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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione di Antonio Erbetta IX I. Lo sguardo del corpo. Da una rilettura del «Tonio Kröger» di Thomas Mann di Marina Lazzati 3 II. Il corpo necessario ovvero crudele. La danza inorganica di Antonin Artaud di Elvira Bonfanti 27 III. L'occhio sovrano. In margine all'inaudito Bataille. Ovvero quando un presunto pornografo diventa educatore sublime di Antonio Erbetta 51 IV. Corpo della parola, corpo del mondo. Dal «Diario» di Etty Hillesum di Alessandra Risso 73 V. Il corpo mosso di Marco Rossi 97 VI. Il sapore del mondo. Sul senso formativo de «La nausea» di Jean-Paul Sartre di Ivano Oggero 109 VII. La vanità del corpo. A proposito di Cioran, l'insopportabile Qohèlet romeno di Ugo Dí Donato 133 VIII.Il linguaggio dei loro capelli. Lo scandalo pedagogico di Pier Paolo Pasolini di Grazia Massara 153 IX. Il corpo stretto. Luciano Bianciardi tra integrazione e rivolta di Elena Madrussan 185 X. Epilogo pedagogico di Alessandra Risso 211 Bibliografia 223 |
| << | < | > | >> |Pagina IXIntroduzione
di Antonio Erbetta
Nell'oramai lontanissimo 1965, all'inizio dell'autunno, Jean-Paul Sartre teneva in Giappone - a Tokio per la precisione - la prima di una serie di celebri conferenze poi pubblicate, nel 1972, all'interno dell'ottavo volume di Situations, in cui egli, lanciato in una appassionata «difesa dell'intellettuale», mostra, per così dire, la legalità culturale, morale e sociale di una definizione con cui rispondere alla domanda che porta il titolo stesso di quella prima conferenza: qu'est-ce qu'un intellectuel? Donde la risposta, come al solito provocatoria e tutta intrisa della tradizione «pedagogica» del suo maestro, Émile August Chartier detto Alain, e dello «spirito di negazione» che quella tradizione implicava: «L'intellettuale - dirà dunque Sartre con intenzionalità decisamente polemica - è qualcuno che s'immischia in ciò che non lo riguarda», in contrasto, così, con qualsiasi «tecnico del sapere pratico», sin a diventare - egli - l'unico vero testimone di una società lacerata. Una società nella quale, in quanto «uomo che prende coscienza dell'opposizione» tra ricerca della verità e ideologia dominante, a lui tocca una situazione di solitudine destinata a diventare, fino al «martirio», impegno radicale: farsi alla fine «custode dei fini fondamentali». Certo: in quell'occasione Sartre, con fare sicuramente provocatorio, rivendicava quel che era stata la passione assoluta che ne aveva pervaso la vita fin dai tempi della giovinezza: l'idea che la scrittura, per uno scrittore vero, rappresentasse in fin dei conti tutto il suo destino, tanto che, ne La force de l'age, cosi aveva detto di lui Simone de Beauvoir: «L'opera d'arte, l'opera letteraria, era per lui un fine assoluto; essa portava in sé la sua ragion d'essere, quella del suo creatore, e forse anche - questo non lo diceva, ma sospettavo lo pensasse fermamente - quella dell'intero universo». Salvo il fatto che lì, in quella difesa dell'intellettuale engagé che tante polemiche meschine ha suscitato, oggi come allora, Sartre poneva più in generale un problema tipicamente fenomenologico che non valeva tanto - o soltanto - a certificare lo statuto critico del «letterato», quanto semmai a decifrare il senso storico ed esistenziale di un lavoro capace di reagire al disincanto del mondo. Il problema, cioè, di sfuggire, ciascuno, dall'angustia specialistica di qualsiasi mera descrizione di quello stesso mondo, per tentare la strada di una sua interpretazione di senso capace di strapparlo dal mutismo di una fatticità senza orizzonti. Un progetto in cui risuona l'evidente richiamo di Husserl che, alle prese trent'anni prima con la «crisi delle scienze europee», ci aveva ricordato - e Sartre ne aveva registrato da subito la portata epocale - come «le mere scienze di fatti producano meri uomini di fatto», e come, sotto questo profilo, «nella miseria della nostra vita [...] questa scienza non ha niente da dirci», in quanto «essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l'uomo»; vale a dire - concludeva Husserl - «i problemi del senso o del non-senso dell'esistenza umana». | << | < | > | >> |Pagina 109VI.Il sapore del mondo. Sul senso formativo de «La nausea» di Jean-Paul Sartre di Ivano Oggero Mi stanno capitando le cose più strane... i miei sensi... intendo il senso dell' udito, della vista, del tatto... cominciano a tradirmi. Sì... per esempio, so che questo tavolo è un tavolo, lo posso vedere e toccare... ma è una sensazione limitata, stanca... capisce quello che voglio dire?» «Si, ho capito.» «Lo stesso vale per tutto il resto: la musica, gli odori, i volti e le voci della gente, tutto mi appare più povero, più grigio, senza nessun valore... INGMAR BERGMAN 6.1 Una premessa Il film è Scene da un matrimonio; Bergman è lucido e spietato come al solito: di fronte ad un'attonita Liv Ullmann nella parte di un avvocato, una donna sulla sessantina spiega perché vuole divorziare da suo marito. Non c'è nulla che non vada, i figli sono adulti e sposati, lei e suo marito hanno tutto ciò che si può desiderare per condurre una vita tranquilla e senza pensieri: amici, interessi in comune, la musica, una bella casa di campagna, la salute. Solo una cosa manca: il suo è un matrimonio senza amore. La donna torna e ritorna su questo tema, minuziosamente spiega alla sua interlocutrice questo strano capriccio: «Ho tutto, eppure mi ostino a cercare una cosa così confusa che chiamo amore, lei certo mi giudicherà capricciosa ed egoista...». Poi la telecamera inquadra le mani della donna che cercano di aprire uno spiraglio immaginario («ho creduto di amare, cercavo di aprire una porta che rimaneva sbarrata!») e, immediatamente dopo, il volto pietrificato di Liv Ullmann. «Terribile!», dice la giovane donna, che per un istante intuisce e immediatamente rifiuta il suo stesso stato. La mano della donna indugia poi sul tavolo, lei parla e spietatamente conclude che tutto appare limitato, povero e grigio. Una sorte simile, per altri e più complessi motivi, capita ad Antoine Roquentin, protagonista del romanzo di Jean-Paul Sartre, La nausea: Ora me ne accorgo - annota Roquentin nel suo diaro - mi ricordo meglio ciò che ho provato l'altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com'era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne sono sicuro, passava dal ciottolo alle mie mani. Si, è così, proprio cosi, una specie di nausea nelle mie mani (Sartre, 1938; trad. it. 1990, p. 23). Roquentin ritornerà spesso su questa ripugnante qualità che promana dalle cose che tocca, che vede, che gusta, lamentando il fatto che le cose non dovrebbero essere così «vive». Il nostro scritto si occuperà esattamente di questo fenomeno che, in prima battuta, vorremmo chiamare ribellione. Un mondo (cose, persone, situazioni) che perde improvvisamente la sua neutralità oggettiva o le sue qualità «gustose», per rivelare di sé uno strano sapore, ora inconsistente e povero, ora ripugnante e nauseante. Vedremo in seguito se questa sconcertante esperienza può avere a che fare con l'educazione e in che modo. | << | < | > | >> |Pagina 185IX.Il corpo stretto. Luciano Bianciardi tra integrazione e rivolta di Elena Madrussan Ah! Se la comunità umana è possibile solo a prezzo di imbavagliamento e asfissia, che venga presto la bomba alla melinite che farà saltare tutto. VLADIMIR JANKÉLÉVITCH 9.1 Il linguaggio sociometrico Luciano Bianciardi non intendeva davvero scrivere di educazione. Nella nebbiosa Milano degli anni Cinquanta egli non si sentiva certo «pedagogo» - tantomeno «pedagogista» - e non aveva pensato di esserlo, probabilmente, nemmeno quando insegnava inglese alla scuola media o filosofia e storia al Liceo Classico di Grosseto. Né, a maggior ragione, nessuno potrebbe osare definirlo tale a posteriori. Eppure la vita di Bianciardi è stata, per chi volesse accostarcisi, esemplarmente pedagogica. Non è facile comprendere il criptogramma che l'Autore espone e nasconde incessantemente agli occhi di chi lo legge, fatto di descrizioni che ostentano la forza dell'obiettività e che, nel contempo, non smettono di mostrarsi sentimentali. Una letteratura, la sua, cosí ingannevolmente limpida e semplice da destare il sospetto di avere a che fare con una contraddittoria, seria eppure scorrevole autobiografia. E di narrazione di sé certo si tratta, con riferimenti continui ad eventi realmente accaduti, a situazioni e stati d'animo certamente vissuti, ma con tanto di non detto e di non dicibile che rende davvero impossibile quel «riconoscimento» che annienta ogni sentimento di estraneità. Per questo Bianciardi non si può «conoscere»; a Bianciardi, forse, ci si può solo «accostare».
Di tutti i modi autobiografici che la letteratura
contempla questo è, di conseguenza, uno di quelli che fa
fatica a dirsi esplicitamente tale, non certo per la
debolezza dell'Autore o del suo stile, ma, piuttosto, in
quanto quel modo è figlio primogenito di una precisa
intenzione: la denuncia.
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