Copertina
Autore David El Kenz
CoautoreP. Butterlin, B. Eck, A. Bérenger-Badel, F. Bérenger, E. Benzoni, B. Lellouch, C. Gantet, H. Guineret, T. Bouchet, O. Le Cour Grandmaison, E. Marienstras, N. Beaupré, T. Ter Minassian, A. Delissen, C. Ingrao, F. D'Almeida, V. Houillon
Titolo Il massacro nella storia
SottotitoloDall'antichità a oggi
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008, , pag. 322, cop.ril.sov., dim. 15,2x23,5x2,3 cm , Isbn 978-88-02-07945-5
OriginaleLe massacre, object d'histoire
EdizioneGallimard, Paris, 2005
TraduttoreAntonio Ieva
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe diritto , storia criminale , storia: Europa , storia: America , filosofia , guerra-pace
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Indice


    IX Presentazione - Il massacro, oggetto di analisi storica
       di David El Kenz
   XXI Introduzione - Il massacro nei meandri della storia del diritto
       di Éric Wenzel
  XXXV Ringraziamenti
XXXVII Autori


  3 PRIMA PARTE - ANTICHITÀ

  5 Capitolo 1 - La raffigurazione del massacro nella storia del Vicino Oriente antico:
                 dallo stereotipo al terrore calcolato
    di Pascal Butterlin
    Dall'immagine stereotipata alla pratica, p. 6
    Dal massacro normato alla norma del massacro: il problema neo-assiro, p. 10

 17 Capitolo 2 - Saggio per una classificazione dei massacri nella Grecia classica
    di Bernard Eck
    1. Conflitti di vicinato tra Greci, p. 24
    2. Guerra tra Greci e barbari, p. 26
    3. Il massacro come arma politica, p. 29
    4. Guerra civile, p. 33
    5. I casi patologici, p. 39
    Conclusione generale, p. 46

 49 Capitolo 3 - Caracalla e il massacro degli Alessandrini: tra storia e leggenda nera
    di Agnès Bérenger-Badel
    Le cause del massacro, p. 52
        1. Motivazioni meschine secondo gli autori antichi, p. 52
        2. Una risposta a una sommossa?, p. 53
    Lo svolgimento dei massacri, p. 54
        1. Dei dati contradditori, p. 54
        2. Una localizzazione imprecisa, p. 56
        3. Una cronologia incerta, p. 56
    La natura dei racconti: romanzo o storia?, p. 57
        1. Il peso degli stereotipi, p. 57
        2. Un'esagerazione del numero delle vittime, p. 57
    Appendice, p. 58

 61 Capitolo 4 - Moranu li Franchiski! I Vespri siciliani e la loro trattazione nei secoli
    di François Bérenger
    Una rivolta antifrancese, p. 62
    I Vespri siciliani: flagello o giustizia di Dio, p. 64
    Da luogo di memoria a oggetto scientifico, p. 67


 71 SECONDA PARTE - DAL RINASCIMENTO ALL'ILLUMINISMO

 73 Capitolo 5 - I sacchi delle città durante le guerre d'Italia (1494-1530):
                 i contemporanei di fronte al massacro
    di Elena Benzoni
    Il "viaggio in Italia" di Carlo VIII: il massacro come cesura storica, p. 74
    Il sacco di Brescia: militari e religiosi, vinti e vincitori di fronte
    alla carneficina, p. 75
    Il cavaliere Bayard a Brescia: la legittimazione del sacco, p. 78
    Il sacco di Roma: un massacro "straordinario", p. 79
    Conclusione, p. 80

 83 Capitolo 6 - Potere assoluto del sultano ottomano.
                 I massacri sui fronti iraniano ed egiziano 1514-1517
    di Benjamin Lellouch
    I fatti, p. 83
    Un'ipotesi d'interpretazione, p. 87
    Il massacro dei prigionieri: la realizzazione di un ideale politico, p. 89
    Epilogo. Storia e memoria, p. 90

 93 Capitolo 7 - La civilizzazione dei costumi e le guerre di religione:
                 una soglia di tolleranza ai massacri
    di David El Kenz
    La crudeltà, simbolo delle guerre di religione, p. 95
    Patriottismo monarchico contro passione religiosa, p. 98

103 Capitolo 8 - Il massacro della guerra dei Trent'anni (1618-1648) e
                 la storiografia tedesca (tra il 1850 circa e l'inizio del XXI secolo)
    di Claire Gantet
    1. Gustav Freytag e l'estetica della distruzione, p. 105
        Le «Bilder aus der deutschen Vergangenheit» (Immagini del passato tedesco), p. 106
        La struttura della distruzione, p. 107
        La «convinzione» nella storia, p. 109
        L'insegnamento del massacro: i manuali scolastici, p. 111
    2. Bernhard Erdmannsdörffer e l'interpretazione della distruzione, p. 112
    3. Günther Franz, nazista e storico, p. 114
        I vantaggi della prudenza, p. 115

119 Capitolo 9 - La scienza della guerra come antidoto al massacro
    di Hervé Guineret
    1. Guerra e umanità, p. 120
    2. Lo spazio e il tempo del conflitto, p. 125


131 TERZA PARTE - IL MASSACRO IN EPOCA MODERNA

133 Capitolo 10 - Massacri romantici? Daumier, Hugo, Michelet
    di Thomas Bouchet
    Presenze, p. 134
    Deviazioni, p. 136
    Massacratori, p. 137

139 Capitolo 11 - La conquista dell'Algeria: la guerra totale
    di Olivier Le Cour Grandmaison
    Le guerre di conquista e di colonizzazione, p. 141
    Sugli arabi, p. 141
    Guerra coloniale: guerra totale, p. 146

153 Capitolo 12 - Guerre, massacri o genocidi? Riflessioni storiografiche
                  sulla questione del genocidio degli amerindi
    di Elise Marienstras
    Demografia e genocidio, p. 154
    Gli errori della demografia storica degli amerindi: ignoranza e partito preso, p. 154
    «Il più grande disastro demografico nella storia del mondo», p. 155
    Il genocidio nel XX secolo, p. 157
    Fatalità o genocidio? La controversia degli storici, p. 158
    Il "fattore malattie", p. 158
    Gli storici alla ricerca del colpevole, p. 158
    La guerra biologica è avvenuta?, p. 162
    La guerra come genocidio, p. 163
    Guerre e massacri, p. 163
    I massacri dell'epoca coloniale, p. 164
    Gli Stati Uniti contro gli autoctoni (1775-1865), p. 165
    La conquista dell'Ovest dopo la guerra di Secessione, p. 166
    Il «Vanishing Indian»: genocidi ed etnocidio, p. 168
    La politica del governo americano: dai trattati tra nazioni alla spoliazione;
    dall'assimilazione tramite segregazione alla demoralizzazione, p. 168

173 Capitolo 13 - Scrivere per raccontare, scrivere per tacere, scrivere per uccidere?
                  la Letteratura di guerra di fronte ai massacri e alle violenze
                  del fronte ovest (1914-1918)
    di Nicolas Beaupré
    Gli ostacoli all'espressione delle violenze estreme, p. 174
    L'esperienza del massacratore: un indicibile in sé?, p. 174
    La censura di guerra, p. 175
    La negazione letteraria: dalla guerra al dopoguerra, p. 176
    Il racconto delle violenze estreme, p. 177
    La violenza tramite l'altro, p. 177
    Raccontare la propria violenza: pulire, cacciare, abbattere, p. 178
    I segni di una totalizzazione del linguaggio e della letteratura?, p. 180
    Elementi di conclusione, p. 181

183 Capitolo 14 - Il caso armeno: il ruolo «massacro» nel discorso negazionista
    di Taline Ter Minassian
    Il contesto: massacro e Prima Guerra Mondiale, p. 184
    La denuncia dei massacri, tema centrale della propaganda di guerra, p. 185
    La collusione armeno-russa: il massacro "meritato"?, p. 186
    Massacro vs genocidio: dalla realtà soggettiva all'oggettivazione, p. 187
    La questione dell'intenzionalità: massacro con premeditazione?, p. 187
    Massacro o genocidio: un criterio quantitativo?, p. 189
    Il massacro, un'atrocità comune?, p. 189
    L'impossibile paragone, p. 189
    Il contesto internazionale e il Vicino Oriente, p. 190

193 Capitolo 15 - Da un post scriptum da Tokyo alla globalizzazione del macabro.
                  Il massacro dei coreani del Kantò (settembre 1923)
    di Alain Delissen
    Testimone diretto: Paul Claudel, ambasciatore di Francia, p. 193
    Avvenimento locale e forma dell'oggetto, p. 194
    Contesti e contorni, p. 194
    Forme elementari di un massacro tipo, p. 195
    Scatenarsi della violenza, p. 195
    Tripartizione dei protagonisti, p. 195
    Interferenze del senso sociale, p. 196
    Il taglio delle fonti, p. 197
    Linee d'interpretazione: storie, globalizzazione e immagini, p. 198
    Un massacro nella storia problematica: la traiettoria dell'Occidente?, p. 198
    Massacro razziale, massacro di Stato: un oggetto della storia del XX secolo?, p. 199
    Dalle storiografie nazionali all'estetica planetaria del macabro, p. 201

205 Capitolo 16 - Antropologia storica del massacro:
                  il caso degli «Einsatzgruppen» in Russia
    di Christian Ingrao
    Pesare il massacro. Gli «Einsatzgruppen»: istituzioni, missioni,
    pratiche repressive, p. 206
    Pensare il massacro, p. 210

217 Capitolo 17 - Massacro/i in Internet. O come far circolare la memoria iconica
                  del crimine di massa contemporaneo
    di Fabrice D'Almeida
    Una memoria selettiva dei massacri, p. 219
    Le logiche mediatiche, p. 221
    Confusione dei generi e banalizzazione, p. 224

227 Conclusione - Filosofia e politica del massacro. Saggio per una decostruzione
    di Vincent Houillon
    Pensare il massacro, p. 227
    Decontestualizzare il massacro?, p. 229
    Filosofia e massacro: l'occultazione filosofica del massacro
    nella filosofia della storia, p. 233
    La biopolitica del massacro: sovranità e nuda vita "massacrabile", p. 235

241 Note
299 Bibliografia
309 Indice dei nomi


 

 

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Pagina IX

Presentazione
Il massacro, oggetto di analisi storica



Ciò che alcun essere umano desidera non è necessario proibirlo, poiché si esclude da sé. È precisamente l'accento posto sul comandamento "non uccidere", che ci dà la certezza che discendiamo da una stirpe infinitamente lunga di assassini che avevano nel sangue il piacere del delitto, come forse noi stessi ancora. Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915).


La criminologia definisce il massacro come un assassinio collettivo di numerose persone contemporaneamente; si distingue dall'omicidio seriale in cui gli assassinii, sebbene ripetuti, restano isolati e dal suicidio di massa in cui la morte del gruppo è auto-inflitta. Questa definizione strettamente giuridica, però, non tiene conto della dimensione storica e socio-politica del massacro. Il termine massacro viene coniato in Francia verso il 1100, ma entra nell'uso comune in Occidente solo nel XVI secolo. Risale al piccardo antico machecler che indica la mazza, o maglio, e che deriva dal latino popolare matteuca. È dunque legato alla tecnica di uno strumento rozzo; designa un'operazione violenta caratterizzata da una natura distruttrice. Il termine conosce poi due evoluzioni semantiche: da una parte indica un "mattatoio" e, nel XVI secolo, entra nel vocabolario venatorio per definire per metonimia la testa del cervo che si conserva come trofeo; dall'altra parte, dal XII secolo assume il significato di "esecuzione di un gran numero d'individui". Nel XVI secolo, la diffusione del termine a causa delle guerre di religione tra cattolici e protestanti, lo porta verso la sua accezione moderna. Nel 1556, appare in un celebre pamphlet, Histoire mémorable de la persécution et saccagement du peuple de Mérindol et Cabrières et autres circonvoisins appelez Vaudois, che narra le stragi dei valdesi di Provenza – cristiani provenienti da un'eresia medievale e ricongiunti alla riforma calvinista – avvenute nel 1545. All'epoca ha ormai assunto il significato di assassinio in massa di individui senza difesa. Esso implica dunque uno squilibrio tra carnefici e vittime. Durante la notte di San Bartolomeo, nell'agosto 1572, i pamphlet degli ugonotti contro la regina Caterina de' Medici, denunciata come una nuova Jezabel responsabile dell'assassinio dei suoi sudditi, rendono popolare il termine; appaiono successivamente i neologismi massacreur e massacrement. L'affermazione del vocabolo si spiega dunque con l'emergere dello scontro religioso.

Tuttavia, «non c'è niente di più consueto, niente di più tristemente banale nella storia dell'umanità che i massacri» scrive Pierre Vidal-Naquet. Nel Mesolitico, gli archeologi trovano le prime testimonianze di massacro in Sudan, tra il 12.500 e il 10.000 a.C. Tra quelle sepolture qadiane, il 40% dei 59 uomini, donne e bambini seppelliti sono trafitti da selci rimaste conficcate nelle loro ossa. Nell'area culturale della Linearbandkeramik (zona della Germania e dell'Austria odierne), alcuni paleontologi hanno scoperto delle fosse comuni di parecchie decine di scheletri di bambini, donne e uomini, straziati da colpi di ascia e di accetta in pietra levigata, databili intorno al 6000-5000 a.C. Sembra che durante il Neolitico, in Europa occidentale, l'istituzione del sistema agro-pastorale, della territorializzazione delle comunità e della gerarchizzazione sociale abbia portato, prima dell'ingresso dell'umanità in una fase di guerre intense, a una crescita esponenziale dei massacri. All'estremo opposto dello scenario cronologico, il XX secolo costituisce l'età dei massacri su grande scala (cifre superiori a un milione di vittime). La modernità, sinonimo di prosperità, stabilità e benessere sociale, è anche l'ineguagliato periodo storico del moltiplicarsi delle atrocità contro i civili. Tra il 1900 e il 1987 – compresa l'epoca delle due guerre mondiali – quasi 170 milioni di civili sono stati uccisi (70 milioni a causa di persecuzioni di Stato e 100 milioni nel corso di guerre internazionali), mentre 35 milioni di soldati sono caduti sul campo di battaglia.

Il fenomeno del massacro è tuttavia multiforme. Jacques Sémelin lo definisce come un «crimine di massa»: una distruzione brutale e deliberata di civili in gran numero, sovente accompagnata da atrocità che, a prima vista, sembrano non "servire" a nulla. Sémelin distingue il massacro di prossimità (corpo a corpo) dal massacro a distanza (armi da fuoco, bombe, ecc.), il massacro bilaterale (guerra civile) dal massacro unilaterale (uno Stato contro il suo popolo), il "massacro di massa" dal massacro ridotto, e il genocidio propriamente detto che mira all'estirpazione totale di una collettività secondo i criteri definiti dal persecutore. Secondo questa classificazione, che completeremo distinguendo massacro esibito e massacro occultato, prende forma un'evoluzione storica: i massacri a distanza, genocidari e occultati, sembrano essere fenomeni contemporanei. A partire dal XIX secolo, i progressi tecnologici della guerra originati dall'invenzione della polvere da cannone, non solo trasformano i soldati in "carne da cannone" sin dalla guerra di Secessione (1861-1865), ma, a partire dalla Seconda Guerra mondiale, a causa dei bombardamenti aerei, fanno aumentare anche le perdite fra i civili che risultano molto spesso superiori a quelle dei militari. Differenti dai massacri di guerra, i genocidi deriverebbero da altri fattori: alla fine del XIX secolo, il darvinismo sociale, dopo aver giustificato la conquista coloniale, alimenta ormai ideologie razziste e sociali contro gli europei stessi; durante il primo conflitto mondiale, la guerra totale annulla il confine tra militari e civili e infligge violenze estreme alle popolazioni; all'indomani dei trattati di pace, si accetta che delle minoranze siano senza protezione giuridica nazionale; infine, la vita politica tra le due guerre è militarizzata e trasforma l'avversario in nemico assoluto. Secondo George L. Mosse, il trionfo degli Stati totalitari sarebbe l'espressione di questa "brutalizzazione" delle società europee; essi portano avanti ormai la distruzione delle comunità etniche, religiose o sociali, istituendo campi di concentramento e di sterminio, ordinando delle marce forzate oppure pianificando delle carestie allo scopo di occultare al meglio ciò che, nei fatti, è un crimine di massa.

La penalizzazione del massacro, conseguente alla definizione giuridica del genocidio, lo sviluppo degli studi sul genocidio ebreo e sui massacri perpetrati dai regimi comunisti e, infine, la domanda sociale di un riconoscimento di queste tragedie, hanno portato a studiare i massacri attuali e antichi sulla base di un modello in cui lo Stato è l'attore essenziale delle stragi. Questa visione globalizzante sottovaluta però il fattore della guerra civile e internazionale in un buon numero di massacri, li decontestualizza e non riesce a cogliere l'insieme dei moventi storici di ogni crimine di massa lungo la storia dell'umanità. Tuttavia, mette in luce le ambiguità proprie della scrittura storica del massacro, tra rappresentazione socio-politica, storia erudita e memoria. Essa necessita, quindi, di uno spostamento dell'attenzione dello studioso sul modo in cui è stato presentato il massacro nel discorso storico.

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Pagina XIII

Il massacro: tra storia e memoria

Tuttavia, le connotazioni storiografiche, politiche ed emozionali del massacro genocidario insegnano molto agli studiosi dei tempi antichi. Di fronte all'evocazione dell'eccidio della notte di San Bartolomeo, per esempio, lo studioso sarà colto da un'emozione causata dai genocidi contemporanei piuttosto che da una tragedia vecchia più di quattro secoli. Egli sa inoltre che l'orizzonte di aspettativa dei suoi lettori o uditori assocerà le fosse comuni del XVI secolo a quelle contemporanee. Nel 1994, nel suo film La Regina Margot, il cineasta Patrice Chéreau s'ispira ai documentari sulla recente guerra in Bosnia per rappresentare sullo schermo il massacro di San Bartolomeo. Ma, a contrario, lo storico può insistere per fini pedagogici su un teatro della crudeltà per superare il pericolo di anacronismo e rivelare il paesaggio dei corpi smembrati dalle armi da taglio del XVI secolo. A questo scopo, per rivelare la brutalità della strage, si servirà dell'estetica del massacro e potrà mettere a confronto il linguaggio manierista de Il massacro del Triumvirato (1566) di Antoine Caron con il linguaggio del cinema gore degli anni Ottanta in voga nell'universo delle nuove generazioni. D'altronde, per neutralizzare le sue emozioni, lo storico non può, anch'egli, scegliere la distanza dello spettatore del cinema d'orrore consapevole che il gore è il "regno del falso"? Solo in una certa misura poiché, a differenza dei massacri cinematografici, le vittime, annientate due volte dalla morte e dall'oblio, sono state realmente assassinate.

L'episodio della notte di San Bartolomeo è stato alimentato da una memoria ugonotta che ha considerato la strage parigina come un'ecatombe del popolo di Dio, decimato da un nuovo Faraone. La storiografia borbonica e poi repubblicana ha, a sua volta, abbondato nella stigmatizzazione della crudeltà sanguinaria dei Valois, opposta alla tolleranza di Enrico IV, il re che promulgò l'editto di Nantes. La memoria comunitaria, quella della Chiesa riformata, e la storiografia tradizionale hanno costruito un evento fondatore: un avvenimento che ha il doppio valore di cesura e di origine e che appartiene alle costruzioni narrative delle identità protestante e francese. Da un punto di vista generale, il massacro è così l'emblema stesso, in senso negativo, di questo avvenimento fondatore. «La commemorazione nel lutto esercita la stessa azione degli avvenimenti fondatori positivi (il Mayflower o la presa della Bastiglia per esempio) nella misura in cui essi legittimano i comportamenti e le disposizioni istituzionali capaci d'impedirne il ripetersi» scrive Paul Ricoeur. La categoria degli avvenimenti fondatori ha per caratteristica di allontanarsi molto dall'evento originario, l'infra-significativo (che avviene nel mondo fisico), ma anche da quello dello storico (che s'inscrive in una catena di causalità). In effetti, il massacro costituisce un atto così terrificante da suscitare narrazioni ideologiche, erudite e comunitarie per dargli un senso e, tra queste, anche il rifiuto di un discorso: una specie di testo silenzioso. Inoltre, il massacro è sovente inesplicabile perché è occultato dagli attori della strage. La decisione dell'eccidio di San Bartolomeo, così, non ha lasciato alcuna traccia archivistica ed è stata immediatamente coperta da versioni ufficiali. Tuttavia, questo non significa che l'evento fondatore sia un'invenzione. È unico ma, allo stesso tempo, comune all'avvenimento "infra-significativo" e all'avvenimento storico sui quali poggia. Lo storico deve sbrogliare l'intrico di questi tre avvenimenti e interpretarne il senso.

Le rappresentazioni storiche dei genocidi del XX secolo conoscono tensioni analoghe a quelle suscitate dai massacri anteriori, ma in vivo. Accanto alle analisi erudite, ci sono anche delle memorie personali che danno consistenza all'avvenimento fondatore. Ricordando un colloquio tenuto nel 1994 nella cittadina di Civitella della Chiana, in provincia di Arezzo, sul tema dell'eccidio durante il quale cinquant'anni prima 175 uomini furono massacrati dai nazisti, Eric J. Hobsbawm sottolinea il disagio dei partecipanti, storici professionisti e abitanti del posto che furono testimoni del massacro. I primi concordarono sulla formulazione delle questioni relative alle atrocità naziste, mentre i secondi restarono legati alla loro esperienza vissuta, unica e incomunicabile allo stesso tempo. «Difatti – conclude il ricercatore – sulle questioni di fondo, l'unanimità degli storici presenti non può non colpire per il contrasto con il disordine e la diversità delle emozioni contraddittorie che agitavano i partecipanti».

Di fronte al "dovere della memoria", parecchi storici aspirano a stabilire una distanza necessaria alla determinazione scientifica dei fatti. Così, uno dei pionieri della storia dei totalitarismi, George L. Mosse, costretto a fuggire dalla Germania nazista a causa delle sue origini ebree, scrive che «per fare la storia bisogna sempre tenersi ai margini, scomporre freddamente un meccanismo, non assumere un atteggiamento da vittima per quanto ciò possa essere difficile rispetto a movimenti che vi sono stati ostili, come il nazionalsocialismo». Altri specialisti interrogano le implicazioni metodologiche delle fonti archivistiche, iconografiche e orali che contribuiscono a dare corpo all'avvenimento. Raul Hilberg classifica le diverse raccolte documentarie riguardanti il genocidio degli ebrei e ne analizza la composizione, lo stile, il contenuto e lo sfruttamento. Infine, alcuni ricercatori si dedicano a storicizzare il ricordo dei massacri e dei genocidi così come è percepito dalle generazioni successive. Lo studio di Annette Wieviorka riguarda la memoria francese della Shoah. All'indomani della guerra, solo la memoria della deportazione viene celebrata senza alcuna considerazione specifica per l'esperienza dei deportati ebrei, dispersi e poco numerosi. Bisogna aspettare la fine degli anni Cinquanta perché appaia una memoria della Shoah: Israele, da parte sua, erige il memoriale Yad Vashem e in Francia le associazioni ebraiche difendono l'unicità dell'avvenimento.

Gli storici del passato e del presente confluiscono, pertanto, nello studio di un avvenimento tragico, caratterizzato dal suo groviglio narrativo. A fianco della descrizione il più vicino possibile alla verità fattuale delle tragedie, il rapporto dialettico tra storia e memoria costituisce una «storia di secondo grado» che giustifica un'impresa di ampio respiro dedicata ai massacri dall'antichità fino al XXI secolo.

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Pagina XVI

Come si scrive la storia del massacro?

Iscrivendosi in un ritorno a una riflessione sul massacro come oggetto, questo lavoro si propone di restituire con prudenza la posizione dello storico di fronte alle violenze estreme. Rifiutando ogni visione teleologica di una storia del massacro dall'antichità ai giorni nostri, ha invece l'ambizione di delineare i contorni delle diverse modalità storiche della scrittura del massacro. I 19 contributi intendono dunque superare l'opposizione delle cose (realtà del massacro) e delle parole (discorso sul massacro) per scoprire il senso globale di questa pratica. Studiare i sistemi del discorso, tuttavia, non significa affatto negare il carattere irriducibile della realtà del massacro. La prima legittimità della storia è la verifica scrupolosa dei fatti: questo regime di veridicità, proprio del contratto dello storico con il passato e il presente, distingue ìl racconto storico da quello di finzione e lo preserva da eventuali falsificazioni.

Piuttosto che proporre un'enciclopedia fattuale dei massacri, che non riuscirebbe a essere completa, questo volume mira a chiarire l'enunciato storico del massacro; sottolinea le condizioni che presiedono alla sua iscrizione storica (diversità dei metodi storici) e al suo intreccio narrativo con le memorie sociali delle stragi. Indaga quindi la diversità dei periodi, dei luoghi, delle civiltà e degli universi mentali al fine di stabilire elementi di confronto tra i differenti racconti di massacro pur rivelando delle logiche tipiche di ciascun contesto. La ripartizione degli studi privilegia le epoche moderna e contemporanea. In effetti, il massacro assume, a partire dal XVI secolo, un ruolo importante nel pensiero occidentale. Rispetto alle epoche anteriori, la storiografia avverte invece degli scrupoli e delle esitazioni a parlare di massacro per le stragi massicce, nella misura in cui i contemporanei non sembrano averne avuto una piena e chiara consapevolezza.

Nella sua introduzione, dopo aver mostrato la penalizzazione tardiva del massacro da parte dei legislatori, Eric Wenzel analizza le conseguenze della criminalizzazione dei massacri sulla definizione della sovranità. Sottolinea così le ambiguità della procedura giuridica, in particolar modo la distinzione tra lo Stato come soggetto astratto e i suoi agenti specifici. La prima parte, intitolata Antichità, raggruppa gli studi dedicati ai massacri nell'antichità e nel Medioevo. Il contributo di Pascal Butterlin mostra come il massacro nel regno assiro non fosse un tabù, ma che anzi fosse riprodotto sui monumenti come un simbolo della sovranità. Tale esibizione dei massacri venne considerata dalla storiografia occidentale una prova della barbarie delle civiltà orientali. A partire da una lettura degli storici greci, Bernard Eck compila una classificazione dei massacri nella Grecia classica e sottolinea come l'assassinio di massa resti un procedimento eccezionale utilizzato per consolidare un dominio politico. Attraverso la denuncia dell'imperatore Caracalla (211-217) da parte degli storici latini, Agnès Bérenger-Badel studia la funzione del massacro nel discredito di uno stile politico. François Bérenger presenta la storiografia siciliana ed esamina come il massacro dei Vespri siciliani (30 marzo 1282) abbia dato origine a un luogo di memoria fondatore di quella comunità.

La seconda parte, intitolata Dal Rinascimento all'Illuminismo, tratta dei massacri più recenti, la cui eco è ancora viva nella cronaca ufficiale. Elena Benzoni interroga la pertinenza della cesura accademica del Rinascimento. Le testimonianze delle Guerre d'Italia fanno dei massacri perpetrati dalle armate straniere il simbolo di una rottura irrimediabile tra un'età d'oro, quella delle città-Stato del Quattrocento, e l'era delle egemonie francese e spagnola del Cinquecento. A partire dall'esempio del massacro dei Mammalucchi e delle Teste Rosse da parte delle armate ottomane all'inizio del XVI secolo, Benjamin Lellouch interroga ìl ruolo dei massacri nella storiografia di un impero all'epoca in piena espansione. Mostra come l'esecuzione a catena dei prigionieri di guerra costituisca una cerimonia di Stato in cui il sultano può esercitare la sua autorità indiscussa. Questa violenza di Stato fa eco, pur senza continuità storica, a quella dell'antico Stato assiro. David El Kenz discute della pertinenza del modello storiografico della civilizzazione dei costumi, stabilito da Norbert Elias, per analizzare le reazioni dei contemporanei dinanzi ai massacri delle guerre di religione. Egli dimostra come la promozione di uno spazio pubblico creato intorno all'autorità reale conduca alla formazione di una soglia di tolleranza di fronte alle violenze estreme. A partire dai massacri della guerra dei Trent'anni (1618-1648), Claire Gantet analizza l'elaborazione storiografica tedesca della tematica della "catastrofe nazionale" di un paese diviso e impotente. Infine, Hervé Guineret mobilita la storia delle idee per osservare la razionalizzazione della guerra da parte del polemologo Adam Von Bülow, un uomo del tardo Illuminismo che denunciò il preconcetto secondo cui guerra e violenza estrema andrebbero di pari passo. Contro la concezione della guerra totale di Clausewitz, l'autore mette in discussione la relazione diretta tra guerra e massacro: la brutalità non è la diretta espressione della logica militare.

La terza e ultima parte, intitolata Il massacro in epoca moderna, riguarda otto disastri ancora molto vivi nei ricordi e nei dibattiti. Thomas Bouchet rileva le difficoltà a immaginare íl massacro nella cultura romantica, uscita dal trauma dell'era rivoluzionaria. Olivier Le Cour Grandmaison mostra come, nel XIX secolo, i massacri della conquista dell'Algeria siano stati occultati in nome dell'esaltazione dell'espansione coloniale e degli imperativi militari. Élise Marienstras interroga la pertinenza del concetto di genocidio per classificare i massacri degli amerindi in America del Nord. Rileva come siano prevalse a lungo nella storiografia americana delle giustificazioni ideologiche, quali il provvidenzialismo storico o la "necessità storica" risultanti dall'evoluzione demografica. Tuttavia, ricusa una storia genocidaria nella misura in cui i massacri coloniali sono sì il frutto di una precisa volontà di distruzione delle popolazioni, ma solo localmente, senza preparazione d'insieme su scala statale. Taline Ter Minassian illustra come il massacro possa essere una nozione centrale per quegli storici che, paradossalmente, negano il genocidio armeno. Mentre íl confronto storico tra i genocidi dovrebbe sottolinearne la singolarità, il suo studio mette in luce la forte carica polemica storiografica e politica che ha spinto a una sorta di "competizione" tra le vittime. Nicolas Beaupré osserva nelle testimonianze letterarie della Grande Guerra le difficoltà nel mostrare l'orrore al quale gli autori parteciparono, sebbene adottassero talvolta delle strategie per svelare le atrocità commesse dai militari. Alain Delissen esamina il racconto del massacro nelle culture giapponese e coreana, a partire dalla strage degli emigrati coreani in Giappone durante il terremoto del Kantó nel 1923. Egli stabilisce un legame tra il massacro e la storiografia neoorientalista, che paradossalmente riproduce una visione della crudeltà asiatica tipica degli occidentali. Christian Ingrao fa appello all'antropologia storica per analizzare l'intenzione "massacratrice" degli Einsatzgruppen, le temibili unità dell'armata tedesca, nel 1941. Egli presenta il modo in cui le vittime vengono abbrutite, dall'immagine della preda di caccia a quella dell'animale domestico destinato al macello. Tuttavia, l'immagine dell'animalità deve essere impiegata con prudenza perché gli animali non si massacrano tra di loro: la disumanizzazione appartiene ancora all'umanità. Infine, Fabrice d'Almeida insiste sulle deformazioni della percezione cronologica e geografica del massacro, a partire dalle fonti iconografiche catalogate dalle agenzie di stampa su Internet. In conclusione, Vincent Houillon s'interroga sulla contraddizione tra lo sforzo di contestualizzare l'approccio storico al massacro e la "decostruzione" del massacro, promosso dalla filosofia contemporanea, che collocherebbe l'originalità dell'evento tragico fuori del tempo. La comprensione filosofica del massacro necessita allora di una critica radicale dello Stato sovrano, all'origine della distruzione dell'umanità.

Lo sguardo diacronico su questa serie di massacri non comporta un senso della storia, dal minimo massacro all'epoca dei Greci fino al XX secolo genocidario. Non è questo il progetto dell'opera. Né, tantomeno, mira a un livellamento delle stragi lungo i secoli. Il lavoro si propone, al contrario, di distinguere ciascun massacro prendendo in considerazione tre problematiche comuni:

1. Il massacro è un avvenimento che suscita differenti metodi storici e sovrappone diverse tradizioni storiografiche e memoriali. La dissimulazione delle violenze estreme da parte dei carnefici e la domanda di riconoscimento da parte delle vittime rafforzano la complessità della sua comprensione. Il regionalismo siciliano, la guerra dei Trent'anni nelle lenti della storiografia nazionalista tedesca, la conquista dell'Algeria o la controversa storiografia sulla conquista dell'America del Nord e il negazionismo del genocidio armeno offrono degli esempi di strumentalizzazione dell'evento del massacro.

2. La condanna dei massacri religiosi nel XVI secolo, l'utopia di una guerra civilizzata nel XVIII secolo, i massacri orientali, dall'antica Assiria all'Impero ottomano e al Giappone contemporaneo, agendo da contrasto per gli europei, costituiscono degli esempi significativi della fiducia in un progresso proprio alla cosiddetta modernità occidentale. Tuttavia, il massacro è un fatto ricorrente nella storia dell'umanità. Il ricorso all'antropologia storica, a condizione che sia fortemente contestualizzata, sembra preservare da ogni paradosso tra modernità civilizzata e ritorno dei delitti di massa.

3. La questione delle fonti è, infine, al centro dello studio sui massacri. Sebbene il lavoro dello storico non si riduca a un censimento e a una classificazione delle fonti, queste ultime guidano comunque il primo approccio a una civiltà confrontata ai suoi massacri. Ogni discorso rivela una propria sensibilità rispetto alla ferocia. Se è costruito negli storici greci e latini, i criteri politici e religiosi sono riconoscibili nelle testimonianze sulle guerre d'Italia o sulle guerre di religione. La letteratura del Romanticismo e del periodo successivo alla Prima Guerra mondiale presenta delle testimonianze auto-censurate sugli orrori della guerra, mentre i siti internet, al contrario, abbondano di immagini brutali, ma deformano la realtà cronologica del massacro.

Questo libro si colloca sul versante della storia e non della memoria, difficilmente confutabile quando costituisce l'origine dolorosa di una comunità. Tuttavia, la memoria collettiva alimenta anche le fonti storiche, in particolar modo per gli specialisti dell'antichità che sovente conserva traccia di un massacro solo nella trasformazione della coscienza sociale. Studiare le violenze estreme dal punto di vista della loro rappresentazione non significa affatto che esse siano banali ma, al contrario, ne sottolinea la natura atipica decostruendo una pluralità di discorsi eruditi e memoriali che mirano a esorcizzare l'indicibile dei corpi mutilati, talvolta esibiti, talvolta occultati. Di conseguenza, questo lavoro aderisce modestamente a ciò che dichiara Jürgen Habermas: «Non possiamo continuare a costruire un contesto nazionale di vita, che ha tollerato un'inaudita aggressione contro la sostanza stessa della solidarietà umana, che alla luce delle tradizioni che resistono alla prova di uno sguardo istruito da questa catastrofe morale, di uno sguardo ormai diffidente». Questo ammonimento, destinato originariamente ai tedeschi, dovrebbe applicarsi all'insieme delle comunità nazionali, partigiane e religiose, poiché sarebbe incredibile che una di esse non celasse il massacro, a diversi gradi, nella sua storia. Attraverso lo studio del massacro, lo storico persegue l'ambizione di stabilire delle cesure in un passato unificato: egli assume così la vocazione critica della sua disciplina.

DAVID EL KENZ

Université de Bourgogne

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Pagina XXV

Limitare la violenza, punire i massacratori: il contributo del diritto canonico e della Chiesa nell'epoca medievale


Nella storia del diritto occidentale, nel senso più ampio del termine, i primi tentativi di limitazione dei massacri e la repressione dei loro esecutori vengono dall'istituzione ecclesiastica e dal diritto canonico. L'istituzione di un corpo di dottrine giuridiche e morali da parte del diritto della Chiesa è una vulgata nella storia del diritto. L'intervento delle autorità religiose nella città terrestre è precoce, sin dal IV secolo e dal passaggio dell'Impero romano al cristianesimo. Esso sfocia nella costituzione delle prime collezioni canoniche, di cui sono parte integrante le regole di vita sociale e la condanna della violenza, prima che la Chiesa non esalti essa stessa certe forme di violenza generatrici di massacri. Ad ogni modo, l'istituzione di Cristo cerca, sin dalla tarda antichità e almeno lungo tutto il Medioevo, di porre un freno ai conflitti e alla brutalità. La scomunica di Teodosio I nel 390, dopo che ebbe fatto sterminare parecchie migliaia di cristiani di entrambi i sessi – cristiani all'origine di un massacro commesso contro le truppe pagane al servizio dell'imperatore – dal vescovo di Milano Ambrogio, è una delle manifestazioni più precoci e spettacolari di questa politica. Quest'azione non deve tuttavia celare la volontà pugnace di un uomo di Chiesa di far valere l'onnipotenza dell'autorità spirituale sul potere temporale. Il fatto che l'imperatore sia un massacratore è solo il pretesto, e non la finalità, dell'intervento; un'azione che si concepisce unicamente perché le vittime sono cristiane.

A dire il vero, durante gran parte del Medioevo, il diritto canonico resta sordo a dei massacri che sono per la maggior parte commessi contro i musulmani, i pagani e gli eretici e che, proprio per questa ragione, trovano una certa legittimazione nella celebre massima, forse apocrifa, "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi". Pronunciata in occasione della crociata contro gli albigesi, attraversa i secoli medievali un po' come le coraniche "Uccideteli ovunque li incontrerete" (sura 2, versetto 187), o "Sterminate gli increduli sino all'ultimo" (sura 8, versetto 7) anteriori di sei secoli. L'introduzione della Guerra Santa, pienamente iscritta nella Charia con la jihad poi "sostituita" da una costruzione dottrinale nel cristianesimo romano intorno al X secolo, dà a parecchi massacri medievali e posteriori un fondamento legale o, almeno, una forma di legittimazione.

Tuttavia, massacrare non è sempre permesso, anche in seguito o a margine di avvenimenti religiosi. L'intervento di un Dio vendicatore e pronto al castigo di ogni devianza comportamentale ispira allora più timore di un insieme di prescrizioni giuridiche o dogmatiche. Dio non è sempre dalla parte dei massacratori, anche qualora fossero condotti dall'autorità dei successori di Pietro, e la sua collera si esprime con alcune brucianti disfatte viste come punizioni esemplari. Così, nel 1038, la soldatesca agli ordini dell'arcivescovo di Bourges Aimone subisce l'ira divina dopo aver commesso l'irreparabile, in questo caso il massacro di parecchie migliaia di fedeli rifugiati in un edificio parrocchiale. E ancora, nel 1396, la disfatta dei franco-borgognoni a Nicopoli è la conseguenza funesta di sevizie perpetrate la vigilia su prigionieri ottomani. Dio punisce dunque le violenze collettive. Non rientra nelle possibilità umane di sostituirlo con delle norme giuridiche. Tuttavia proprio la guerra medievale e le sue manifestazioni permettono alla Chiesa, per il tramite di qualche dottore ispirato, di elaborare un insieme di regole, quantomeno morali, destinato a impedire di conseguenza la violenza massacratrice.

Dopo Sant'Agostino, che nella sua Città di Dio evoca la questione della guerra giusta e quella dei comportamenti bellici proibiti (furti, profanazíoní e, soprattutto, massacri), è a Tommaso d'Aquino che si devono i fondamenti intellettuali di una condanna della crudeltà nelle pratiche di guerra, primo quadro dei massacri passati e futuri. L'autore della Summa teologica, nel riconoscere l'esistenza di guerre giuste, precisa che queste non hanno altro scopo che la pace. Una «guerra condotta correttamente» rispetta un certo numero di regole, nelle quali il massacro, irregolarità della guerra, non trova posto. Il jus ad bellum (diritto della guerra) è affiancato da un jus in bello (diritto nella guerra e, cioè, i comportamenti che l'accompagnano) destinato a evitare il "male". Dopo í greci, íl cristianesimo fonda, a partire dal problema centrale della guerra, le basi dottrinali di quello che diventerà un corpus di "convenzioni universali".

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Pagina XXVI

Il massacro all'epoca del diritto internazionale: la "lunga marcia" di un riconoscimento giuridico

La "nascita" del diritto internazionale in epoca moderna permette l'elaborazione di un insieme dottrinale teorico, chiamato a una messa in pratica più tardiva dal diritto positivo. Il massacro allora trova progressivamente e lentamente, a partire dal problema della guerra e delle sue sevizie micidiali, seri fondamenti filosofici, teologici, poi giuridici, per una successiva condanna giudiziaria.

Seguendo i teologi Vitoria e Suarez, il celebre avvocato olandese Grozio elabora nel suo Diritto della guerra e della pace, a partire dai concetti di diritto naturale e di jus gentium, una riflessione propriamente giuridica sul diritto della guerra. Precisa così quello che è permesso in guerra o quello che non lo è, ossia un insieme di disposizioni che gli Stati devono impegnarsi a rispettare. Pensatore a cavallo dei secoli XVI e XVII, Grozio all'epoca della guerra dei Trent'anni attinge dagli antichi una serie di esempi proposti come altrettante norme di diritto. Il giurista olandese pone la questione della liceità del massacro in una guerra giusta (coercitiva o punitiva), essendo inteso che, commesse nel quadro di una guerra ingiusta, le sevizie sono assolutamente riprovevoli. Grozio cita parecchi massacri riportati dai classici greci e latini (Tito Livio, Euripide ecc.) che gli permettono di rispondere positivamente: egli ne trae la conclusione che il massacro è una manifestazione inevitabile della guerra, una catastrofe infausta, che non può inficiare la liceità della guerra. Il diritto della guerra accorda ai massacri una legittimazione a contrario. Ciò non toglie che l'opera di Ugo Grozio sia completamente improntata alla moderazione. Tramite il suo appello – che è anche quello degli altri autori citati – alla creazione di una società delle nazioni e il rifiuto delle guerre ingiuste, quelle della sua epoca, Il diritto della guerra e della pace condanna parecchi secoli di pratiche di guerra incontrollate. L'opera successiva di Emer de Vattel, all'epoca dell'assolutismo illuminato, prolunga e rinforza il rispetto delle regole belliche, in particolare riguardo ai prigionieri e alle popolazioni civili.

Sono queste disposizioni che permetteranno, alla fine, un pieno e completo riconoscimento del massacro come delitto capitale quando saranno elaborate, tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX secolo, le grandi convenzioni internazionali. Ad ogni modo, l'epoca contemporanea riassume l'incapacità dei politici e dei giuristi di trovare una soluzione agli assassinii di massa: problema di definizione giuridica, assenza ancora a lungo di tribunali competenti e di una procedura adeguata. Altrettante difficoltà che, bene o male, saranno risolte solo dopo la Seconda Guerra mondiale. Nel frattempo, tuttavia, il riconoscimento del massacro come oggetto di legge nasce da due fallimenti: quello del Trattato di Sèvres del 1920, inadeguato a giudicare i turchi per il "genocidio" armeno, e quello del Trattato di Versailles, che, con l'articolo 227, conta di far condannare Guglielmo II per la sua responsabilità del primo conflitto mondiale e che i Paesi Bassi rifiutano all'epoca di estradare. È da notare che è la questione armena a far citare, pare per la prima volta, il termine "massacro" in due atti ufficiali: la Conferenza di pace di Parigi e poi il Trattato di Sèvres, mai applicato. L'estensione dei due conflitti mondiali è senza dubbio all'origine di spettacolari passi avanti nella gestione dei crimini di massa, in un contesto più ampio di produzione delle grandi convenzioni internazionali. Così nel 1929 la celebre Convenzione di Ginevra intende evitare i massacri dei prigionieri e rivendica il divieto di uccidere i feriti e di esercitare rappresaglie sui civili. È l'atto di nascita del crimine di guerra per il diritto internazionale. Nel 1937 viene progettata la creazione di un Tribunale internazionale contro il terrorismo, la cui storia recente dimostra come possa sfociare in autentiche forme di massacro. Nel 1945-1946, il celebre Tribunale di Norimberga riprende la formula di "crimine contro l'umanità" pronunciato dall'Accordo di Londra nell'agosto 1945, dopo essere stato formulato nel secolo precedente e prima di essere adottato dalle Nazioni Unite nel 1948 — anno del processo ai crimini di guerra dei giapponesi. Il secondo dopoguerra mostra de facto la necessità di concepire un diritto internazionale che permetta un intervento extra-nazionale, mentre le convenzioni firmate dopo il 1918 non sono arrivate così lontano. Il professore Raphael Lemkin, inventore del "genocidio", fa appello all'elaborazione di un codice penale internazionale. Ma le difficoltà concrete vengono a galla e piuttosto a lungo; difficoltà che un buon numero di giuristi sollevano durante quegli anni cruciali. Se la definizione del genocidio è ammessa rapidamente, essa soffre di manifeste imprecisioni che continuano a porre problemi più o meno concreti. Che cosa è per esempio un gruppo "nazionale"? Che distinzione si deve fare tra "gruppo etnico" e "razza"? A partire da quale cifra, macabra contabilità, si può parlare di genocidio? Precisiamo che il neologismo "genocidio" trae origine dalla comprensione di un fenomeno eccezionale — quello del massacro su ampia scala di una popolazione perseguitata — il che comporta qualche eventuale difficoltà nell'applicare questo termine a crimini di massa commessi su scala nazionale; situazione infelice se si tiene conto della maggior parte dei genocidi contemporanei. I progressi del diritto in materia di lotta contro i massacri, pertanto, sono evidenti solo dopo il 1945. All'indomani di Norimberga, molti Paesi inseriscono nella loro legislazione penale i nuovi crimini "inventati" sull'esempio della Francia, che integra al suo diritto penale i «crimini contro l'umanità» (art. 211-1 del nuovo Codice penale), fra cui il genocidio e la «pratica sistematica di esecuzioni sommarie», e i crimini di guerra (art. 212-1), riconosciuti dall'agosto 1944. Sono entrambi imprescrittibili dal 1964.

C'è tuttavia molta strada tra la "coppa giuridica e le labbra giudiziarie", come testimonia la lentezza della pratica penale internazionale. Dopo Norimberga in effetti, bisogna aspettare il 1993 perché il Consiglio di Sicurezza dell'ONU adotti la risoluzione 827 per la creazione di un Tribunale Penale Internazionale (TPI) per il processo dei crimini commessi nella ex Jugoslavia. Certamente, con il TPI, si assiste alla nascita di veri "giuristi senza frontiere". In seguito le cose sembrano accelerare, se si considera l'istituzione di un secondo tribunale competente per la vicenda ruandese (1994) e il recente "recupero" dell'ex presidente Milosevic nel 2001. Alcuni Stati regolano i loro problemi interni sull'esempio della Francia e delle condanne di Barbie, Touvier e Papon a metà anni Novanta. L'istituzione della Corte Penale Internazionale (CPI), prevista dal Trattato di Roma del 1998, prolunga gli strumenti adottati da più di mezzo secolo per evitare l'impunità di fatto dei massacratori. Così, una certa "globalizzazione" del diritto sembra aver permesso un riconoscimento pieno e completo del massacro come nozione e come evento totalmente giuridici.

Attualmente, il massacro è preso in piena considerazione dal diritto internazionale penale e dal suo "braccio secolare", la CPI, la cui competenza si estende ufficialmente dal luglio 2002 ai genocidi, ai crimini contro l'umanità e ai crimini di guerra; più avanti, forse, anche alle aggressioni militari ingiustificate. Ma questi tre delitti enormi non sono di per sé dei massacri. Racchiudono altre forme di violenza (stupro, apartheid, schiavitù, sequestro di persona ecc.). Il massacro tuttavia è presente nello statuto della CPI adottato nel 1998:

— nel genocidio (art. 6), per «l'assassinio di membri del gruppo» (etnico, nazionale ecc.) e la «sottomissione intenzionale del gruppo a condizioni di vita atte a causarne la distruzione fisica totale o parziale»;

— nel crimine contro l'umanità (art. 7), per «l'assassinio» e «lo sterminio» di civili;

— nel crimine di guerra (art. 8), per «l'omicidio intenzionale» (a condizione di esercitarsi collettivamente), «dirigere intenzionalmente degli attacchi contro i civili [...] », «lanciare intenzionalmente un attacco sapendo che causerà incidentalmente delle perdite in vite umane tra i civili», «attaccare o bombardare [...] città, paesi, abitazioni o edifici che non sono difesi e che non sono obiettivi militari», «uccidere o ferire un nemico che, avendo deposto le armi o non avendo più i mezzi per difendersi, si è reso a discrezione», addirittura «uccidere o ferire a tradimento individui appartenenti alla nazione o all'esercito nemico».


Questo insieme macabro rinvia alla definizione classica proposta in epoca moderna, ma porta anche le tracce di preoccupazioni più contemporanee (ansie sulla guerra cosiddetta "pulita", azioni terroristiche come quella dell'11 settembre ecc.).

La CPI è un organo complementare, non superiore, rispetto alle giurisdizioni nazionali e il suo intervento ha luogo solo in caso di inadeguatezza di queste ultime o di assenza di volontà di azione penale. Le pene previste contro gli autori di assassinii collettivi sono pesanti e possono arrivare fino all'ergastolo in caso di circostanze aggravanti (art. 77).

Il 2003 è stato soprattutto l'anno dell'organizzazione amministrativa dell'istituzione, ma quest'ultima ha recentemente ricevuto la sua prima inchiesta: si tratta della questione segnalata dal presidente ugandese Museveni nel dicembre 2003 contro l'Esercito di Resistenza del Signore (ERS), accusato di numerosi crimini, in particolare un gran numero di esecuzioni sommarie, oltre al ricorso sistematico e forzato ai bambini-soldato.

Considerato che gli assassinii collettivi sono commessi principalmente nel quadro di azioni belliche, è lecito chiedersi se, in definitiva, la guerra non debba essere riconosciuta nella sua totalità come un crimine contro l'umanità e i militari dei "massacratori" in potenza. La garanzia di immunità ottenuta dagli Stati Uniti per un anno (nel 2002) per i propri militari in seguito a operazioni condotte sotto l'egida dell'ONU non rientra in questa logica? Le manifestazioni contro l'intervento americano in Iraq sembrano essere state condotte in uno spirito di anti-guerra generalizzato, cosa un po' sorprendente rispetto alla storia del XX secolo. Tutto ciò è lontano dall'esaurire le difficoltà e le lacune del diritto.

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Pagina XXXI

Se vi sono lacune giuridiche, sono innanzitutto da cercare nell'esigenza primaria della distinzione tra carnefici e vittime – cosa che alcuni grandi massacri contemporanei hanno recentemente reso molto difficile – e nel riconoscimento del presunto "assassinio di massa etnico" come in Ruanda.


Dai carnefici alle vittime: dalle esigenze del diritto a quelle della morale

Se il massacro possiede oggi un innegabile valore giuridico e comprende questi crimini enormi puniti a livello planetario, ciò non toglie che un certo "sbocco" del diritto in materia concerna il castigo degli autori e il suo corollario, le esigenze delle vittime. Su questi due punti, il diritto e le pratiche giudiziarie sono ancora lontani dall'aver esaurito le difficoltà.

Gli uomini tuttavia non hanno atteso l'epoca contemporanea e la redazione di norme precise per giudicare i massacratori, veri o supposti che fossero. L'introduzione della democrazia nella Francia rivoluzionaria ha permesso quella del massacro nelle pratiche di giustizia, cosa impossibile sotto l'Ancien Régime. Così Luigi XVI viene processato, tra gli altri capi d'accusa, come tre volte massacratore: responsabile dei morti del 14 luglio 1789, delle fucilazioni del Champ-de-Mars nel 1791, e dello spargimento di sangue, provocato dal raddoppiamento delle guardie svizzere, avvenuto nell'agosto 1792 e che porta all'avvento della repubblica. Il processo è tanto politico quanto il precedente, del 1794, al rappresentante in missione Carrier; anche questo è il processo di un massacratore patentato, al quale si contestano gli annegamenti di Nantes, le esecuzioni sommarie di "briganti", ovvero rivoltosi, e di "patrioti". La Rivoluzione francese mostra anche tutte le difficoltà di valutare la responsabilità dei carnefici e la presa in conto delle vittime. Così Luigi XVI viene condannato sebbene i deputati considerino che l'ex re abbia agito "al di fuori dall'umanità"(!) e che i suoi atti appartengano all'"inumanità". Al contrario, Carrier è riconosciuto colpevole di pratiche assassine su persone che avevano perso, da parte loro, ogni traccia di umanità dall'anno precedente. Gli insorti vengono considerati come una "razza abominevole", paragonati addirittura agli animali; estranei alla città al pari dell'insieme dei contro-rivoluzionari, essi non godono della giustizia di una nazione sovrana alla quale non appartengono più.

Le difficoltà attuali sono di altro genere, sebbene i due esempi precedenti introducano la responsabilità eventuale dello Stato e dei suoi agenti. Se si considera, non senza fondamento, che gli Stati siano gli autori per "natura" dei crimini di massa, alcuni tra i giuristi ammettono l'incompatibilità del diritto internazionale penale con l'esigenza della sovranità. Uno Stato sovrano non può, per definizione, essere sottoposto a una legge, penale o meno che sia. Questo equivarrebbe a dimenticare che la Corte permanente è il frutto di un trattato firmato, come è consuetudine, da potenze sovrane che agiscono in piena libertà. Ciò significa che riconoscere la colpevolezza di uno Stato significherebbe punire l'insieme dei suoi abitanti, senza distinzione dei colpevoli. Per questo, al momento attuale, solo gli individui possono essere oggetto di un'azione penale e il fatto che degli uomini di Stato siano perseguiti non impegna minimamente la responsabilità collettiva di una nazione. Il paradosso è evidente, nella misura in cui l'oggetto stesso del diritto internazionale penale è la repressione di atti illeciti commessi dagli Stati nel loro rapporto tra essi. Trincerarsi dietro lo statuto di uomo di Stato o di esecutore degli ordini è una tattica consolidata. Si può pensare che con la CPI e la fine di una giustizia ad hoc la punizione dei massacratori, che a lungo hanno «beneficiato di un'immunità di fatto o di diritto», sia arrivata a una tappa giuridica e giudiziaria capitale, cosa che è de jure possibile solo nella settantina di Paesi che, per il momento, hanno ratificato la convenzione (cioè la metà dei firmatari del 1998). I massacratori potenziali sono oggi perfettamente designati: i responsabili militari e civili, capi di Stato compresi, per i tre tipi di crimini collettivi ammessi dal diritto internazionale. Ricordiamo che all'incirca 350 individui sono stati accusati o condannati per crimini internazionali in questi ultimi anni o nel momento in cui scriviamo. Se l'impunità zero è l'obiettivo della CPI, che ne è delle vittime?

Queste ultime sono sicuramente oggetto di attenzione prima ancora della costruzione di un apparato di giustizia contemporaneo. L'attenzione riservata dai Greci ai loro concittadini nell'antichità ha già a che fare con un riconoscimento delle vittime, in un processo antropologico d'identificazione. Le posizioni di Tommaso d'Aquino, Grozio o Vattel rilevano simili considerazioni, estese all'insieme del mondo cristiano. Più tardi, la Convenzione di Ginevra dà a questo riconoscimento un valore universale. Ma le vittime identificate possono essere anche gli Stati: a Norimberga, le imputazioni sono ammesse per crimini contro la pace a partire dalle aggressioni militari portate contro la sovranità e l'integrità dei paesi invasi.

Le vittime individuali restano tuttavia "dimenticate dalla storia", come lo sono dalla giustizia, in particolar modo nel quadro di procedure inquisitorie la cui vocazione primaria è la punizione e, solo secondariamente, il risarcimento. Già nel 1944, Raphael Lemkin faceva appello a una seria revisione del diritto internazionale, così come è nato tra i due conflitti mondiali; un diritto incapace, secondo questo grande internazionalista, di lottare efficacemente contro gli autori di crimini di massa e, con un po' di esagerazione, largamente indifferente alla sorte delle vittime. Il diritto internazionale penale attuale, fondato sul metodo accusatorio e la consuetudine, dovrebbe parzialmente colmare queste carenze. Le esigenze della morale, per esempio in ciò che riguarda il genocidio, non hanno affatto bisogno di un quadro giuridico strettamente definito per consentire il raggiungimento di una giustizia a vocazione planetaria.

Fondamentalmente, l'applicazione del diritto dovrebbe permettere proprio una netta distinzione tra carnefici e vittime, visto che i primi giustificano i loro atti con un'abile inversione dei rapporti e i secondi non hanno, a oggi, trovato che una debole eco. Dall'entrata in vigore molto recente della CPI, le prime denunce non sono venute da vittime o da ONG, ma da Stati che, «per timore di vedere i loro responsabili divenire i futuri bersagli della corte permanente, si atteggiano a presunti martiri». Senza una precisa distinzione degli uni e degli altri da parte della giustizia, si assiste(rà) a una sicura «fine del diritto» (Alain Joxe).

Anche per ciò che riguarda l'indennizzo e il risarcimento concreto dei "massacrati", i progressi del diritto sono moderati. Se una protezione morale e psicologica delle vittime di massacri da parte della CPI è prevista (art. 75), lo è anche il loro indennizzo tramite un fondo... il cui impiego resta vincolato all'assemblea degli Stati firmatari del Trattato di Roma del 1988. Tanto varrebbe dire che la punizione dei massacratori sarà senza dubbio la prima pratica del nuovo tribunale, cosa che non costituisce tuttavia un elemento capitale nei rapporti tra diritto e massacri nella storia.


Il riconoscimento del massacro dal diritto e il suo trattamento dalla giustizia penale ha avuto bisogno di quasi quattro millenni. L'internazionalizzazione dei rapporti giuridici sembra essere diventata il terreno favorevole alla condanna di questa forma antropica di violenza. È vero che il XX secolo – periodo della banalizzazione di massacri dall'ampiezza mai raggiunta prima – ha messo le istanze internazionali nell'urgenza della condanna dei loro autori. L'attualità del diritto internazionale penale resta scottante. La condanna a 35 anni di prigione, emessa il 16 aprile 2004, per complicità di genocidio nella vicenda di Srebrenica (genocidio e non crimine contro l'umanità che costituisce giuridicamente una "semplice" epurazione etnica) dell'ex generale serbo di Bosnia Kristic significa che il TPI de L'Aia ha provato che il massacro di 7500 bosniaci musulmani di sesso maschile perpetrato nel luglio 1995 ha sicuramente messo in pericolo la sopravvivenza della comunità oltraggiata. A questo titolo, tale massacro costituisce di certo, almeno sul piano della giurisprudenza, la peggiore atrocità commessa sul continente europeo da 60 anni a questa parte.

Nondimeno restano evidenti delle zone d'ombra giuridica in questo inizio di terzo millennio. Un'ulteriore tappa appare necessaria, quella di una giustizia universale nella quale i tribunali dell'insieme degli Stati saranno competenti per giudicare i "massacratori", senza alcuna esitazione quanto alla loro nazionalità. Nella speranza che questi crimini diventino solo oggetto di storia e non più di diritto...

ÉRIC WENZEL

Université d'Avignon

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Capitolo 4
Moranu li Franchiski!
I Vespri siciliani e la loro trattazione nei secoli



I Vespri siciliani sono un massacro insolito per l'epoca medievale. Se le stragi di massa sono numerose in questo periodo, esse oppongono generalmente dei fedeli di religione differente, come i bagni di sangue che seguirono le prese di Gerusalemme (15 luglio 1099) e di Béziers (1209) da parte dei crociati. Il massacro di Sicilia, invece, fu perpetrato da cattolici contro altri cattolici: i siciliani uccisero nel 1282 i francesi installati nell'isola da Carlo I d'Angiò. L'evento ebbe grande risonanza. Nel 1882, Michele Amari, lo specialista italiano della questione, enumerava 18 racconti contemporanei, cioè scritti negli ultimi anni del XIII secolo, e 21 nel XIV secolo. Tuttavia, soltanto dieci cronache sono veramente originali, spesso le altre non sono che delle compilazioni. Gli autori sono principalmente italiani (siciliani, genovesi, fiorentini, veneziani, parmigiani, bolognesi ecc.), ma si contano anche due catalani (Bernat d'Esclot, Ramon Muntaner), un francese (Guillaume de Nangis) e persino un inglese (Guillaume Rishanger). Essi appartengono a Stati direttamente implicati in questa vicenda, sia come attori, sia come alleati. Così, in Istoria del regno di Romania, il veneziano Marino Sanudo Torsello il Vecchio descrive la rivolta di Sicilia per spiegare la situazione della Repubblica che aveva concluso a Orvieto, il 3 luglio 1281, un trattato di alleanza con Carlo I e Filippo di Courtenay, imperatore titolato di Costantinopoli, diretto contro Bisanzio. L'espulsione degli Angioini lasciò la Serenissima da sola nella sua guerra contro Michele Paleologo. Tuttavia, accanto a questi sconvolgimenti geo-politici, la risonanza dei Vespri nella cristianità è dovuta principalmente al carattere intra-confessionale del massacro. I diversi cronisti devono allora risolvere la questione delle responsabilità. Dalla fine del XIII secolo sino a oggi, risultano delle ricostruzioni divergenti del massacro. L'evento, così, è insieme fondatore di una riflessione sul tradimento dei siciliani e, a contrario, sul buono o cattivo governo che giustifica una rivolta, diventata "guerra di liberazione" nella memoria siciliana.


Una rivolta antifrancese

Esiste un relativo consenso sugli avvenimenti del massacro: una rissa tra sergenti francesi e siciliani a proposito dell'onore di una donna sfocia in una sollevazione generale. Nella primavera del 1282, Carlo I si prepara a far partire una spedizione contro l'Impero bizantino. A questo scopo, è stata radunata nel porto di Messina un'armata agli ordini del vicario reale Herbert d'Orléans, che raggruppa così la maggior parte delle truppe reali di Sicilia. La parte occidentale dell'isola è sotto la responsabilità del giustiziere Jean de Saint-Rémy che risiede a Palermo. Per evitare eventuali disordini, un editto proibisce il porto d'armi per gli autoctoni.

Il lunedì di Pasqua, il 30 marzo, una gran folla di palermitani si reca in processione alla chiesa del Santo Spirito, che si trova a sud-est di Palermo. Arriva un gruppo di sergenti francesi e si unisce alle celebrazioni. Subito, alcuni cominciano ad assumere atteggiamenti inopportuni nei confronti delle donne. Uno di loro, tal Drouet, mette gli occhi su una donna accompagnata dal marito e dalla famiglia. Egli prende a pretesto l'editto che proibisce il porto d'armi per accusare la giovane di nascondere un coltello sotto i vestiti e comincia a perquisirla, in particolar modo sul petto. La folla risponde rapidamente a queste provocazioni e massacra i sergenti francesi. Durante la rissa, dalla calca si leva per la prima volta il grido Moranu li Franchiski! (Muoiano i francesi!). Poi la folla si riversa in tutta la città, sempre gridando "Morte ai francesi!". Ogni individuo che parla questa lingua viene allora ucciso. Per smascherare le loro vittime, i palermitani fanno pronunciare a chiunque incontrino la parola ciciri, il cui accento siciliano non può essere imitato da un francese. Nessuno sfugge al massacro: uomini, donne, giovani, vecchi, laici e religiosi.

L'autore anonimo della cronaca Rebellamentu di Sichilia riporta che i conventi dei domenicani e dei francescani furono invasi e che i fratelli che parlavano francese furono giustiziati. Questa volontà di far sparire il "male francese" si spinse così lontano che anche le siciliane incinte di amori colpevoli con l'occupante furono sventrate e il frutto "infame" di questa unione gettato al suolo. Parecchi cronisti aggiungono altri dettagli cruenti e morbosi. Il veneziano Marino Sanudo scrive che «alcuni si lavavan le mani nel sangue Francese». Il genovese Jacopo d'Oria riporta che «il sangue di parecchi francesi venne bevuto da numerose persone del popolo». Tuttavia, questi esempi della crudeltà della strage sono dei topoi comuni ai racconti di massacro.

Il giustiziere Jean de Saint-Rémy riesce a rifugiarsi nel palazzo dei re normanni. Poi, di fronte al pericolo crescente, preferisce fuggire e andare al castello di Vicari, situato a una quarantina di chilometri a sud-est di Palermo, dove è raggiunto da alcuni uomini che erano sfuggiti al massacro. L'indomani, quando gli animi si sono calmati, i palermitani si organizzano in comune ed eleggono il cavaliere Ruggero Mastrangelo a capitano. Poi inviano una lettera e degli ambasciatori presso il Papa, sovrano della Sicilia, perché riconosca il nuovo comune e lo prenda sotto la sua protezione. Preparano anche una spedizione per prendere il castello di Vicari dove si è rifugiato il giustiziere. Siccome Jean de Saint-Rémy non dispone di uomini sufficienti per resistere, offre la resa in cambio del suo allontanamento in Provenza. Ma durante le negoziazioni, parte una freccia e lo uccide. È il segnale di un nuovo massacro durante il quale viene decimata tutta la guarnigione.

Nel frattempo, la notizia della rivolta di Palermo si diffonde nell'isola e dà il segnale di un massacro generalizzato dei francesi di Sicilia. La prima città a seguire l'esempio è Corleone, a 30 chilometri a sud di Palermo. Gli abitanti uccidono i francesi, poi formano un comune e, infine, inviano dei messaggeri ai palermitani per proporre loro un'azione comune. In un mese, il movimento conquista quasi tutta l'isola. Secondo i testi, soltanto un signore provenzale e la guarnigione di Sperlinga scamparono al massacro. Nella sua cronaca, Bartolomeo da Neocastro ci descrive la cattura ad opera dei palermitani di Guilhem Porcelet, un cavaliere nato da una delle grandi famiglie feudali di Provenza e uno dei principali agenti di Carlo I. Le sue tante qualità morali gli consentono, alla fine, di essere liberato e rinviato nel suo Paese. Allo stesso modo, la guarnigione francese di Sperlinga viene disarmata dagli abitanti della città, situata al centro dell'isola, ma questi ultimi lasciano poi i francesi ritornare incolumi a Messina. Da questo episodio la città di Sperlinga trasse la sua insegna (che rivela l'importanza dei Vespri siciliani nella memoria collettiva dell'isola): Quod Siculis placuit sola Sperlinga negavit.

Presto solo Messina resta fedele a Carlo I. Il vicario di Sicilia Herbert d'Orléans dispone di numerose truppe, di un'importante flotta e di una potente fortezza, il castello di Matagrifone, che domina e sovrasta la città. Il 13 aprile, il comune di Palermo invia una lettera ai messinesi per incitarli alla rivolta, ma questi ultimi preferiscono mantenere la prudenza. Tuttavia una serie di errori da parte del vicario reale finisce per far piombare Messina nella rivolta il 28 aprile. La maggior parte dei francesi si rifugia nella fortezza di Matagrifone, gli altri sono massacrati, ma in una proporzione minore che a Palermo. Seguendo l'esempio palermitano, anche i messinesi costituiscono un comune e tentano di prendere Matagrifone. Dopo un attacco, Herbert d'Orléans negozia e ottiene un salvacondotto per sé e i suoi uomini. Parte con due galere e giura di recarsi ad Aigues-Mortes e non tornare mai in Sicilia. In realtà, si precipita a Catona, dall'altra parte dello stretto, per preparare una controffensiva. Furiosi, i messinesi inseguono gli ultimi francesi. Abbordano una nave messa a disposizione del castellano della fortezza di Matagrifone, Teobaldo de Messi, occupata da 70 sergenti e dalle loro famiglie, e li buttano a mare. La folla uccide anche gli ultimi francesi presenti nella fortezza di Matagrifone. Sono dunque pochi i compatrioti di Carlo I a sfuggire a questi massacri. Le cifre variano secondo le fonti, ma le perdite francesi sono generalmente stimate tra 3000 e 4000 su tutta l'isola.


I Vespri siciliani: flagello o giustizia di Dio

Agli occhi dei contemporanei, il massacro siciliano costituisce uno degli avvenimenti più notevoli di questa seconda metà del XIII secolo. Innanzitutto, segna una battuta d'arresto all'ascesa di Carlo I che, fino a quel momento, non conosceva che successi. L'Angioino è costretto a rivedere i suoi piani contro l'Impero bizantino e ormai si limita invano a tentare di riconquistare la Sicilia. I Vespri sono anche un fallimento per la Chiesa romana che aveva fatto di Carlo I il suo campione. Dopo averlo sostenuto giuridicamente e finanziariamente nella conquista del regno di Sicilia, essa appoggiava la spedizione angioina contro l'Impero bizantino, nella speranza di ricondurre quelle terre orientali sotto la sua autorità. Allo stesso modo, essa vedeva in Carlo I, anche sovrano di Gerusalemme dal 1277, il principe più adatto a respingere la minaccia dei mammalucchi. La disfatta di Carlo I, allora, che combatteva per la gloria di Dio e della sua Chiesa, appare come un'aberrazione.

Così, la reazione romana è netta: condanna i massacratori siciliani, rifiutando loro la qualifica di cristiano. Nel luglio 1282, Martino IV (1281-1284) ammonisce vivamente i messinesi, assediati dall'armata di Carlo I, in una lettera che trasmette loro il suo legato:

Ai perfidi giudei dell'isola di Sicilia: il papa Martino IV vi invia questo saluto che voi meritate per aver rotto la pace, ucciso dei cristiani e versato il sangue dei suoi figli. Vi ordiniamo che, viste le nostre lettere, immediatamente vi arrendiate e consegniate la terra al nostro figlio e campione Carlo, re di Gerusalemme e di Sicilia per l'autorità della santa Chiesa di Roma. Per questo dovete obbedire al suddetto come al vostro legittimo signore; e se non gli obbedite, io vi dichiaro scomunicati e interdetti, secondo la ragione divina, minacciandovi della giustizia spirituale.

Martino IV non esita a equiparare i ribelli ai «perfidi giudei», i peggiori nemici del cristianesimo: i responsabili della morte del Cristo e di parecchi fra i primi cristiani. Il fatto che questa lettera sia riportata dall'anonimo di Messina nell'opera Lu Rebellamentu di Sichilia, è una garanzia di affidabilità poiché pare che quest'ultimo si trovasse nella città durante l'assedio.

Tuttavia, il massacro di cristiani da parte di altri cristiani non è l'elemento più rilevante. I contemporanei sono colpiti innanzitutto dall'insurrezione contro l'autorità legittima e cercano di spiegare le ragioni di un tale atto. Così, ogni autore offre la sùa analisi delle stragi, per condannarle o per giustificarle.

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I Vespri siciliani sono innanzitutto una rivolta, un atto di liberazione, vissuto come tale dalla popolazione e dai contemporanei. Contrariamente a ciò che succedeva abitualmente durante le sollevazioni contro i collettori delle imposte, i siciliani hanno ucciso tutti gli agenti dello Stato e tutti quelli che parlavano la stessa lingua, che incarnavano dunque in un certo modo questa autorità. Furono massacrati anche i francescani e i domenicani che parlavano francese. Certo, all'epoca, essi erano sovente percepiti come agenti segreti. Più tardi, il massacro ha incarnato un fatto d'arme odioso agli occhi delle vittime: Guilhem Porcelet e altri attori sono diventati personaggi da leggende provenzali. Agli occhi dei massacratori invece, sottaciute nelle testimonianze le sevizie, si è trasformato nel primo atto "nazionale". Del resto, nel corso della storiografia dei Vespri, sembra che il provvidenzialismo medievale o la drammatizzazione moderna si siano interessate alle crudeltà degli eventi più del discorso contemporaneo che, invece, relativizza quella strage alla luce dei comportamenti antichi durante le rivolte sociali.

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Capitolo 12
Guerre, massacri o genocidi?
Riflessioni storiografiche sulla questione
del genocidio degli amerindi



Evocare i massacri degli indiani in America significa aggiungere ai numerosi casi di massacri rubricati in questo volume il paradigma della conquista coloniale. Nell'America colonizzata dagli spagnoli, la denuncia che ne aveva fatto Las Casas ha dato luogo alla "leggenda nera" sfruttata per la propria difesa dai coloni britannici dell'America del Nord presso i quali, tuttavia, il processo di colonizzazione si è accompagnato spesso ad assassinii collettivi nel corso di campagne militari difensive o offensive, a invasioni e tentativi di repressione sul territorio delle vittime, a vendette o repressioni in risposta ai primi attacchi autoctoni contro gli invasori.

Tuttavia, il massacro, anche ripetuto, è circoscritto e localizzato e, malgrado l'ampiezza che gli si riconosce in America latina, non può da solo rendere conto della quasi totale scomparsa delle popolazioni autoctone nel corso della storia della colonizzazione. D'altronde, tranne le occasioni che offrivano le polemiche nazionali e che designavano il colonizzatore rivale come il massacratore, gli storici dell'America del Nord, cronisti o memorialisti, senza accennare ai responsabili militari o politici e alle popolazioni che prendevano direttamente parte alle violenze, hanno a lungo sostituito al termine "massacri" quelli di "battaglie" o di "guerre indiane": entrambi implicano una reciprocità nella violenza omicida, e collocano gli assassinii di massa perpetrati durante la colonizzazione nel contesto della guerra, vale a dire di una normalità storica universale.

Discuteremo più avanti del carattere ambivalente e della portata dei "massacri" commessi sugli amerindi e dagli amerindi. L'analizzeremo in particolare in quanto figura del "genocidio", in quanto concetto che alcuni storici, ricusando la validità della terminologia bellica, gli sostituiscono ai giorni nostri apertamente o in modo velato. Questa terminologia corrisponde a una "revisione" della storiografia dei rapporti tra bianchi e indiani sul continente nord-americano, suscitata in parte dai progressi dell'etno-storia, in parte dalla banalizzazione della nozione di genocidio, in particolare nell'uso del termine più correntemente impiegato in inglese di "olocausto". Essa suscita un dibattito che prova come il termine "genocidio" metta in gioco degli a priori ideologici e come si accompagni a una rimessa in discussione della tradizionale concezione della storiografia americana nel suo insieme, di cui un'intera sezione è troppo spesso trascurata o negata perché nasconde il carattere coloniale della storia degli americani del Nord.

Non pare lecito tuttavia proseguire la riflessione senza porre la questione della validità di questa interpretazione. Per esempio, in che misura la parola "genocidio", un neologismo impiegato in modo retrospettivo, riflette la realtà della situazione amerindia dagli inizi della colonizzazione? Questa situazione corrisponde alle definizioni giuridiche attuali del termine? Lo storico può permettersi, pensando in tal modo di evitare l'anacronismo, di modificare il senso della parola o di impiegarla in modo lassista, così da fondare meglio la sua interpretazione delle relazioni coloniali?

È vero che il termine "genocidio", così comunemente diffuso ai giorni nostri, è sia un vettore di analisi storica, sia un argomento politico impugnato dalle vittime; d'altronde le due cose si sposano tanto più facilmente in quanto i dati numerici e i fatti stessi, che non si possono sottomettere a regole precise, sfuggono alle categorie. Nel caso presente, tenteremo di attenerci a una concezione giuridica il più possibile rigorosa della parola "genocidio", in modo da cercare di comprendere in tutta la sua complessità la politica degli Stati Uniti, erede dell'impero britannico, rispetto alle popolazioni autoctone che occupavano questa parte del continente nordamericano prima dell'arrivo dei coloni inglesi.

Considerando che la nozione di genocidio impegna in primo luogo una messa a punto demografica, vedremo come la demografia sia stata utilizzata, e anche manipolata, al servizio di una certa concezione della colonizzazione. Confronteremo gli avvenimenti che hanno causato la scomparsa di un considerevole numero di persone con le concezioni attuali del genocidio; la questione dell'intenzionalità o del funzionalismo sarà posta solo incidentalmente, per mettere in evidenza le aporie di un'ideologia nazionale fondata in teoria sui principi dell'Illuminismo. Esamineremo infine la questione dell'"etnocidio", modalità tipica della storia della colonizzazione, che corrisponde senza dubbio meglio del genocidio alla realtà del confronto tra gli euro-americani e gli autoctoni in America del Nord.


Demografia e genocidio

Gli errori della demografia storica degli amerindi: ignoranza e partito preso

Era comune, fino a pochi anni fa, parlare al passato degli amerindi e considerare i superstiti come una quantità trascurabile. Se gli autoctoni costituiscono oggi meno dell'1% della popolazione degli Stati Uniti 2,4 milioni di persone circa su un totale di 290 milioni, sino al 1492, erano naturalmente i soli occupanti di questo continente isolato, nel quale erano al riparo ma proprio per questo non immunizzati dai numerosi microbi e batteri che imperversavano allora nel resto del mondo abitato. Nell'ignoranza relativa in cui ci troviamo ancora sul numero anche approssimativo delle popolazioni autoctone prima dell'arrivo in America dei primi europei, sono state avanzate due ipotesi, ognuna delle quali solleva molteplici questioni: i primi abitanti dell'America godevano di una longevità, di una salute, di una gioia di vivere tali che, malgrado lo stato arcaico della loro tecnologia, erano, secondo le teorie di Marshall Sahlins e di Piene Clastres, capaci di sussistere in gran numero su un continente che traboccava di risorse naturali? Oppure, il "ritardo" tecnologico che implicava una cultura neolitica che si presume stagnante li rendeva incapaci di moltiplicarsi e di occupare pienamente il continente? Quest'ultimo giudizio, formulato a più riprese dagli inizi della colonizzazione, è servito da giustificazione maltusiana alla colonizzazione di popolamento in una sorta di riequilibrio tra una Europa sovrappopolata e un Nuovo Mondo più o meno vuoto, da scusa giuridico-teologica all'appropriazione da parte dei coloni di terre che essi giudicavano disabitate o non coltivate, e da approccio scientifico, dalla metà del XIX secolo e per circa un secolo, per spiegare la debolezza crescente degli indigeni di fronte all'invasione degli europei dal XVI secolo, così come l'esiguità di queste popolazioni a cavallo dei secoli XIX e XX. «L'idea che si fanno i ricercatori di scienze sociali dell'estensione della popolazione aborigena delle Americhe influenza direttamente la loro visione delle civiltà e delle culture del Nuovo Mondo», scriveva il demografo Henry Dobyns nel 1966.

Se i testimoni del XIX secolo sono stati più sensibili alla quasi scomparsa, giudicata ineluttabile, (gli "amici degli Indiani", quaccheri e altri "filantropi", parlavano con nostalgia del Vanishing Indian), che all'estensione e alla durata dell'ecatombe che aveva colpito precedentemente le popolazioni amerindie, è perché essi sottovalutavano gravemente la realtà demografica precolombiana e dunque l'importanza della diminuzione autoctona in pochi secoli. I lavori condotti dai "nuovi" demografi a partire dalla metà del XX secolo, uniti al rovesciamento della storiografia nel senso di una "nuova storia" sociale, economica, antropologica, inducono a una revisione della storia della colonizzazione e a una reinterpretazione delle relazioni tra indiani e bianchi.

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La guerra come genocidio

Guerre e massacri

Come distinguere i massacri commessi nei confronti degli amerindi dai fatti bellici di cui gli storici, dagli inizi dell'epoca coloniale britannica, hanno il più sovente reso gli amerindi responsabili, seguendo in questo l'opinione dei politici e dei militari che dicevano di battersi in difesa o a protezione dei coloni contro gli indiani feroci e decisi a gettarli in mare?

Un gran numero di guerre, la cui causa e soprattutto i responsabili restano difficili da individuare, si è concluso con massacri violenti e indifferenziati di popolazioni civili. I militari euro-americani, così come gli storici, hanno tuttavia continuato a non vedervi altro che delle "guerre indiane", differenti dalle guerre condotte contro le popolazioni europee "civilizzate" poiché, contro le popolazioni autoctone — considerate "selvagge" perché "nomadi" (senza tener conto delle nazioni indiane agricole e sedentarie), guerriere per natura e sprovviste del codice che regola le guerre nell'Occidente europeo — la guerra proseguiva sovente negli accampamenti o nei villaggi, coinvolgendo indifferentemente gli abitanti di ogni età e sesso. Questa è la ragione per la quale gli autori, tranne H.H. Jackson, qualche "filantropo" nel XIX secolo e quelli che scrivono dopo gli anni Sessanta, definivano "guerre" o semplici "battaglie" gli attacchi condotti contro gli autoctoni come rappresaglie per i crimini o i delitti commessi da pochi e che facevano vittime a centinaia. È così per il massacro di Sand Creek nel 1864, durante il quale il colonnello Chivington diede l'ordine di assassinare anche i bambini perché «Nits make lice», o quello di Wounded Knee nel 1890, durante il quale i soldati inseguirono delle ragazzine per parecchi chilometri prima di ucciderle con il pretesto che, presso gli indiani, i bambini portano le armi e che anche i neonati potrebbero avere delle armi nascoste dai genitori nelle loro fasce. I massacri hanno avuto luogo lungo tutta l'era coloniale britannica e la storia nazionale degli Stati Uniti sino all'inizio del XX secolo. I metodi, la violenza e anche il numero di vittime per ciascuno di questi assassinii collettivi non sono affatto cambiati da una tappa all'altra. La differenza consiste piuttosto nelle cause di tali stragi che si modificano a mano a mano che gli euro-americani crescono in potenza e in espansione territoriale.


I massacri dell'epoca coloniale

La volontà di punire collettivamente un gruppo per un delitto individuale o di massacrare una parte indifferenziata di popolazione nel suo ambiente si è manifestata sin dagli inizi della colonizzazione britannica: in Virginia nel 1622, poi nel 1644 e nel 1676 per punire i powhatan e i loro alleati di aver rifiutato di pagare il tributo, poi di essersi ribellati e avere ucciso dei bianchi; o nella Nuova Inghilterra quando i coloni hanno esplicitamente deciso di sterminare i pequot nel 1636, rendendoli tutti insieme, donne, bambini, vecchi compresi, responsabili di non aver consegnato due presunti assassini alla giustizia coloniale; accerchiati nel villaggio di Mystic Fort, con le loro case e tende date alle fiamme, i pequot hanno così «fritto orribilmente», scrissero i puritani responsabili. I superstiti furono perseguitati sino alla quasi completa estinzione della nazione pequot, per il piacere di Dio che si rallegrava, a dire dei coloni, della vittoria dei suoi eletti. Fu lo stesso nei confronti dei wampanoag nel 1676-1677, in quella che ha preso il nome di "guerra di re Filippo", condotta a oltranza come rappresaglia per un precedente attacco massiccio dei wampanoag contro gli edifici dei coloni. In seguito, e sino alla guerra d'Indipendenza degli Stati Uniti nel 1775-1783, la violenza delle guerre condotte contro gli indiani, così come dei massacri perpetrati tanto dagli amerindi nei confronti dei coloni, quanto dai coloni che desiderano le terre indiane, è appena contenuta dalle autorità regie che, in virtù della sovranità sugli autoctoni come sui sudditi inglesi, sono protettrici e espansionistiche nello stesso tempo.

Una delle caratteristiche dei ripetuti massacri prima dell'indipendenza degli Stati Uniti e durante l'avanzata verso-ovest, è che si tratta sovente, da parte delle autorità americane, di punire un accampamento o un villaggio intero per un delitto commesso da uno dei suoi membri. È allora un gruppo ad essere preso di mira – senza curarsi della filosofia dei diritti dell'individuo che regola la democrazia americana – condizione necessaria, secondo le definizioni, perché vi sia genocidio.


Gli Stati Uniti contro gli autoctoni (1775-1865)

La politica indiana degli Stati Uniti è bifronte, come lo è stata quella del re d'Inghilterra, ma con un interesse più diretto nell'oppressione degli amerindi: da una parte, il governo federale si fa carico degli amerindi e promette loro la sua protezione a condizione che obbediscano alle sue leggi; dall'altra parte, deve rispondere alla pressione dei pionieri che, ormai, sono parte in causa e non più semplici sudditi dello Stato-nazione. Infine, le guerre condotte dagli americani contro le altre potenze, come l'Inghilterra o la Spagna, fanno intervenire le popolazioni autoctone, punendole molto pesantemente nel caso parteggino per l'avversario, come la maggioranza degli irochesi che, durante la guerra d'Indipendenza (1775-1783), hanno sostenuto gli inglesi. La loro potenza, la loro demografia, le loro risorse, le loro terre: hanno perduto tutto alla conclusione di questa guerra.

In altri casi, gli attacchi contro gli autoctoni sono condotti da gruppi di coloni, insoddisfatti del loro governo e i cui scopi dichiarati sono lo "sradicamento" o l'eliminazione" – termini impiegati all'epoca in modo molto lassista – degli indiani locali. Accanto a queste guerre senza regole, a questi massacri talvolta spontanei, il più spesso punitivi, non era escluso l'impiego di mezzi indiretti come l'alcol per indebolire gli indiani anche nel corso di negoziazioni condotte in termini di uguaglianza, da "nazione" a "nazione" come preconizzava Benjamin Franklin, o, a più riprese e lungo tutti i secoli, come l'incendio delle abitazioni e delle colture e l'abbattimento della selvaggina.

Sembra molto difficile, partendo da queste considerazioni, rifiutare il termine di genocidio. L'odio, in particolare, indicato dagli specialisti come una condizione della volontà genocidaria nelle popolazioni, è manifesto e, paradossalmente, si accresce a mano a mano che gli indiani scompaiono dalla regione orientale, sul bordo dell'Atlantico e nelle foreste dell'est. Questo trasferimento avviene spesso con la forza; il governo federale, contraddicendo talvolta la Corte suprema, stabilisce nel 1830 la deportazione di tutta una parte di popolazioni amerindie dagli Stati dell'est verso le regioni a ovest del Mississippi. È il celebre esempio del "Sentiero delle Lacrime" del 1834, al quale ha assistito casualmente Tocqueville e durante il quale l'armata commette azioni di forza incredibilmente feroci e sovente accidentalmente mortali nei confronti delle popolazioni spinte verso l'esilio e la disperazione.

Parallelamente, la frontiera tra "civilizzazione" e "selvatichezza" arretra, non senza che l'espansione americana progredisca verso ovest e che gli scontri con gli autoctoni s'intensifichino per l'accresciuta resistenza di questi ultimi. Si riscontra tuttavia che in nessun caso l'ordine di uccidere in massa sia venuto dalla più alta autorità – né la Corona, né il governo federale dopo la creazione degli Stati Uniti hanno ordinato la "soluzione finale", contrariamente a quanto sostiene Ward Churchill, che paragona costantemente la politica indiana degli Stati Uniti a quella dello Stato hitleriano.

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Il «Vanishing Indian »: genocidi ed etnocidio

La politica del governo americano: dai trattati tra nazioni alla spoliazione; dall'assimilazione tramite segregazione alla demoralizzazione

Yves Ternon commenta: «La categoria del genocidio non è quella del parossismo; non sono né il numero di vittime, né il grado di crudeltà nelle pratiche di esecuzione che designano come tale un assassinio collettivo, ma il carattere intenzionale e pianificato di questo assassinio e dell'identità delle vittime».

La questione che resta da porre per qualificare la vera ecatombe alla quale hanno portato tutti i fatti citati, anche legati alle malattie, è quella della responsabilità dello Stato americano nella decimazione degli indiani. È evidente che la popolazione colonizzatrice aveva sempre avuto interesse a sbarazzarsi del "problema indiano", che nella migliore delle ipotesi aveva guardato con tristezza, come durante la razzia e la deportazione dei cherokee nel 1830 – che definiva Vanishing Indian – e che, come si è visto, essa ha contribuito a più riprese alle violenze contro gli autoctoni che le autorità e gli ideologi portavano a odiare.

Nel momento in cui si creò sul territorio occupato sino ad allora dagli amerindi una nazione che non si diede un nome geografico o storico, ma una definizione politica, questa non ammise né gli indiani, né i negri alla condivisione della nazionalità e della cittadinanza americana. Sebbene sia gli uni, che gli altri furono respinti, la politica nei riguardi degli autoctoni differì totalmente da quella che mantenne i negri in schiavitù come oggetti commerciali e strumenti di produzione. Nei confronti degli autoctoni, l'obiettivo dichiarato del governo federale, come della Corona dalla quale derivava, fu di convertirli alla civilizzazione e in particolare – come ripeté molte volte Thomas Jefferson agli autoctoni della Luisiana – di spingerli ad abbandonare le loro terre per non mantenerne che una piccola parte e, coltivandola in modo intensivo, convertirsi grazie alle eccedenze della produzione all'economia monetaria. Prevedendo che gli indiani avrebbero abbandonato la caccia e l'occupazione estensiva del territorio, il governo federale progettava di appropriarsi delle loro terre pur contribuendo, sul lungo periodo, a fondere nella popolazione americana gli autoctoni che sarebbero sopravvissuti. Thomas Jefferson, come in seguito Andrew Jackson, il principale organizzatore della deportazione degli indiani verso ovest, prevedeva che, se non avessero accettato la civilizzazione, gli indiani sarebbero stati respinti verso ovest e i loro territori resi più esigui a causa della crescita della popolazione bianca: una linea di separazione tra popolo civilizzato e selvaggio sarebbe così stata tracciata in modo da arretrare costantemente sotto la spinta del progresso. Abbiamo visto la pratica che consisteva, sin dalla fine del decennio 1820-1830 e lungo tutto íl decennio successivo, nel deportare verso ovest le tribù che risiedevano a est del Mississippi. Oltre alla mortalità causata dalla deportazione forzata, l'esilio sotto regime militare, la sconfitta negli episodi di resistenza, l'indebolimento delle condizioni di vita nel luogo dell'esilio, l'umiliazione e la perdita dei riferimenti culturali identitari, contribuirono a far perdere alle nazioni disperse e indebolite il rapporto con il passato e la storia, la fiducia in un ambiente che dava loro senso, la dignità individuale e collettiva. L'etnocidio è un processo a lungo termine, che cominciò la sua opera distruttrice agli inizi del XIX secolo, facendo delle etnie autoctone degli individui o dei brandelli di nazioni o di tribù sempre meno resistenti ai virus della disgregazione propagati dalla civiltà occidentale.

Senza dubbio l'etnocidio origina il genocidio: con l'identità del gruppo, il gruppo stesso è in pericolo di scomparsa fisica. Ma il nostro intento in questo lavoro è di precisare la differenza, e di porre ancora una volta la questione della responsabilità e dell'intenzionalità.

In effetti, la politica americana dell'impero britannico, e poi del governo degli Stati Uniti, non ha mai manifestato la volontà di sterminare fisicamente gli indiani. Si tratta di una politica coloniale consueta, sebbene contraddittoria, che include delle violenze, ma il cui scopo è innanzitutto di garantire ai colonizzatori la proprietà e la sovranità sulle terre, così come la legittimità di un governo nazionale su un suolo che non ha ereditato. Nati all'epoca dei Lumi e della redazione delle Dichiarazioni dei diritti dell'uomo, sebbene ancora non universali, gli Stati Uniti non potevano porsi come una nazione criminale, al contrario di ciò che si diceva della Spagna. La politica americana è consistita successivamente, e a volte simultaneamente, nel costruire un "muro" (diremmo oggi), una "frontiera" (si diceva allora), che preserva una proprietà provvisoria agli autoctoni da un lato, pur offrendo dall'altro lato il terreno necessario all'economia agraria e commerciale, poi industriale e moderna. A poco a poco, il muro che sanciva una segregazione di fatto, è diventato una recinzione che cinge fazzoletti di terra "riservati" agli indiani in mezzo a terre che avevano ceduto con trattati più o meno fraudolenti. L'intenzione non era più di tollerare che essi portassero avanti la loro cultura cacciatrice, come aveva promesso Jefferson quando aveva acquisito la Luisiana all'inizio del XIX secolo, ma di "civilizzarli" all'interno di queste riserve, educare i loro bambini in scuole lontane e di formarli perché potessero occupare ai margini della società americana impieghi di servitori acculturati.

L'obiettivo cui si mirava sempre più apertamente fu, secondo l'espressione di Theodore Roosevelt negli anni Ottanta del 1800, break the tribal mass. Distruggendo la proprietà collettiva a vantaggio di piccoli campi individuali e rompendo le strutture tribali, contrarie alla cittadinanza individuale in vigore nella democrazia occidentale, si pensava di trasformare gli indiani in contadini (ma sulle terre restanti dopo la spoliazione, generalmente aride e sterili). Infine, privati delle loro tradizionali fonti di sussistenza – i bisonti che vennero abbattuti coscientemente in massa nell'ultimo terzo del XIX secolo – gli indiani, da molto tempo legalmente "nazioni domestiche dipendenti" e "sotto la tutela dell'Ufficio degli affari indiani", si videro ridotti a essere dei non-abitanti del loro paese, umiliati e assoggettati, ridotti all'accattonaggio, come scriveva Robert Jaulin, e che la disperazione spinse a quella sorta di suicidio che fu la Ghost Dance, pretesto al massacro di Wounded Knee.

Rifiutandosi di commettere un genocidio contro delle "nazioni" che avevano un tempo ammirato per la loro "innocenza primitiva", le autorità degli Stati Uniti, come i filantropi, commisero un etnocidio per la loro volontà di trasformare gli indiani in cittadini americani di terz'ordine. Fino ad oltre la legge del 1934 (Indian Reorganization Act o Indian New Deal) che aveva cercato di restituire loro una parte di dignità e dei beni passati, la politica ufficiale si sforzò ancora di "portare a termine la loro condizione privilegiata" esortandoli, negli anni Cinquanta, a lasciare le loro riserve per raggiungere i quartieri diseredati delle città e dimenticare le loro lingue e le loro culture. Talvolta addirittura rapiti, i loro bambini vennero allontanati per "beneficiare" in famiglie euro-americane dei vantaggi della civilizzazione; alcune donne furono sterilizzate a loro insaputa, forma di contraccezione inconsapevole grazie alla quale il loro numero si sarebbe ancora ridotto.

Un risultato concreto fu ottenuto, ma all'inverso di quello che aveva voluto la logica coloniale: la popolazione indiana cominciò, dal 1900, ad aumentare in modo consistente; gli indiani continuarono a lottare per i loro diritti e non sono quindi mai stati totalmente sopraffatti dalla volontà etnocidaria.

La politica indiana degli Stati Uniti nei riguardi degli autoctoni non può essere definita in blocco genocidaria: essa comporta in effetti un'ambiguità fondamentale. Da una parte, gli Stati Uniti costituitisi all'epoca dei Lumi non avrebbero potuto, in quanto governo federale, decretare la morte di una parte della specie umana, che l'Illuminismo proclamava unica. Dall'altra parte, in quanto potenza colonizzatrice sin dalla sua nascita (poiché subentrati alla colonizzazione britannica nell'espansione territoriale e nella colonizzazione di popolamento), aveva bisogno di appropriarsi del territorio degli autoctoni, cosa che andava di pari passo con la decimazione dei suoi abitanti. Lo spopolamento fisico per mezzo della violenza fu forse meno continuo e meno radicale dell'annientamento sociale, nella migliore delle ipotesi tramite l'acculturazione, nella peggiore con la scomparsa di tutto ciò che fa la cultura e l'identità di un popolo.

Se la definizione di genocidio consiste – come parrebbe ai giorni nostri quando continuano a perpetrarsi altri genocidi – nella distruzione massiccia di popolazioni votate alla persecuzione in virtù della loro natura di collettività – nazionale, etnica ecc. – e se bastano decisioni di autorità locali (Confederazione della Nuova Inghilterra, Stato della California, Stato del Texas), o addirittura di collettività civili o militari (milizie agrarie o ufficiali dell'armata federale), allora possiamo affermare che vi fu un genocidio contro i pequot, un genocidio contro gli indiani di California, un genocidio contro gli indiani del Texas e numerosi atti genocidari nel corso della storia della colonizzazione degli Stati Uniti. Il più incontestabile perché apertamente affermato come progetto federale della nazione intera, sotto differenti modelli, fu l'etnocidio commesso scientemente e in completa buona fede – come presso tutti i colonizzatori – nei confronti di una popolazione a cui si voleva "fare del bene" trasformandola in immagini in scala ridotta del colonizzatore. Ci fu senza dubbio un etnocidio compiuto, e mai totalmente superato, delle circa 500 nazioni autoctone, ovvero del popolo amerindio sul territorio degli Stati Uniti.

ÉLISE MARIENSTRAS

Université Paris VII-Denis Diderot

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Capitolo 14
Il caso armeno: il ruolo del «massacro»
nel discorso negazionista



L'uscita di Ararat, film che evoca il genocidio armeno, ha permesso al grande regista canadese di origine armena, Atom Egoyan, di sottolineare attraverso una sapiente costruzione di mise en abyme l'inanità della rappresentazione cinematografica del massacro. Constatazione in apparenza paradossale poiché, dal XIX secolo, la raffigurazione del massacro si è imposta nell'iconografia al fine di attirare l'attenzione del pubblico occidentale sulla persecuzione dei cristiani dell'Impero ottomano (maroniti, bulgari, armeni). L'impossibilità di un'autentica rappresentazione cinematografica del massacro (pure evocato da Elia Kazan in Il ribelle dell'Anatolia) è simile alla difficoltà di comprendere il massacro in quanto oggetto storico. Non è dunque sorprendente che il campo semantico del "massacro" sia divenuto alla fine del XX secolo un terreno sensibile della storiografia. Trattandosi del caso armeno, l'impiego del termine "massacro" è al centro della disputa, di ordine teologico piuttosto che storiografico, tra i partigiani della centralità storica dell'Olocausto e quelli dell'integrazione degli armeni nella categoria "canonizzata" dei popoli che hanno subito il genocidio. L'impiego del termine "massacro" assegna in effetti alla "tragedia del 1915" un rango inferiore riallacciandola in qualche modo a un'altra branca di categorie storiche, quella dei massacri appunto, pratica sfortunatamente tanto antica quanto l'umanità stessa.

Un tale soggetto necessiterebbe in teoria di una rigorosa definizione dei termini, in pratica impossibile, vista la corrente confusione tra le nozioni di "negazionismo" e "revisionismo" il cui nodo riguarda, come sappiamo, la negazione o la minimizzazione del genocidio degli ebrei. Categoria giuridica creata nel 1943 dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, risultato di una lunga riflessione condotta tra le due guerre in particolare in merito al precedente armeno, il genocidio appare come una forma suprema di oggettivazione e di riconoscimento attribuito all'Olocausto degli ebrei, ma giudicato dubbio o discutibile per tutti gli altri. I lavori degli storici Peter Novick e Tom Segev dedicati alla strumentalizzazione politica della Shoah hanno mostrato l'ampiezza del peso ideologico del "sistema dell'Olocausto" innalzato ad avvenimento storico categoricamente unico. La definizione di genocidio per gli avvenimenti che colpirono gli armeni dell'Impero ottomano nel 1915 è naturalmente suscettibile di rimettere in discussione questo dogma. Nel caso armeno, peraltro, si deve distinguere tra diverse categorie di "negazionismo". Da una parte, il negazionismo dello Stato turco, il cui discorso non è molto mutato, che nega l'esistenza storica del genocidio. Intorno a questa secca e ostinata negazione, si possono individuare parecchie versioni, la più estrema delle quali (diffusa da certi ambienti associativi franco-turchi) consiste non solo nel negare l'esistenza dei massacri, ma nell'affermare addirittura che furono gli armeni a massacrare i turchi. Dall'altra parte, un negazionismo più sottile, in generale espressione di storici turcologi che temono senza dubbio il discredito delle autorità turche, rifiuta di applicare la nozione di genocidio al caso degli armeni senza negare tuttavia l'esistenza della realtà storica dei massacri. Fondata certamente sul principio della non retroattività, questa storiografia riconduce gli avvenimenti del 1915 alla loro prima designazione, quella che impiegavano all'epoca i diplomatici, i giornalisti o i missionari parlando dei "massacri" o delle "atrocità" di cui furono vittime gli armeni. La nozione di "massacro", opposta in modo ambiguo a quella di genocidio, è infatti pensata come una categoria più neutra ma rinvia comunque alla realtà soggettiva così come fu vissuta e descritta dai superstiti: in primo luogo il massacro (tchart) piuttosto che il genocidio (tseghaspanoutioun). In Francia, il caso Bernard Lewis in merito alla «versione armena della storia» condannata dalla prima camera del tribunale di grande istanza di Parigi nel giugno 1995, così come il caso Veinstein circa il dossier dedicato dalla rivista «L'Histoire» nell'aprile 1995 al «massacro degli armeni», ha posto le basi di una controversia che oppone in modo più o meno chiaro la nozione di massacro a quella di genocidio. Il ritorno alla definizione originaria di "massacro" gioca dunque nel caso degli armeni un ruolo paradossale in un argomentario negazionista fondato, secondo lo storico Richard Hovannisian, su tre operazioni fondamentali di razionalizzazione, relativizzazione e banalizzazione.

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Massacro vs genocidio: dalla realtà soggettiva all'oggettivazione

Non è affatto possibile, né opportuno, addentrarci in questa sede con troppa sottigliezza nella definizione di genocidio, neologismo creato da Raphael Lemkin, padre spirituale della "Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio" adottato all'unanimità nella seduta plenaria dell'Organizzazione delle Nazioni Unite a Parigi il 9 dicembre 1948. D'altronde, come sottolinea Jean-Michel Chaumont, «il concetto di genocidio non è né preciso, né ben definito; è importante notare che attualmente non esiste nessuna definizione unanimemente accettata nella piccola comunità dei ricercatori interessati». Tre assi fondamentali costituiscono, come sappiamo, la struttura della definizione ufficiale di genocidio: una serie di atti e pratiche criminali, l'intenzione manifesta di distruggere interamente o in parte il gruppo designato e un'indicazione precisa della natura dei gruppi (nazionali, etnici, razziali o religiosi) suscettibili di essere colpiti. Da molti anni, degli storici e dei giuristi hanno cercato di dimostrare che i "massacri" armeni rispondevano alle condizioni richieste da questa definizione. Come interpretare quindi l'irruzione volontaria del termine "massacro" nella storiografia?


La questione dell'intenzionalità: massacro con premeditazione?

Trattandosi del genocidio armeno, la questione dell'intenzionalità gioca evidentemente un ruolo fondamentale nelle argomentazioni negazioniste. Nel contesto della Prima Guerra mondiale – essa stessa massacro su grande scala degli effettivi mobilitati – gli orrori e le atrocità hanno interessato allo stesso modo tutte le categorie della popolazione civile. Così, nell'Impero ottomano, hanno trovato la morte molti più musulmani che armeni durante la Prima Guerra mondiale. Richard Hovannisian constata che nella storiografia negazionista «le differenze nelle motivazioni e le condizioni della morte sono occultate a vantaggio della tesi della morte indiscriminata durante il caos generale e la catastrofe di una guerra mondiale complicata da conflitti civili e da una certa perdita di controllo sulla situazione». Non ponendo più alcuna distinzione tra le presunte vittime e i loro carnefici, la questione dell'intenzionalità si trova così in qualche modo stemperata nel concorso delle circostanze.

Negando l'intenzione di deportare o massacrare, la storiografia negazionista si fonda sul rifiuto originale del governo dei Giovani Turchi. Nel 1919 Talaat Pasha dichiarava in effetti: «Riconosco che abbiamo deportato molti armeni delle nostre province dell'est, ma non abbiamo agito secondo un piano prestabilito. La responsabilità di questi fatti spetta innanzitutto ai deportati stessi». Così, le vittime armene non erano previste in un piano concepito e deciso dalle autorità centrali. Sono essenzialmente degli "incidenti di percorso" (epidemie, assalti di tribù curde incontrollate ecc.) che hanno deciso della loro sorte. Una variante di questa versione consiste d'altronde nel rigettare la responsabilità dei massacri sulle tribù curde armate e mobilitate dall'Organizzazione speciale (Teskilat-i Mahsusa) dei Giovani Turchi. Riferendosi alla regione del Sassoun, Dogan Avcioglu sottolinea il fatto che «i turchi applicavano un piano strategico con la creazione e l'impiego dei reggimenti di Hamidiye curdi che erano utilizzati come gli strumenti di una violenza "cruenta" contro gli armeni».

D'altra parte, la questione dell'intenzionalità non riguarda tanto il "massacro" sul posto – tuttavia accertato come nel caso di Mus – quanto il trasferimento delle popolazioni interessate, operazione che la storiografia negazíonista si rifiuta di definire "deportazione". Così, per Stanford Shaw,

un attento esame delle pratiche segrete del governo ottomano dell'epoca non fornisce alcun indizio che uno dei dirigenti del Comitato Unione e Progresso o qualche altro membro del governo centrale abbia ordinato i massacri. Al contrario, nelle province le forze armate ricevettero l'ordine d'impedire ogni incursione o incidente nella comunità che potesse provocare dei morti.

Tuttavia, la tesi turca delle deportazioni di "sicurezza" è invalidata dal massacro di migliaia di armeni nel momento del loro arrivo nei campi in Siria e Mesopotamia che Raymond H. Kévorkian identifica come la "seconda fase" del genocidio.


Massacro o genocidio: un criterio quantitativo?

Suscitando un dibattito complesso, la questione del numero delle vittime interviene naturalmente nel processo di relativizzazione. Ma è anche interessante osservare che il dibattito non mette semplicemente in gioco il numero delle vittime, ma anche l'importanza demografica degli armeni nell'Anatolia orientale prima del genocidio; dato che permette comodamente di spiegare la loro totale scomparsa dalla regione dopo gli avvenimenti. Da questo punto di vista, la corrente negazionista ha cercato dunque di rivedere interamente la topografia armena dei vilayet orientali nel senso di una sensibile riduzione dei suoi effettivi. Basandosi sui censimenti ottomani, Stanford Shaw oppone così ai 2.100.000 armeni stimati nel 1912 dal patriarcato, la cifra di 1.300.000, di cui solo la metà risiedeva nelle regioni interessate al momento della firma dell'accordo di febbraio 1914 sulle riforme armene. Non è possibile risolvere con precisione tale dibattito, visto che la sola certezza di ordine demografico riguarda in questo caso il numero degli armeni dell'Impero russo valutato a 1.240.000 nel censimento del 1897. In mancanza di fonti sicure e accessibili, la relativizzazione dell'importanza demografica della minoranza armena nell'Impero ottomano ha, come inevitabile corollario, la relativizzazione del numero delle vittime.

Al milione di vittime rivendicate dagli armeni, la storiografia turca oppone una soglia massima fra le 100.000 e le 300.000 vittime senza spiegare ulteriormente l'annientamento in condizioni atroci di una percentuale fra il 50% e il 60% degli armeni dell'Impero ottomano. Questa relativizzazione statistica è evidentemente centrale nelle argomentazioni negazioniste. Riguardando un numero limitato di vittime, gli avvenimenti del 1915 sono assimilati a un massacro circoscritto, non a un genocidio, sebbene la definizione di quest'ultimo non menzioni alcuna soglia quantitativa. A conti fatti, la riduzione del numero di vittime, così come i metodi «artigianali» e non industriali impiegati nel «massacro armeno» costituiscono la base di queste argomentazioni.

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Conclusione
Filosofia e politica del massacro.
Saggio per una decostruzione



La maggior parte [delle persone] crede di potersi permettere di dimenticare ciò che costituisce, ai loro occhi, un intermezzo di follia completamente isolato in seno al contesto politico. Altri [ritengono] che i massacri siano un fenomeno ben noto nella storia dell'umanità e che i crimini totalitari non rivestano un'importanza specifica. Hannah Arendt


Pensare il massacro

Al termine dell'iter che raccoglie degli scritti puntuali che chiariscono, ognuno in modo singolare, le condizioni storiche dell'iscrizione del massacro nel percorso dell'umanità – senza aderire a una concezione teleologica della storia in cammino verso la realizzazione di un fine – e che interrogano le sue modalità discorsive e la sua resa narrativa nei lavori degli storici o nelle memorie sociali e nazionali, questo libro di storia è riuscito a pensare il massacro?

Oltre a una migliore conoscenza dei massacri alla quale perveniamo grazie alla qualità dei lavori storici che, secondo uno scrupoloso rispetto comune dell'impostazione metodologica comparativa attenta alla logica propria di ciascun contesto storico, non cedono mai a un livellamento delle violenze estreme né alla loro banalizzazione, questo insieme permette di cogliere il massacro come una dimensione che obbliga le diverse società umane a elaborare se stesse. L'interesse del libro deriva dal fatto che tutti i testi rinnovano, alcuni implicitamente e altri esplicitamente, l'esigenza di una società di rielaborare se stessa attraverso il problema del suo rapporto con la brutalità e con la sua manifestazione nei massacri. In un certo senso l'insieme ritorna sul diniego del massacro presentato come fatto storico che s'impone per la sua evidenza e reinterroga tale evidenza nel rinnovo dell'elaborazione della cultura umana. Attraverso il lavoro storico, la questione sociale del massacro equivale a interrogare la relazione di una società con la propria istituzione sociale: il massacro avviene nell'ambito delle relazioni ma anche come interruzione della relazione sociale, si presenta nelle società umane e ai loro limiti, al di fuori di esse.

È sul nodo di questa lacerazione che è necessario riflettere: il punto in cui il massacro appare come il limite della violenza estrema e in cui la cultura non riesce forse più ad elaborare se stessa e a riflettersi nel pensiero. Questo estremo, tuttavia, è proprio quello dell'esigenza del pensiero. Ed è proprio questa una delle motivazioni e delle qualità essenziali del presente volume in cui "l'oggetto" che gli storici hanno cercato di ricostruire implica allo stesso tempo una responsabilità sociale che va al di là di quella accademica – costantemente assunta – dei limiti scientifici del campo storico. Tutti gli articoli, animati dall'esigenza del sapere storico, pervengono ai confini del sapere e del suo "oggetto", scontrandosi, senza esorcizzarlo o respingerlo, con l'indicibile e l'inconcepibile del massacro. Il pensiero sarà allora quello del confronto di una società o di una cultura umana con i suoi massacri o con la sua "barbarie", di uno sguardo del massacro e sul massacro, che riesce a nominarlo senza occultarlo nell'eufemismo della follia, della pulsione o dell'istinto bestiale.

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Pagina 233

Filosofia e massacro: l'occultazione filosofica del massacro nella filosofia della storia

Quale legame è possibile individuare tra filosofia e massacro? Tra il discorso filosofico e la questione del massacro? Il fatto del massacro è irriducibile alla filosofia nella sua concettualizzazione, nella sua pretesa di essenza (eidetica)? La filosofia ha proposto un concetto di massacro? Può indicare una costante del massacro o deve arrendersi all'impossibilità eidetica del massacro?

Ogni pensiero che rappresenta le azioni umane ne cerca le ragioni: il pensiero rappresentativo è sempre in cerca delle ragioni in quello che la filosofia, come meditazione dell'attività di pensiero rappresentativo, ha enunciato — tardivamente rispetto alla sua nascita — come il principio di ragione. Niente è senza ragione: tutto ciò che è, per il fatto stesso di essere, ha una ragione che chiameremo la sua ragione d'essere. Contrariamente al principio di ragione della filosofia, in un testo di omaggio e di sostegno al libro di André Glucksmann, I padroni del pensiero, Michel Foucault evoca l'irriducibile fatto del massacro. La filosofia può rendere conto della fattualità del massacro e dei massacri della storia? In questo testo, egli considera il massacro nella sua irrazionalità contro la razionalizzazione dominante tramite la filosofia che riconduce all'ordine dominante del discorso. La grande portata filosofica della "nuova filosofia" sarebbe di rompere con la filosofia della storia nel suo rifiuto dell'irriducibilità fattuale dei massacri.

La prova decisiva per le filosofie dell'Antichità, era la loro capacità di produrre dei saggi; nel Medioevo, a razionalizzare il dogma; nell'età classica, a fondare la scienza; nell'epoca moderna, è la loro attitudine a rendere ragione dei massacri. I primi aiutavano l'uomo a sopportare la sua propria morte, gli ultimi ad accettare quella degli altri.

Foucault vuol fare sentire la voce soffocata da tutti i discorsi della razionalizzazione dominante, contro l'inscrizione dei massacri nell'ordine delle disgrazie del mondo, disgrazie rappresentabili e sussumibili in una storia della ragione, contro la sublimazione e la rimozione del sangue. Si tratta per la filosofia di far sentire nuovamente ciò che fa ritorno e che fa sempre ritorno, lo spettro dei massacri che ossessiona la filosofia:

È ritornata l'età di Candido dove non si può più ascoltare l'universale piccola canzone che rende ragione di tutto. I Candido del XX secolo, che hanno percorso il vecchio mondo e il nuovo attraverso i massacri, le battaglie, i carnai e la gente terrorizzata, esistono.

Foucault pone al centro del discorso filosofico razionalizzante i massacri, oltrepassandoli in una filosofia dialettica della storia contro la loro giustificazione – fatto intollerabile che, tuttavia, è ancora necessario analizzare. «Così i maestri pensatori insegnano, per il massimo bene dello Stato-rivoluzione [...] l'accettazione dei massacri senza fine».

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Pagina 236

[...] La filosofia, facendo una distinzione tra l'animale e il proprio dell'uomo, ha fornito gli strumenti di una legittimazione del massacro!

La frattura tra l'uomo e l'animale è il nodo della questione del massacro. Tutta la filosofia occidentale è attraversata da un tale lavoro di frattura: è ciò che Giorgio Agamben chiama «la macchina antropologica della filosofia occidentale» in L'aperto. L'uomo e l'animale:

In quanto in essa è in gioco la produzione dell'umano attraverso l'opposizione uomo/animale, umano/inumano, la macchina funziona necessariamente attraverso un'esclusione (che è anche e sempre già una cattura) e un'inclusione (che è anche e sempre già un'esclusione). Proprio perché l'umano è, infatti, ogni volta già presupposto, la macchina produce in realtà una sorta di stato di eccezione, una zona di indeterminazione in cui il fuori non è che l'esclusione di un dentro e il dentro, a sua volta, soltanto l'inclusione di un fuori.

Così la definizione del limite uomo/animale, che è un grosso problema filosofico, è direttamente un problema politico la cui espressione è il massacro. Potremmo anche osare dire che il massacro è l'esperienza concreta e pratica dell'operazione filosofica per eccellenza della distinzione tra l'uomo e l'animale. E questa distinzione passa al centro dell'uomo poiché si tratta della produzione dell'uomo, dell'antropogenesi come enuncia Agamben nel capitolo "Antropogenesi":

1) L'antropogenesi è ciò che risulta dalla cesura e dall'articolazione fra l'umano e l'animale. Questa cesura passa innanzi tutto all'interno dell'uomo.

2) L'ontologia, o filosofia prima, non è una innocua disciplina accademica, ma l'operazione in ogni senso fondamentale in cui si attua l'antropogenesi [...].

5) Il conflitto politico decisivo, che governa ogni altro conflitto, è, nella nostra cultura, quello fra l'animalità e l'umanità dell'uomo. La politica occidentale è, cioè, cooriginariamente biopolitica.

Per la macchina antropologica,

Ciò che dovrebbe così essere ottenuto non è comunque né una vita animale né una vita umana, ma solo una vita separata ed esclusa da se stessa – soltanto una nuda vita.

Questa poggia sulla distinzione tra la zoè, il semplice fatto di vivere, e il bios che è la forma umana propria dell'uomo. Nella produzione della "nuda vita" trova spazio la possibilità del massacro come centro della biopolitica: se esiste una politica del massacro, è nel senso della biopolitica – o dovremmo piuttosto dire nel senso della "tanatopolitica" dal rovesciamento della biopolitica in opera di morte; il massacro, in modo analogo per i campi nella storia moderna secondo Agamben, apparirebbe allora come il «paradigma nascosto dello spazio politico».

Il concetto di biopolitica deriva da Foucault per il quale la politicizzazione della nuda vita è il segno della modernità. E Foucault era stato uno dei primi a evidenziare la collusione tra la biopolitica e il massacro rilevando il paradosso seguente in un'intervista intitolata Foucault studia la ragione di Stato:

Se pensiamo al modo in cui lo Stato moderno ha cominciato a interessarsi all'individuo - a preoccuparsi della sua vita -, la storia fa sorgere un paradosso. È nel momento stesso in cui lo Stato cominciava a praticare i suoi più grandi massacri che si è messo a preoccuparsi della salute fisica e mentale degli individui. Il primo grande libro dedicato al tema della salute pubblica, in Francia, è stato scritto nel 1784, cinque anni prima della Rivoluzione e dieci anni prima delle guerre napoleoniche. Questo gioco tra la vita e la morte è uno dei principali paradossi dello Stato moderno. [...] Il massacro delle masse e il controllo individuale sono due caratteristiche profonde di tutte le società moderne.

Riprendendo il concetto di biopolitica, Agamben tenta di indicarne la continuità essenziale nella storia filosofica e politica dell'Occidente con delle fasi d'intensificazione. La nuda vita è esclusa dalla politica tradizionale – che si nutre di questa esclusione – ma ne è coinvolta come soggetto del potere sovrano.

La nuda vita, dice Agamben, è «la vita umana che si può uccidere, ma non sacrificare, dell' Homo sacer». Il massacro non è allora un sacrificio se la nuda vita ne è l'oggetto. In questa nuda vita che si può uccidere senza incorrere nella punizione, risiede la possibilità del massacro poiché è prevista l'esenzione dal diritto, dalla realizzazione ideale della vita. Nella sospensione della forma protettrice della vita umana (la sua biomorfia o biografia), nella sua animalizzazione che è una zoologizzazione, si colloca la possibilità della defigurazione e del massacro. Estendendo la definizione di Agamben della vita che non si può uccidere impunemente, diremo che la nuda vita è quella che si può massacrare, la vita massacrabile (che è stata resa massacrabile) tramite la sospensione delle forme difensive del diritto. Secondo un'etimologia fittizia del massacro, potremmo dire che il mas-sacro suggerisce il sacro della nuda vita, dell' Homo sacer.


Inoltre, l'eccezione della nuda vita è quella del potere sovrano: la nuda vita è l'effetto della sovranità. La sovranità è la potenza di eccezione del diritto e della sospensione delle forme di vita che informano idealmente la vita e la raffigurano e la trasfigurano dalla zoè in bios. La sovranità defigura la bios che riduce a eccezione della nuda vita, informe e snaturata. Questa eccezione della nuda vita al di fuori delle forme del politico e del giuridico definisce la sovranità. Riprendendo la definizione del giurista tedesco Carl Schmitt, il sovrano è quello che si definisce per la sua capacità di decidere dell'eccezione. Nell'universale proibizione dell'assassinio, il sovrano è colui che decide concretamente dell'eccezione e della sospensione del diritto. La sovranità è la capacità di colui che ha il diritto di sospendere il diritto o anche lo Stato di diritto. Si può notare che questo concetto è di origine teologica: Dio è il sovrano supremo e vero. Questo potrebbe anche spiegare il fatto che i massacri si manifestano in Europa nel contesto delle guerre di religione: è in nome di Dio che si massacra, ín nome dell'eccezione sovrana e divina che, nel momento stesso in cui proibisce l'assassinio, esonera l'assassino. Agamben propone un'analisi di questa eccezione sovrana che è una «specie dell'esclusione», secondo il modello di un'esclusione che mantiene un rapporto con la norma, di una sospensione della regola che produce l'eccezione: «la sovranità si presenta nella forma di una decisione sull'eccezione». Questa decisione sovrana concerne la «relazione stessa tra il diritto e il fatto», riproponendo la questione della filosofia nella sua giustificazione dell'ingiustificabile fatto del massacro. Per di più, aggiunge Agamben,

Se l'eccezione è la struttura della sovranità, la sovranità non è, allora, né un concetto esclusivamente politico, né una categoria esclusivamente giuridica, né una potenza esterna al diritto (Schmitt), né la norma suprema dell'ordinamento giuridico (Kelsen): essa è la struttura originaria in cui il diritto si riferisce alla vita e la include in sé attraverso la propria sospensione».

Se la sovranità è l'eccezione della nuda vita (che è dunque il vero soggetto del sovrano) e se la nuda vita – resa tale dalle eccezioni sovrane e dalle decisioni di una spartizione al centro dell'umano tra l'umano e il non umano – è la condizione che rende possibili i massacri, allora possiamo affermare che il massacro è una struttura della sovranità: il massacro è sovrano o è l'attributo del sovrano. Il che sarebbe valido sia per i massacri moderni, che furono sovente dei massacri di Stati sovrani contro i propri cittadini, sia per i massacri della folla nella quale si potrebbe riconoscere una parte della vana sovranità degli individui che contestano il monopolio della violenza dello Stato e che imitano a loro volta la sovranità. La sovranità produce una disumanizzazione a causa della separazione dell'umanità da se stessa. Così, la disumanizzazione è sovrana e la sovranità disumanizzante: essa cela sempre in sé la possibilità reale del massacro. Secondo la logica della sovranità, possiamo allora affermare che il concetto di massacro appartiene al campo giuridico nella forma stessa di tale sospensione del giuridico o che appartiene al campo politico nella forma di tale esclusione. Bisogna tuttavia osservare che l'eccezione sovrana del massacro è quella che oggi i diritti internazionali tendono a rimettere in discussione. Sembrerebbe allora necessario tracciare una storia della punizione dei massacri, storia contraddittoria visto che il massacro è definito, innanzitutto, come l'eccezione sovrana della morte senza punizione legale.


Non c'è sovranità senza massacro, questo è il segno dell'eccezionalità del sovrano e dell'eccezione rispetto al diritto. La decostruzione del massacro deve allora passare attraverso la decostruzione della sovranità e del sistema sovrano. La decostruzione della sovranità dovrebbe essere per l'enigma del massacro la risorsa di un pensiero possibile al di là del massacro.

VINCENT HOUILLON

Maison d'éducation de la Légion d'honneur de Saint-Denis

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