantrismo


1. Meditazione e «mirabili poteri» nel buddhismo primitivo

Assai poche notizie sicure si hanno intorno al Buddha e al suo messaggio originale. Morto l'Illuminato, il buddhismo diviene rapidamente ciò che probabilmente non era al tempo in cui il suo iniziatore era ancor vivo; diventa cioè una «religione» (culto delle reliquie ecc.), e una «filosofia» (interpretazione dialettica del messaggio del Buddha). Non tocca a noi occuparci qui del buddhismo in quanto religione o filosofia. Quel che ci interessa è la presenza delle tecniche yogiche nel corso della patetica storia del buddhismo: patetica per via delle molte e intense «assimilazioni», «interpretazioni», «eresie» alle quali essa ha dato origine, sia nell'India che nelle altre vaste regioni asiatiche in cui lo zelo dei missionari lo introdusse. Per scarsi e approssimativi che siano i dati di cui disponiamo possiamo, tuttavia, tracciare con qualche esattezza un quadro sommario della posizione del Buddha nei confronti della spiritualità sua contemporanea. Buddha si oppone tanto al ritualismo brahmanico che all'ascetismo esagerato e alle speculazioni metafisiche. Per conseguenza, si oppone alla ortodossia brahmanica (al «sacrificio», ai filosofumeni relativi alla identità atman-Brahman) e, nel contempo, alle innumeri «eresie» mistico-ascetiche sviluppatesi in margine alla società tradizionale. Ma il problema del dolore e del liberarsi dal dolore - così come il Buddha l'ha sentito e formulato - è comune a tutta la spiritualità post-upanishad e in tal senso corrisponde in toto alla filosofia del Samkhya-Yoga. Il ritornello buddhista sarvam duhkham, sarvam anityam, «tutto è doloroso, tutto è transitorio», non si oppone in nulla al Samkhya-Yoga o al Vedanta, onde è avvenuto che entrambi se ne impadronirono. Il Buddha si oppone dunque alla ortodossia rituale e speculativa e si oppone altresì alle «eresie» mistico-ascetiche: nello stesso tempo accetta però, anzi assume, i principali leitmotiv della spiritualità indiana. Come si spiega una situazione così paradossale?

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