|
|
| << | < | > | >> |Pagina 5PrefazioneQuesto libro racconta i diciotto giorni della rivoluzione egiziana, iniziata il 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir al Cairo. "Diciotto giorni che hanno sconvolto l'Egitto", rivissuti attraverso la penna di alcuni dei giovani protagonisti. I loro diari si concludono l'11 febbraio 2011, quando l'83enne presidente Hosni Mubarak è stato costretto a lasciare la presidenza, dopo quasi 30 anni al potere. Questo libro va in stampa sette mesi dopo quegli eventi, dopo che nuove proteste hanno animato piazza Tahrir, al grido "la rivoluzione non è finita". Sarà possibile costruire una società aperta, pluralista, democratica e un potere che davvero risponda ai suoi cittadini al posto di un regime non trasparente, di una burocrazia ipertrofica e corrotta, di un'élite abituata al privilegio e di un popolo dipendente dai sussidi per cibo ed energia? Le aspettative sono grandi. Lo sono anche i problemi del paese: povertà, disoccupazione, diseguaglianza sociale che sono state tra le ragioni della sollevazione popolare. E alle scene di solidarietà tra musulmani e cristiani in piazza Tahrir hanno fatto seguito nei mesi scorsi nuovi scontri sanguinosi tra le due comunita. I problemi di sempre. Nel dopo-Mubarak, lo slogan della rivoluzione "l'esercito e il popolo sono una mano sola" e l'elogio dei militari che rifiutarono di sparare sul popolo hanno ceduto il campo a conflittualità e accuse reciproche tra i generali e la piazza. La giunta militare che ha preso il potere nel febbraio 2011 – ovvero il Consiglio Supremo delle Forze Armate guidato dal Feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi, che per 20 anni è stato il ministro della Difesa di Mubarak – si è assunta il compito di gestire la transizione fino al voto e di assicurare stabilità e insieme riforme. Ma migliaia di persone sono tornate a manifestare il 27 maggio e ancora una volta l'8 luglio 2011, accusando l'esercito di tradire gli ideali della rivoluzione. Le ragioni: la lentezza delle riforme democratiche come pure dei processi per punire i responsabili della repressione, in quei diciotto giorni sono morti, infatti, almeno 850 cittadini; la permanenza al potere di uomini dell'era Mubarak, anche nel governo provvisorio, soggetto a continui rimpasti; i processi militari cui, nel "nuovo" Egitto, sono stati sottoposti tra i 5000 e i 10.000 civili, secondo stime di diverse organizzazioni per i diritti umani; e le accuse di torture sistematiche nei confronti dei manifestanti anche dopo la caduta del presidente. Uno dei casi che ha fatto più scalpore è quello di 17 egiziane che, arrestate in una protesta a marzo, hanno denunciato di essere state maltrattate e sottoposte con la forza a esami per appurare se fossero o meno vergini. L'esercito usa Facebook, ma i suoi comunicati esprimono un linguaggio conservatore, diverso da quello dei giovani manifestanti pronti a sfidare le autorità in nome di un Egitto veramente "nuovo". Lo scontro si è acuito al punto che un generale ha dichiarato che movimenti come "il 6 aprile" e "Kefaya", significativi nell'organizzare la rivoluzione, sarebbero gruppi "finanziati dall'estero" per creare divisioni tra il popolo e l'esercito, riecheggiando strategie usate nell'era Mubarak nonché in altri regimi per delegittimare le proteste. Le prossime elezioni sono al centro di un braccio di ferro tra forze concorrenti. L'Egitto ha bisogno di un parlamento, di una costituzione e di un presidente della Repubblica. In un clima di sospetti reciproci tra liberali e islamici, le elezioni parlamentari inizialmente previste a settembre sono state rimandate a novembre dalla giunta militare, e le presidenziali dovrebbero tenersi l'anno prossimo. La Fratellanza Musulmana è il gruppo di gran lunga più organizzato perché operativo da decenni. Dal 1954 era stato bandito, ma dagli Anni Settanta il governo aveva di fatto consentito che operasse nonostante i frequenti arresti. Nel 2005 i candidati si erano formalmente presentati come indipendenti ma la loro campagna portava il nome della Fratellanza e lo slogan "l'Islam è la soluzione". Dalla Fratellanza è ora nato il Partito libertà e giustizia, ma sono emerse anche divisioni interne tra vecchia dirigenza e giovani (critici, questi ultimi, anche della prudenza degli "anziani" nei confronti delle Forze armate). Più che per la Fratellanza Musulmana, alcuni laici sono preoccupati per l'emergere di gruppi salafiti, repressi sotto Mubarak, che seguono un'interpretazione letterale del Corano e che hanno creato diversi partiti. Un esempio: le femministe osservano che i salafiti vorrebbero annullare una riforma del 2000 che garantisce alle donne di divorziare per "incompatibilità" (anche senza aver subito abusi) a condizione di rinunciare ai beni del marito. Quale sarà il rapporto tra lo Stato e l'Islam definito dalla nuova costituzione? Poiché verrà scritta da un'assemblea costituente nominata dal nuovo parlamento (lo ha deciso un referendum popolare a marzo), i partiti liberali temono un'alleanza tra la Fratellanza e altri gruppi islamici per una costituzione in linea con la sharia, la legge islamica. Nella Carta precedente, i principi della legge islamica venivano citati come principale fonte del diritto egiziano. La giunta militare ha nominato propri esperti per formulare una serie di "principi di base" che servano da guida alla scrittura della nuova costituzione, una decisione che non rasserena del tutto gli egiziani. Mentre alcuni vedono l'esercito come un baluardo contro un eccessivo potere degli islamici, altri temono che i generali vogliano garantirsi un ruolo indipendente rispetto ai nuovi leader civili, che permetta loro di intervenire in politica e di proteggere anche i propri enormi interessi economici. L'orizzonte è incerto, ma offre anche ragioni per essere ottimisti. Una di queste è il dibattito aperto che esiste oggi in Egitto su tanti temi che prima erano tabù. "Ci sono molte divisioni. Ma si tratta di differenze di cui prima non si parlava. Alle soluzioni si può arrivare solo discutendo seriamente, anche se a volte lo scontro può essere forte", mi diceva a luglio Sarah El-Sirgany, una delle autrici di questo libro. Ho conosciuto Sarah nel 2005. Lavoravamo nello stesso mensile egiziano in lingua inglese al Cairo. Per un giornalista, scrivere di politica e di religione era come camminare in un campo minato. L'autocensura su alcune questioni era d'obbligo, pena il vedere l'intera foliazione sequestrata in edicola oppure le pagine dell'articolo incriminato strappate da ogni singola copia in vendita. Mentre questo libro andava in stampa, i giornalisti egiziani denunciavano pressioni e censure da parte dei militari. A luglio, la conduttrice di un popolare talk show su una tv privata è stata licenziata per aver citato un articolo che criticava un generale. Ad aprile, un blogger è stato condannato a tre anni di carcere per insulto alle forze armate, altri sono stati interrogati. Ma giornalisti e blogger come Sarah continuano a premere per avere maggiori libertà. Continuano, come in quei primi diciotto giorni, a raccontare la storia della rivoluzione, credendo di poter cambiare – davvero – l'Egitto. Viviana Mazza | << | < | > | >> |Pagina 11IntroduzioneNegli anni Novanta in Egitto si poteva appena bisbigliare il nome di Hosni Mubarak. Al telefono si evitava di parlare di politica e di fare qualsiasi battuta sul presidente. Oggi, a distanza di vent'anni, milioni di egiziani hanno avuto il coraggio di ribellarsi contro la dittatura, affrontando per diciotto giorni i lacrimogeni, le pallottole di gomma e i proiettili sparati dalla polizia e dimostrando finalmente di essere riusciti a vincere le loro paure. Sarebbe un errore pensare che tutto questo sia accaduto per caso, da un giorno all'altro. La rivoluzione egiziana non è piovuta dal cielo il 25 gennaio del 2011, ma è stata il risultato di un processo maturato nel corso dei dieci anni precedenti, una specie di reazione a catena innescata dalle manifestazioni scoppiate nell'autunno del 2000 in solidarietà con l'inizio della seconda intifada palestinese. Negli anni Novanta il pugno di ferro di Mubarak e la "sporca guerra" scoppiata tra il regime e i militanti islamisti erano riusciti a mettere a tacere il dissenso. Il governo aveva bandito ogni forma di protesta pubblica e rispondeva con la forza a tutte le manifestazioni organizzate in questi anni nonostante i divieti. La polizia sparava sui lavoratori in sciopero e i sindacati, sottoposti al controllo del governo, avevano le mani legate. Quando è cominciata la seconda intifada in Palestina, a settembre del 2000, decine di migliaia di egiziani sono scesi in piazza per manifestare la loro solidarietà nei confronti del popolo palestinese. Una mobilitazione del genere non si vedeva dal 1977, l'anno della rivolta del pane esplosa dopo che il presidente Anwar Sadat aveva deciso di sospendere i sussidi statali sui beni alimentari di prima necessità. In poco tempo le manifestazioni pro-Palestina hanno iniziato ad assumere i toni di una protesta contro il governo e il governo ha deciso di far intervenire la polizia per disperdere questi cortei che si svolgevano in modo totalmente pacifico. All'epoca il presidente era comunque un argomento tabù e gli slogan contro Mubarak si intonavano molto di rado. La prima volta in cui ricordo aver sentito gridare in massa qualche parola contro Mubarak è stato nell'aprile del 2002, e ancora durante alcune iniziative a sostegno della Palestina organizzate vicino all'università del Cairo: i manifestanti combattevano contro le guardie del regime ripetendo a gran voce: "Mubarak è come Sharon". Di lì a poco la rabbia si sarebbe accesa di nuovo e in modo ancora più violento subito dopo l'inizio della guerra in Iraq, a marzo del 2003. In quell'occasione più di trentamila egiziani hanno affrontato la polizia per le strade del centro della capitale e sono riusciti, anche se solo per poco tempo, a prendere il controllo di piazza Tahrir, bruciando il cartellone con il ritratto di Mubarak che campeggiava nella piazza. Mentre Al Jazeera e altre reti satellitari trasmettevano in diretta le immagini della rivolta palestinese e dell'invasione dell'Iraq guidata dalle truppe statunitensi, quelle scene scuotevano la coscienza degli egiziani spingendoli a superare giorno dopo giorno il timore delle ritorsioni che avrebbero potuto subire. Nel 2004 un gruppo di attivisti di provenienza diversa, per lo più militanti propalestinesi ed esponenti della società civile e del movimento contro la guerra in Iraq, hanno dato vita a "Kefaya" – che in arabo significa "basta" - una nuova piattaforma politica che denunciava senza mezzi termini il regime, attaccando direttamente Mubarak e la sua gente. Nonostante non sia riuscito a creare un seguito enorme tra i lavoratori e i ceti popolari, Kefaya ha contribuito a scuotere la cultura politica del paese facendo campagna sui mezzi d'informazione tradizionali e servendosi abbondantemente di internet e dei social network. Grazie alla diffusione mediatica delle mobilitazioni organizzate da Kefaya, milioni di egiziani seduti nelle loro case hanno potuto assistere alle imprese di questi giovani attivisti che andavano in giro per il centro del Cairo insultando il presidente e sventolando striscioni con slogan che dieci anni prima sarebbero stati inimmaginabili. Una tappa fondamentale sulla strada della rivoluzione egiziana è stato senza dubbio lo sciopero di Mahalla. A dicembre del 2006 i lavoratori del maggiore complesso industriale tessile di tutto il Medio Oriente, situato nella città di Mahalla sul delta del Nilo, hanno cominciato a sospendere le attività dello stabilimento. Lo sciopero è stato il primo segnale di risveglio della lotta di classe dopo vent'anni di immobilismo, causati dalla repressione brutale del regime e dall'applicazione di una serie di riforme neoliberiste varate dal governo con la benedizione dell'FMI e della Banca Mondiale. La vittoria dei lavoratori di Mahalla, una vittoria importante che ha ricevuto una grande copertura mediatica, ha contagiato anche gli operai di altri complessi industriali che hanno iniziato a protestare per ottenere gli stessi diritti conquistati nelle fabbriche di Mahalla. Di lì a poco tutto il settore tessile è stato travolto da un'ondata di scioperi e ben presto il movimento è riuscito a coinvolgere altri rami dell'economia nazionale. Le immagini degli scioperi diffuse ovunque, in tv e su internet, hanno fatto sì che milioni di lavoratori prendessero l'iniziativa di lanciare nuove mobilitazioni, prendendo spunto dai risultati positivi strappati dalle proteste portate avanti da operai di settori diversi in tutto l'Egitto. Molti dei lavoratori che ho intervistato durante gli scioperi del 2007 mi hanno spiegato che il successo di Mahalla gli aveva dato la forza e il coraggio di agire. Anche se in tanti all'epoca hanno tentato di screditare e sminuire la portata degli scioperi, dicendo che si trattava semplicemente di lotte per il salario, la protesta era radicalmente politica e avrebbe avuto ripercussioni negli anni successivi. Ad aprile del 2008 a Mahalla è scoppiata una rivolta popolare contro l'aumento del prezzo del pane e poco dopo la mobilitazione ha raggiunto anche El Borollos, una città a nord del delta del Nilo. A Mahalla le forze di sicurezza hanno disperso brutalmente le manifestazioni nel giro di due giorni, causando almeno tre morti e centinaia di arresti. La cosiddetta "intifada di Mahalla", che ha visto la gente invadere le strade e affrontare la polizia e l'esercito, distruggendo i ritratti di Mubarak e attaccando i simboli del Partito nazionale democratico, può essere considerata una prova generale di quello che è accaduto a gennaio del 2011. Anche se il regime ha sempre risposto con violenza a tutte le rivendicazioni sociali che sono state portate avanti da allora, gli egiziani non si sono dati per vinti. Gli scioperi e i sit-in organizzati ovunque dai lavoratori si sono moltiplicati, gli attivisti hanno continuato a lanciare iniziative in giro per il Cairo e in altre città e le elezioni per il rinnovo del parlamento, che si sono svolte tra novembre e dicembre del 2010 segnando l'ennesima vittoria del partito di Mubarak, sono state contestate duramente dai cittadini. L'intensificarsi delle proteste contro il governo era un indice del fatto che la legittimità del regime di Mubarak, se mai sia esistita, si stava progressivamente sgretolando. Alla fine del 2010 era chiaro che c'era qualcosa nell'aria. Era diventato normale andare a lavoro e incappare ogni giorno in uno sciopero o in un presidio. La sera, tornando a casa, gli impiegati pubblici stipendiati dal governo, incrociavano gruppi di attivisti che organizzavano mobilitazioni sparse per il Cairo. Se ne tenevano a distanza, a volte reagivano; in ogni caso sono stati costretti a fare i conti con la crescita di un fenomeno inarrestabile: l'espressione quotidiana del malcontento e della rabbia della popolazione. La rivoluzione scoppiata il 25 gennaio, perciò, è stata il risultato di un lungo processo durante il quale il terrore degli egiziani è venuto meno giorno dopo giorno. Quello che è accaduto in Tunisia, la rivolta di gennaio e la fine del regime di Ben Ali, ha avuto un'importanza enorme per milioni di cittadini. Le immagini di Tunisi trasmesse da Al Jazeera hanno contribuito, insieme ai ripetuti episodi di abusi della polizia, ad accendere la scintilla della protesta egiziana: per riuscire a vincere le proprie paure non c'è niente di meglio del fatto di sapere che qualcun altro, da qualche altra parte, condivide lo stesso desiderio di liberazione e ha già cominciato a combattere per realizzarlo. La nostra rivoluzione voleva prendere di mira il regime di Mubarak, ma l'unica cosa che siamo riusciti a fare finora è stato liquidare il presidente. Attualmente il paese è in mano ai generali dell'esercito che fin dall'inizio sono stati uno dei pilastri della dittatura. In tanti sono rimasti delusi da come sono andate le cose dopo la caduta di Mubarak; io personalmente lo sono meno di altri, perché ero scettico in partenza rispetto all'ipotesi di un governo di transizione guidato dai militari. Nonostante tutto ci sono due processi che hanno preso forma in Egitto negli ultimi sei mesi e che mi fanno ben sperare. Entrambi credo che siano un indizio del fatto che la rivoluzione non è ancora finita. La prima buona notizia è che sono continuati gli scioperi, la seconda è che i lavoratori hanno preso l'iniziativa di creare dei sindacati indipendenti, che penso siano l'unico rimedio possibile contro ogni dittatura. Molti attivisti moderati si sono impegnati per cercare di contenere gli sviluppi della rivoluzione e assicurarsi che le cose sarebbero rimaste entro i limiti della politica istituzionale. Il tweet postato da Wael Ghonim (attivista egiziano, responsabile del settore marketing Google) subito dopo la caduta di Mubarak – "Missione compiuta!" è indicativo di questa tendenza. Il senso di quell'espressione in altre parole è "grazie a tutti, adesso tornate a lavorare e concentrate tutte le vostre energie nella ricostruzione del paese, ma soprattutto non combinate guai". Ho molta stima di quello che Wael Ghonim ha fatto per l'Egitto, ma credo che il suo punto di vista sia espressione di certi sentimenti piuttosto diffusi tra la classe media egiziana e condivisi anche tra le fila dell'esercito e dai mezzi di informazione che non fanno altro che farsi eco di questa visione delle cose, demonizzando le lotte dei lavoratori accusati di essere avidi di denaro e mossi solo dalla volontà di difendere i propri interessi. La verità, invece, è che una rivoluzione deve provvedere all'emancipazione dei cittadini. Se si vuole eliminare la corruzione e il clientelarismo del sistema elettorale bisogna fare in modo che la gente viva in condizioni di vita decenti, percepisca salari adeguati e sia consapevole dei propri diritti. Gli attivisti benestanti che simpatizzano con la causa della democrazia pensano che la rivoluzione sia compiuta e di poter lasciare le piazze e tornare tranquillamente a ricoprire i loro incarichi prestigiosi da qualche altra parte, ma i lavoratori dei trasporti pubblici, ad esempio, che dopo venti anni di servizio guadagnano 189 libbre egiziane al mese, vivono una condizione molto diversa: non basta dirgli: "Tornate a lavorare e abbiate pazienza che tutto sarà risolto quando finalmente avremo il prossimo governo". Quella che è appena cominciata è la fase due della rivoluzione, il momento in cui devono essere avviati i cambiamenti sociali ed economici. Adesso dobbiamo portare piazza Tahrir nelle fabbriche, nelle università e nei luoghi di lavoro. In tutte le istituzioni del paese sono ancora troppi i rappresentanti del vecchio regime che devono essere espulsi, l'Egitto è ancora pieno di Mubarak in miniatura. Sembra che la controrivoluzione non si stia organizzando in modo strutturale, ma è facile immaginare che chiunque in passato abbia fatto parte della cerchia degli eletti del potere e finora abbia goduto di privilegi immensi, sia pronto a difendersi ostinatamente dalla minaccia di ogni metamorfosi. La frustrazione e la rabbia che si respirano oggi in Egitto derivano soprattutto dalla necessità di fare i conti con questa situazione. C'è tanto risentimento da parte dei lavoratori egiziani nei confronti delle politiche neoliberiste che nel corso degli ultimi vent'anni li hanno costretti a vivere in condizioni indecenti e per questo le lotte per il cambiamento si prospettano dure e drammatiche. Non c'è dubbio che i governi occidentali e arabi, che mostrano poco entusiasmo rispetto a cio che sta succedendo in Egitto, saranno sempre meno felici degli sviluppi a cui assisteranno in futuro. La speranza è che, nonostante le forti pressioni che gli altri paesi potranno esercitare sulla giunta militare per fare in modo che tenga la situazione sotto controllo, la forza delle piazze sia comunque maggiore, perché gli egiziani ci tengono alla loro rivoluzione.
Hossam El-Hamalawy
|