|
|
| << | < | > | >> |Indice7 1. 1988 25 2. Solo in mezzo a noi 60 3. Giustizia 70 4. Forte come un bisbiglio 102 5. Contaminazione 130 6. Datalore 153 7. Missione di soccorso 176 8. Il ritorno di Q 238 9. Il grande addio 286 10. La pelle del male 339 11. La bambina 379 Postfazione |
| << | < | > | >> |Pagina 7La casa dei miei genitori era stata aggredita alle fondamenta da una massa di alberelli. Erano semplici arbusti, con una o due foglie rigide e sane. Nondimeno, quei getti filiformi erano riusciti a introdursi nelle crepe appena visibili delle scandole decorative marroni che coprivano i blocchi di cemento. Erano penetrati nel muro sottostante e si faceva fatica a strapparli. Davanti a quella resistenza mio padre si asciugò la fronte con la mano e imprecò. Io stavo usando un vecchio estirpatore da erbacce arrugginito col manico scheggiato; lui impugnava un attizzatoio di ferro lungo e sottile che probabilmente faceva più male che bene. Quando mio padre frugava alla cieca nei punti dove sentiva che potevano essere entrate le radici, faceva sicuramente dei comodi buchi nella malta per le pianticelle dell'anno seguente. Ogni volta che riuscivo a sloggiare un arboscello, lo posavo accanto a me come un trofeo sullo stretto marciapiede che circondava la casa. C'erano polloni di frassino, olmo, acero, sambuco e persino una catalpa bella grossa, che mio padre mise in un secchiello da gelato e annaffiò, con l'idea di trovare un posto dove ripiantarla. Io pensavo che era un miracolo che quegli alberelli fossero scampati a un inverno nel North Dakota. Acqua ne avevano avuta, come no, ma pochissima luce e solo qualche briciola di terra. Eppure ogni seme era riuscito a spingere la punta di una radice in profondità e a mandare un viticcio in esplorazione verso l'esterno. Mio padre si raddrizzò, stirandosi la schiena indolenzita. Basta così, disse, anche se di solito era un perfezionista. Io, però, non avevo voglia di smettere, e dopo che lui fu entrato in casa per telefonare a mia madre, che era andata in ufficio a prendere una pratica, continuai a ficcare il mio attrezzo sotto le piccole radici nascoste. Mio padre non venne più fuori e io pensai che doveva essere andato a schiacciare un pisolino, come adesso faceva ogni tanto. Si potrebbe pensare che un ragazzo tredicenne come me avesse cose più interessanti da fare, e che preferisse sospendere il lavoro; invece accadde l'opposto. Mentre passava il pomeriggio e nella riserva tutto taceva, mi sembrò ancora più importante che ognuno di questi invasori fosse strappato via fino all'ultima estremità di radice dove si concentrava tutta la sua forza vitale. E altrettanto importante mi parve eseguire un lavoro meticoloso, al contrario di tante faccende che portavo a termine sbuffando. Ancor oggi, mi meraviglia la profondità della mia concentrazione. Incuneavo il ferro dell'estirpatore sotto il germoglio e per tutta la sua lunghezza. Ogni arboscello richiedeva una particolare strategia. Era quasi impossibile non rompere la piantina prima di poterla estrarre intatta dal nascondiglio dove si teneva ostinatamente rintanata. Alla fine smisi, entrai in casa e sgusciai nello studio di mio padre. Tirai fuori il trattato di giurisprudenza che lui chiamava La Bibbia. Il Manuale di diritto federale indiano di Felix S. Cohen. Era stato regalato a mio padre da suo padre; la rilegatura rosso ruggine era graffiata, la lunga costola crepata, e ogni pagina recava commenti manoscritti. Io cercavo di abituarmi a quel linguaggio antiquato e alle continue note a píè di pagina. Qualcuno, o mio padre o mio nonno, aveva messo un punto esclamativo a pagina 38, di fianco al testo in corsivo di una causa che naturalmente aveva interessato anche me: gli Stati Uniti contro Quarantatré galloni di whiskey. Immagino che uno di essi, come me, avesse trovato ridicolo questo titolo. Nondimeno, cominciavo ad assimilare l'idea, enunciata in altre cause e rafforzata da questa, che i nostri trattati col governo erano come i trattati con nazioni straniere. Che la grandezza e il potere di cui parlava Mooshum, mio nonno, non si erano persi del tutto perché erano ancora, almeno fino a un certo punto, ed era questo che volevo sapere, protetti dalla legge. Stavo leggendo e bevendo un bicchiere d'acqua fresca in cucina quando mio padre si svegliò ed entrò nella stanza, sbadigliando, disorientato. A dispetto della sua importanza, il Manuale di Cohen non era un libro pesante, e quando mio padre fece la sua comparsa me lo tirai rapidamente sulle ginocchia, sotto il tavolo. Lui si leccò le labbra secche e si guardò intorno, cercando, forse, l'odore di cibo, il suono delle pentole o il tintinnio dei bicchieri, o un rumore di passi. Ciò che disse poi mi sorprese, anche se, apparentemente, le sue parole sembrano di poco peso. Dov'è tua madre? La sua voce era roca e secca. Feci scivolare il libro su un'altra sedia, mi alzai e gli porsi il mio bicchiere d'acqua. Lui lo vuotò d'un fiato. Non ripeté quelle parole, ma ci guardammo in un modo che mi colpì, nel modo in cui si guardano due adulti, come se lui sapesse che leggendo il suo libro sul diritto io mi ero introdotto nel suo mondo. Continuò a guardarmi fino a quando abbassai gli occhi. In realtà, avevo appena compiuto tredici anni. Due settimane prima ne avevo dodici. Al lavoro? dissi, per sfuggire al suo sguardo. Credevo sapesse dov'era, che avesse ottenuto l'informazione quando aveva telefonato. Sapevo che mia madre non era proprio andata a lavorare. Aveva risposto a una telefonata, poi mi aveva detto che andava in ufficio a prendere una pratica o due. Essendo una specialista in materia di iscrizioni tribali, probabilmente stava ponzando su qualche domanda che le avevano presentato. Era la direttrice di un dipartimento composto da un solo impiegato. Ed era domenica: ecco perché tutto taceva. La sospensione della domenica pomeriggio. Anche se poi fosse andata a trovare sua sorella Clemence, a quest'ora mia madre avrebbe dovuto essere tornata per preparare la cena. Questo lo sapevamo tutt'e due. Le donne non si rendono conto di quanto gli uomini fanno assegnamento sulla regolarità delle loro abitudini. Noi assorbiamo nei nostri corpi i loro andirivieni, nelle nostre ossa i loro ritmi. Il nostro polso è regolato sul loro, e come sempre in un pomeriggio festivo si attendeva che mia madre cominciasse a scandire i minuti che ci separavano dalla sera. E così, come potete capire, la sua assenza fermò il tempo. Che dovremmo fare? dicemmo all'unisono, e questo fu, di nuovo, piuttosto inquietante. Ma almeno mio padre, vedendo che ero un po' nervoso, prese l'iniziativa. Andiamo a trovarla, disse. E anche allora, mentre mi buttavo la giacca sulle spalle, fui felice che fosse così preciso: trovarla, non soltanto cercarla, non andare a chiedere qua e là. Saremmo usciti e l'avremmo trovata. Avrà bucato una gomma, dichiarò. Forse aveva accompagnato qualcuno a casa ed era rimasta a piedi. Queste maledette strade. Chiediamo la macchina a tuo zio e andiamo a trovarla. Trovarla, di nuovo. Camminavo al suo fianco, a lunghi passi. Era rapido e ancora vigoroso, quando entrava in azione. | << | < | > | >> |Pagina 40Non puoi capire se uno è un indiano da una serie di impronte digitali. Non puoi capirlo dal nome. Non puoi capirlo nemmeno da un rapporto della polizia locale. Non puoi capirlo da un ritratto. Da una foto segnaletica. Da un numero di telefono. Dal punto di vista del governo, l'unico modo in cui puoi capire se uno è un indiano è quando guardi la storia di quella persona. Ci devono essere degli antenati di antica data che hanno firmato dei documenti o sono stati riconosciuti come indiani dal governo degli Stati Uniti, qualcuno identificato come membro di una tribù. E poi, dopo questo controllo, devi guardare qual è la quantità di sangue di quella persona, quanto sangue indiano ha che appartiene a una tribù. Nella maggior parte dei casi, il governo dirà che quell'individuo è un indiano se il suo sangue è indiano per un quarto: e di solito deve venire da una sola tribù. Ma quella tribù dev'essere anche federalmente riconosciuta. In altri termini, essere un indiano è, per molti aspetti, un incubo burocratico.D'altro canto, gli indiani riconoscono altri come indiani senza alcun bisogno di un pedigree federale, e questa conoscenza, come l'amore, il sesso o l'avere o non avere un bambino, non ha niente a che fare col governo. Mi ci volle un altro giorno per scoprire che girava già la voce che ci fossero dei sospetti: in pratica, chiunque si comportasse stranamente o non fosse stato visto o fosse stato visto uscire dalla porta di servizio della sua casa con grossi sacchi neri di spazzatura. Lo scoprii andando dai miei zii a prendere una torta un sabato pomeriggio. Mia madre aveva detto a mio padre che forse avrebbe fatto bene ad alzarsi, fare il bagno, vestirsi. Prendeva ancora gli antidolorifici, ma il dottor Egge le aveva detto che stare a letto non sarebbe servito. Doveva, a poco a poco, riprendere la sua attività. Mio padre aveva annunciato che avrebbe cucinato lui la cena seguendo una ricetta. Però non poteva preparare il dessert. Di qui, la torta. Zio Whitey era a tavola con un bicchiere di tè ghiacciato. C'era anche Mooshum, ingobbito e fragile, dentro una maglia color avorio e con una vestaglia a quadretti sopra i mutandoni. Il sabato rifiutava di vestirsi perché aveva bisogno di un giorno di comodità, diceva, per prepararsi alla domenica, quando Clemence lo costringeva a indossare calzoni eleganti, una camicia bianca ben stirata e talvolta una cravatta. Aveva anche lui un bicchiere di tè ghiacciato, e lo stava guardando in cagnesco. Piscio di coniglio, brontolò. Giusto, papà, disse Clemence. È quello che ci vuole per un vecchio. Ti fa bene. Ah, tè palustre, disse zio Whitey, roteando il liquido nel bicchiere con aria da intenditore. Buono per tutti i tuoi acciacchi, papà. Cura la vecchiaia? disse Mooshum. Leva gli anni? Quasi, disse Whitey, il quale sapeva che avrebbe potuto farsi una birra appena fosse tornato a casa e avesse smesso di fingere di bere con Mooshum, che era triste pensando ai vecchi tempi in cui Clemence gli mesceva whiskey liscio. Si era convinta che gli faceva male e ora cercava sempre di farlo smettere. Questo fa fatica ad andar giù, figlia mia, disse Mooshum a Clemence. Però ti pulisce a fondo il fegato, disse Whitey. Ecco, Clemence, versa un po' di tè palustre a Joe. Clemence mi versò un bicchiere di tè ghiacciato e andò a rispondere al telefono. La chiamavano in continuazione per avere notizie, in realtà pettegolezzi, sulla sorella. Forse il pervertito è davvero un indiano, disse zio Whitey. Portava una valigia indiana. Che valigia indiana? dissi io. I sacchi di plastica della spazzatura. Mi sporsi in avanti. È vero che se n'è andato? Ma se è di qui, chi è? Come si chiama? Clemence tornò indietro e lo fulminò con un'occhiata. Ahí, disse zio Whitey. Credo che non dovrei aprire bocca. O anche bere un bicchierino di whiskey. O pisciare nel lavandino, come farò io finché la smetterà di versarmi tè palustre. I reni di un uomo traboccano, disse Mooshum. Pisci davvero nel lavandino? gli chiesi. Quando mi danno il tè, sempre. Clemence andò in cucina e ne tornò con una pila di tre bicchieri dal fondo pesante. Li dispose sul tavolo e ne riempì due per un quarto. Il terzo lo riempì fino a metà e lo buttò giù di colpo. Ero sbalordito. Non avevo mai visto mia zia bere whiskey come un uomo. Tenne il bicchiere vuoto delicatamente per un attimo, guardandoci, poi lo schiaffò sul tavolo con un piccolo tonfo e uscì. Cos'è questo? chiese zio Whitey. Questa era mia figlia quando si tira troppo la corda, disse Mooshum. Povero Edward, quando torna dal lavoro. Allora il whiskey avrà finito di fare effetto. A volte il whiskey calma anche Sonja, disse zio Whitey, ma io ho i miei trucchi. Che genere di trucchi? disse Mooshum. Vecchi trucchi indiani. Insegnali a Edward, eh? Sta perdendo colpi. La torta cominciava a impregnare l'aria di una fragranza dolce e ambrata. Sperai che mia zia non si fosse così arrabbiata da aver dimenticato la torta. Il campo di golf. È là che è successo? Fissai Whitey negli occhi, ma lui abbassò lo sguardo e bevve. No, non è successo là. Dov'è successo? Whitey alzò gli occhi, che erano tristi ed eternamente iniettati di sangue. Non voleva dirmelo. Non riuscii a sostenere il suo sguardo. Poi la presa di Mooshum, che sul bicchiere di tè era così tremante da farglielo spandere sul tavolo, diventò più ferma. Alzò il bicchiere e bevve un piccolo sorso. Gli brillavano gli occhi. Non aveva seguito il nostro scambio. Il suo cervello era sempre concentrato sulle donne. Ah, figliolo mio, racconta a Oops e me della tua bella moglie. Sonja la Rossa. Dipingi il suo ritratto. Cosa fa di bello? Whitey distolse gli occhi. Quando sorrideva si vedeva lo spazio che aveva tra i denti davanti. Sonja la Rossa era il nome della danzatrice esotica che mia zia era stata fino a non molto tempo prima. Allora portava una corazza barbara rivelatrice, fatta di pezzi di plastica coperti di borchie. Lacere sciarpe le fluttuavano intorno ai fianchi. Quei tessuti trasparenti sembravano essere stati masticati e strappati con le unghie da uomini o cuccioli di lupo disperati. Zack aveva trovato la fotografia in una pubblicazione di Minneapolis, e me ne aveva fatto dono. La tenevo in fondo all'armadio, in una cartella speciale che avevo fatto e che diceva COMPITI A CASA. In questi giorni Sonja sta alla cassa, disse allora mio zio, col whiskey che aggiungeva il suo piacevole calore, e non fa che addizionare cifre. Oggi sta calcolando esattamente cosa dobbiamo ordinare per la settimana prossima. Mooshum chiuse gli occhi, tenne il whiskey sotto la lingua e annuì, evocando Sonja china sui conti. Improvvisamente riuscii a vederla anch'io, con i seni sospesi come nuvole sopra la lunga colonna di ordinati numerini. E cosa farà, chiese Mooshum con aria sognante, quando avrà tirato le somme e calcolato le cifre per la giornata, quando avrà finito? Si alzerà dal banco e andrà fuori con un secchio d'acqua e il tergivetro col manico lungo. Lava la vetrina una volta la settimana. La mano di Mooshum smise di tormentare la dentiera lampeggiante e il suo flaccido sorriso si allargò. Io chiusi gli occhi e vidi il lato del tergivetro con la spugna rosa passare l'acqua saponata sulla vetrina. Sonja era in punta di piedi e si allungava più che poteva. Randall, il fratello maggiore di Cappy, diceva che le ragazze, quando si alzavano sulla punta dei piedi e allungavano le braccia, erano così belle che gli piaceva sedersi nella biblioteca della scuola a guardare lungo le file di scaffali. Il fratello di Cappy aveva messo tutti i libri migliori negli scaffali più alti. Mooshum sospirò. Io vedevo Sonja premere con forza la lama di gomma contro il vetro, tirando giù la polvere e le macchie insieme al liquido e lasciandovi una limpidezza sfavillante. Clemence rientrò, disperdendo i miei pensieri, e lo sportello del forno fece udire il suo cigolio. Poi ci fu lo scorrere della griglia mentre lei toglieva due torte dal forno. La sentii mettere le torte fuori a raffreddarsi. Lo sportello del forno mandò un suono metallico e la zanzariera della porta si aprì con un gemito e si chiuse con un colpo secco. Qualche istante dopo, dalla zanzariera entrò nella stanza l'aroma debole e tonificante di una sigaretta accesa. Non avevo mai saputo che mia zia fumasse, ma aveva cominciato all'ospedale. L'odore della sigaretta di Clemence, ora che si era messa a fumare, ebbe l'effetto di calmare le fantasie dei due uomini. Si voltarono verso di me, e il viso di zio Whitey era grave quando mi chiese come stava mia madre. Esce dalla sua camera stasera, gli dissi. Meglio che porti a casa quella torta. Papà sta cucinando. Mooshum mi guardò fisso, con una traccia di intensa luminosità negli occhi, e io capii che almeno gli avevano detto qualcosa dell'accaduto. Questo è un bene, disse. Ora stammi a sentire, Oops. Tua madre deve uscire. Non lasciare che stia chiusa in casa. Non lasciarla troppo sola. | << | < | > | >> |Pagina 120Per avvicinarsi al cimitero da dietro bisognava passare davanti alla casa di una vecchia signora che aveva dei cani. Non sapevi mai né quanti fossero né che cani fossero. Lei dava da mangiare ai cani randagi. Per questo la sua casa era imprevedibile e noi facevamo sempre una deviazione per evitarla. Avvicinandoci, ci preparammo. Cappy aveva il suo barattolo di pepe. Io impugnai un pesante bastone, pensando a come Pearl l'odiava, e perché. Angus strappò le foglie da qualche ramo di salice per fare una frusta. Studiammo insieme il piano dell'attacco e decidemmo che io sarei andato avanti col bastone e Cappy avrebbe chiuso la retroguardia col pepe. La donna si chiamava Bineshi ed era piccola e gobba come la sua traballante casetta di legno. Nel cortile dove oziavano i cani c'erano due automobili scassate. Pensavamo di farcela, se fossimo stati tanto veloci da produrci in un bello sprint. Ma appena svoltammo nella strada sterrata che costeggiava un lato della sua corte i cani uscirono a grandi balzi dalle macchine rottamate. Due erano grigi con le gambe corte, tre erano grossi, uno era enorme. Si avventarono su di noi abbaiando con feroce intensità. Un piccolo cane grigio si gettò su Angus e gli azzannò il risvolto dei calzoni. Angus abilmente gli mollò un calcio, gli diede una frustata sul muso e continuò a pedalare.Sentono la paura, urlò Cappy. Scoppiammo in una risata. Poi i cani si fecero più audaci, come accadeva spesso se uno faceva una mossa. Angus lanciò un urlo terribile. Un cane sporco, bianchiccio, si era avventato sul suo braccio, e lui lasciò cadere le fruste e gli assestò un pugno in pieno muso. Il cane filò via senza lasciarsi sfuggire un gemito, ma poi tornò all'attacco. Ancora una volta Angus lo respinse tirandogli un pugno, ma mentre il cane si torceva e ricadeva dopo il salto, la sua testa si abbassò sulla gamba di Angus e gli addentò i calzoni. Toglietemelo di dosso! Cappy voltò la bicicletta. Si alzò un polverone. Puntò i piedi per terra e frenò di fianco ad Angus col barattolo del pepe aperto, ne prese una manciata e la tirò in faccia al cane, che guaì e scomparve. Ma ora gli altri ci circondavano, chiedendo il nostro sangue, con le orecchie piegate all'indietro. Facevano scattare le mascelle e digrignavano i denti come squali. Non potevamo mollare le biciclette e correr via perché poi avremmo dovuto recuperarle. In ogni modo, i cani erano più veloci e ci avrebbero raggiunto prima che potessimo distaccarli. Goffamente, tenendoci vicini, smontammo e procedemmo con le biciclette a mano. Cappy cosparse di pepe un altro cane. Io ne presi a bastonate due. I cani pepati si ripresero e tornarono ad avventarsi su di noi, sbavando dalla voglia di vendicarsi. Formarono un cerchio e vennero avanti, con le gambe rigide. Cappy lasciò cadere il barattolo di pepe, che si rovesciò sulla strada. Ah, merda, disse. Ci ammazzano. Ci serve del fuoco, gridò Angus. Io diedi una bastonata a un cane, che reagì saltandomi addosso. A un tratto tutti i cani voltarono la testa e drizzarono le orecchie. Come un sol cane, si allontanarono a lunghi balzi. Sentimmo sbattere la porta della casetta. Dev'essere il momento in cui gli porta da mangiare, disse Cappy. Maaj! gridò Angus. Saltammo di nuovo in sella e volammo per il resto della strada, quasi senza accorgerci della salita. Poi scendemmo attraverso il bosco e ci passammo le biciclette sopra la rete metallica. Eravamo dentro il cimitero, al sicuro. Era quasi l'ora del crepuscolo. Tra i grossi pini sotto di noi si vedeva una luce spezzettata uscire dalle finestre della casa del prete. Procedemmo con le biciclette a mano lungo la discesa in quella direzione. La paura che avevo avuto di attraversare il cimitero fu eclissata dal sollievo. Tra i defunti senza cani mi sentivo al sicuro. Rallentammo il passo fino a quando fu quasi buio, indicandoci pietre tombali che erano punti di riferimento. Avevamo tutti degli avi in comune, sparsi qua e là. L'aria cominciava ad agitarsi e un picchio verde ripeteva il suo verso nell'ombra bluastra del bosco. È ora, disse Cappy quando arrivammo in fondo. Il cancello era tenuto insieme alla meglio da una catena col lucchetto. Lo allargammo e vi facemmo passare le biciclette. Con una certa trepidazione le portammo furtivamente in fondo al cortile della chiesa. L'erba era rasata, il prato freddo sotto la rugiada della sera. Sgattaiolammo da un lato del piccolo cottage, una semplice casa di tronchi rimodernata di un piano. Padre Travis vi abitava da solo. Ci accovacciammo dentro un cespuglio ispido. Dall'interno della casa veniva il fioco borbottio di un televisore. Strisciando intorno alla casa raggiungemmo la finestra dove il suono era più forte. Voglio guardare dentro, sussurrò Angus. Ti vedrà, dissi io. Ci sono le tendine. Angus alzò la testa. L'abbassò in fretta. E là seduto che guarda! Ti ha visto? Non so. Tornammo indietro fino al lato più nascosto della casa. Dentro rimbombarono dei passi, e un improvviso sprazzo di luce proruppe dalla finestra sopra le nostre teste. Ci fu una pausa. Dietro la tendina si profilò la silhouette del prete. Ci schiacciammo contro le scandole del rivestimento. Dietro di noi cominciò un sommesso zampillare. Cappy mosse le labbra senza emettere alcun suono: stava pisciando? Io mi strinsi nelle spalle: somigliava di più al rumore di uno che avesse stappato una bottiglia e stesse lasciando scorrere dolcemente un rivoletto d'acqua nel water. Ci volle molto tempo e ci furono delle pause. Poi si udì lo sciacquone, il rubinetto venne aperto e chiuso, la luce si spense, una porta si chiuse. È un piscione silenzioso, disse Cappy. Be', è un prete, disse Angus. Perché, pisciano in modo strano? Non fanno sesso, disse Angus. Se non lo usano regolarmente, forse l'impianto potrebbe arrugginirsi. Come se tu lo sapessi, disse Cappy. State qui, voi. Strisciai intorno alla casa fino alla luce bluastra della tv. Chiunque fosse entrato nel cortile o avesse camminato sotto i pini neri mi avrebbe visto. Mi raddrizzai e mi spinsi lentamente fino al davanzale della finestra. Era aperta alla brezza di giugno. Riuscii a scorgere la nuca di padre Travis. Sedeva in poltrona davanti al televisore e accanto al suo gomito c'era una birra di città, una Michelob. Dapprima non capii cosa stesse guardando, ma poi mi resi conto che era un film. Non un telefilm. Mi lasciai cadere sui talloni e tornai indietro, sempre strisciando. Ha un videoregistratore! Cosa sta guardando? Questa volta Cappy andò a vedere, e dopo qualche tempo tornò indietro e disse che era Alien, che era stato programmato a due ore di strada, a sud della riserva, e sul quale avevamo sentito solo storie da lasciare a bocca aperta perché non potevamo andare laggiù e per giunta eravamo troppo giovani per chiedere di entrare. Nella riserva non c'era ancora nessun videonoleggio. Sarà sua, dissi, dimenticando che la finestra era aperta. Una copia? Di sua proprietà? Silenzio, ragazzi, bisbigliò Cappy. Ha le zanzariere aperte. Angus appoggiò la schiena al muro di sostegno e si tirò le ginocchia sotto il mento. Ci stringemmo tutti insieme e abbassammo la voce. Hai potuto vedere bene? Ho potuto vederlo benissimo. Ha un trenta pollici. Fu così che finalmente vedemmo Alien: dalla finestra dietro il giovane prete che sospettavamo di un crimine inqualificabile. Padre Travis arrivò persino al punto di alzare il volume per farci sentire meglio tutto il film. Quando cominciarono a scorrere i titoli di coda, lui spense la tv e noi chinammo la testa e strisciammo intorno alla casa fino a quella che doveva essere la camera da letto. Eravamo ancora deliziosamente imbambolati. Angus si adagiò, si portò il pugno allo stomaco e lo alzò, e scalciò con le gambe. Nel bagno tornò ad accendersi la luce e si udì nuovamente il chioccolio. Poi il rumore dello spazzolino da denti e i gargarismi. Quindi la luce si accese nella camera da letto. Ci spostammo lungo il muro. Ci raddrizzammo lentamente. Le tendine e gli avvolgibili erano abbassati, ma c'era una fessura dove l'avvolgibile incontrava la finestra. Le tendine erano pannelli trasparenti. Si vedeva bene. Guardammo padre Travis mentre si toglieva la tonaca da stregone e l'appendeva. Aveva spalle larghe, dure e muscolose, e pettorali che sembravano di roccia. Paurose cicatrici gli scendevano serpeggiando tra le piastre divise dello stomaco. Si tolse le mutande e restò completamente nudo, poi si voltò. Tutte le cicatrici si incontravano in un formidabile groviglio attorno al pene e alle palle. Gli attributi c'erano, ma erano stati ovviamente ricuciti, come disse Angus in un secondo tempo, intimidito, raccontandolo a Zack. Tutto, là sotto, era tessuto cicatriziale, crespo, lucido, grigio, violaceo. Presi dal panico, ci demmo alla fuga. La luce si spense. Ci lanciammo verso le biciclette, ma padre Travis uscì dalla porta con incredibile rapidità e con un salto acciuffò Angus. Cappy e io continuammo a correre. Tornate qui, voi due, disse padre Travis con una voce piana che si sentiva perfettamente. O gli strappo la testa. Angus si lasciò sfuggire un gemito. Rallentammo e ci voltammo indietro. Lo teneva per la gola. Quello fa sul serio! Recita l'avemaria, disse il prete. Ave Maria, disse Angus con voce strozzata. Mentalmente, disse padre Travis. | << | < | > | >> |Pagina 137Sono nata d'inverno, attaccò, ma poi s'interruppe per finire il gelato. Com'ebbe allontanato la coppa, cominciò sul serio. Mio fratello è nato due minuti prima di me. L'infermiera lo aveva appena avvolto in una termocoperta di flanella blu quando la madre disse: Oddio, ce n'è un altro, e io scivolai fuori, mezza morta. Poi mi preparai a morire sul serio. Passai dal rosa pallido a un grigio spento, e a questo punto l'infermiera provò a mettermi in una culla riscaldata dalle lampade. L'infermiera fu fermata dal dottore, che indicò la mia testa raggrinzita, il braccio e la gamba. Passando davanti all'infermiera e a me, il dottore si rivolse alla madre, dicendole che il secondo bebè aveva una deformità congenita, e chiedendo se doveva ricorrere a mezzi straordinari per salvarlo. La risposta fu no. No, lasciatelo morire. Ma mentre il dottore voltava le spalle l'infermiera mi pulì la bocca con un dito, mi prese per i piedi e mi scosse, e mi avvolse strettamente in un'altra coperta, rosa. Tirai un respiro infuocato. Infermiera, disse il dottore.
Troppo tardi, rispose lei.
Mi lasciarono nella nursery con un poppatoio attaccato al viso mentre la contea decideva in che modo sarei stata trasferita in una qualche struttura temporanea. Ero ancora troppo piccola per essere ammessa in un istituto gestito dallo stato, mentre George Lark e sua moglie rifiutavano di tenermi a casa loro. La custode notturna dell'ospedale, una donna della riserva di nome Betty Wishkob, chiese il permesso di tenermi nei suoi momenti di pausa. Mentre mi cullava, con le spalle al finestrino della caposala, Betty – la mamma – mi allattava. Mentre mi allattava, mi plasmava e arrotondava la testa con la sua mano pesante. All'ospedale nessuno sapeva che di notte lei mi allattava, né che mi stava curando e aveva deciso di tenermi. Questo fu cinque decenni fa. Adesso ho cinquant'anni. Quando la mamma chiese se poteva portarmi a casa, tutti tirarono un respiro di sollievo e non ci fu bisogno di molte scartoffie, almeno all'inizio. Così mi salvarono e crebbi con i Wishkob. Continuai a vivere nella riserva e andai a scuola come facevano gli indiani: in principio alla missione e poi nell'istituto del governo. Ma in precedenza, quando avevo circa tre anni, mi portarono via per la prima volta. Ricordo ancora l'odore del disinfettante, e quella che io chiamo la disperazione bianca che provai, dove avvertivo una presenza, la presenza di qualcuno o qualcosa che soffriva con me e mi teneva la mano. Quella presenza è rimasta con me. La seconda volta che un assistente sociale decise di trovarmi un focolare più adatto avevo quattro anni. Ero ritta accanto alla mamma, aggrappata alla sua sottana: verde, di cotone. Nascondevo il viso nell'odore della stoffa riscaldata. Poi vidi che ero sul sedile posteriore dí una macchina che viaggiava silenziosamente in una direzione infinita. Quando mi svegliai, ero sola in un'altra stanza bianca. Il mio letto era stretto e le lenzuola strettamente rimboccate, tanto che dovetti lottare per uscire. Restai seduta sulla sponda del letto per quello che mi parve un tempo molto lungo, in attesa.
Quando sei piccolo, non sai che stai strillando o piangendo: i tuoi
sentimenti e il suono che ti esce dalla bocca sono
una cosa sola. Ricordo che aprivo la bocca, tutto qui, e che
non la chiudevo finché non ero tornata dalla mamma.
Ogni mattina, fino a quando ebbi dieci o undici anni, la mamma e mio papà, Albert, cercarono di arrotondarmi la testa e di massaggiarmi braccia e gambe. Mi facevano sollevare un sacchetto pieno di sabbia che la mamma aveva cucito e trasformato in un peso. Mi svegliavano per prima e mi portavano in cucina. La cucina economica era accesa e io bevevo un bicchiere di un latte acquoso e bluastro. Poi la mamma si sedeva su una sedia e mi prendeva sulle ginocchia. Mi strofinava la testa, me la stringeva tra le dita forti e la metteva in forma. Ogni tanto vedrai delle cose, mi disse una volta. La tua fontanella è rimasta aperta più a lungo che nella maggior parte dei bambini. E così che vi entrano gli spiriti. Il papà era seduto davanti a noi, su un'altra sedia, pronto a stiracchiarmi da capo a piedi. Allunga le gambe, Tuffy, diceva: era il mio nomignolo. Io gli mettevo i piedi in mano e lui mi tirava da una parte mentre la mamma mi teneva per le orecchie e tirava dall'altra. Mio fratello Cedric mi aveva chiamato Tuffy perché sapeva che quando fossi andata a scuola avrei ricevuto comunque un soprannome. Non voleva che il nomignolo alludesse al mio braccio offeso o alla testa. Ma la mia testa – così deforme quando sono nata che nella sua diagnosi il dottore mi aveva classificata tra gli idioti – è stata modificata dalle strizzate e dai massaggi di mia mamma. Quando fui abbastanza grande per guardarmi in uno specchio mi trovai bella. Né la mamma né il papà mi dissero mai che mi sbagliavo. Fu Sheryl a darmi la notizia, dicendo: Sei così brutta che sei quasi carina. Alla prima occasione mi guardai nello specchio e notai che Sheryl stava dicendo la verità. Nella casa in cui abitavamo c'è ancora un debole aroma di legno marcio, cipolle, folaghe fritte in padella, e un odore salmastro di bambini non lavati. La mamma cercava sempre di tenerci puliti e il papà ci faceva sporcare. Ci portava nei boschi e ci mostrava come scoprire le orme di un coniglio e mettere una trappola. Strappava i cani della prateria dalle loro tane accalappiandoli con una funicella e raccoglieva un secchiello di bacche dopo l'altro. Cavalcavamo un pony testardo e cattivo, pescavamo persici in un lago vicino, ogni anno dissotterravamo le patate per racimolare i soldi della scuola. Il lavoro della mamma non era durato. Il papà vendeva legna da ardere, mais, succhi di frutta. Ma non abbiamo mai fatto la fame, e a casa nostra ci si voleva bene. Io sapevo di essere amata perché per í miei genitori era stato complicato strapparmi al servizio di assistenza sociale, anche se avevo contribuito ai loro sforzi con i miei strilli senza fine. Il che non significa che fossero perfetti. Il papà beveva e di tanto in tanto perdeva i sensi sul pavimento. L'ira della mamma era esplosiva. Non ci picchiava mai, ma urlava e inveiva. Peggio, era capace di dire cose terribili. Un giorno Sheryl stava piroettando qua e là. In un angolo c'era un cantonale. Sosteneva un vaso di vetro intagliato che per la mamma era molto prezioso. Quando le portavamo dei mazzi di fiori di campo, li metteva in quel vaso. L'avevo vista lavare il vaso col sapone e lustrarlo con una vecchia federa. Allora un braccio di Sheryl urtò il vaso, che cadde sul pavimento con un suono argentino e andò in mille pezzi. La mamma era davanti ai fornelli. Si voltò e alzò le braccia al cielo. Maledizione, Sheryl, disse. Era l'unica cosa bella che avevo. L'ha rotto Tuffy! disse Sheryl, e si lanciò fuori dalla porta. La mamma cominciò a piangere, disperatamente, coprendosi il viso e la guancia con un braccio. Io mi mossi per raccogliere i cocci, ma lei mi disse di lasciarli stare, con una voce così affranta che andai a cercare Sheryl, che si era nascosta nel suo solito posto in fondo al pollaio. Quando le chiesi perché aveva dato la colpa a me, Sheryl mi scoccò un'occhiata carica di odio e disse: perché tu sei bianca. Non rinfacciai mai a Sheryl ciò che fece allora, e più tardi diventammo amiche. Ne fui molto felice, perché non mi sono mai sposata e avevo bisogno di confidarmi con qualcuno quando, cinque anni fa, sono stata contattata dalla mia vera madre. | << | < | > | >> |Pagina 153Anche se spesso lo si trovava nel suo angolo della casa, seduto su una delle sedie gialle scrostate della cucina, a guardare la strada, non era questo il modo in cui Mooshum passava la giornata, ma solo una pausa che si concedeva per far riposare i propri arti vecchi e fibrosi. Mooshum si stancava svolgendo alacremente una serie infinita di attività abituali che cambiavano con le stagioni. In autunno, naturalmente, c'erano le foglie da rastrellare. Venivano da tutte le parti a posarsi sul fazzoletto d'erba rada di Mooshum. A volte le toglieva addirittura con le dita e le gettava in un barile. Si divertiva un mondo a bruciarle. Dopo le foglie, e prima che cadesse la neve, c'era una breve interruzione. In quella tregua Mooshum mangiava come un orso. La pancia gli si arrotondava e gli si gonfiavano le guance. Stava preparandosi alle grandi nevicate. Possedeva due pale. Una larga, blu, di plastica, rettangolare, che usava per la neve farinosa, e un cucchiaione d'argento dall'orlo tagliente per la neve che si era pressata o che aveva formato dei banchi. Aveva anche un attrezzo per rompere il ghiaccio, una specie di zappa con la lama che invece di formare un angolo era dritta. Questa l'affilava con una lima finché era così tagliente da poterti amputare comodamente un dito del piede. Per tutto il mese di ottobre l'armamentario di Mooshum si teneva pronto nel corridoio in fondo alla casa. Quando cadeva la prima neve, mio nonno si metteva le galosce. Clemence gli aveva incollato alle suole dei pezzi di cartavetrata della grana più grossa. Ogni due giorni o giù di lì cambiava la carta e metteva gli stivali ad asciugare sul radiatore. Le galosce di Mooshum venivano indossate sopra i mocassini di pelo di coniglio e i calzettoni isolanti. Lui si infilava dei calzoni da lavoro foderati di flanella rossa e una giacca a vento arancione, gonfia e fluorescente, che Clemence gli aveva regalato per poterlo ritrovare se si fosse perso nella neve. Due muffole in pelle d'alce foderate di pelo di coniglio e un berretto a cono blu elettrico con un pompon di un rosso strepitoso completavano il suo abbigliamento. Usciva tutti i giorni in questa tenuta sgargiante e lavorava con una ferocia esponenziale. Era come una formica, sembrava quasi che non si muovesse. Invece apriva corridoi fino ai bidoni della spazzatura, spalava la neve non soltanto dai marciapiedi intorno alla casa ma dall'intero vialetto e dai gradini della veranda. La raschiava dal cemento e dalla terra battuta senza mai permetterle di accumularsi. Quando non era caduta neve fresca, e c'era solo il riverbero del ghiaccio, lo assaliva per tagliarlo menando i suoi fendenti con l'arnese più letale. Nel periodo in cui tutto si scioglieva, ma la terra non poteva essere ancora preparata per l'orto, riprendeva a mangiare in continuazione, rimettendo sulle ossa la carne che aveva perduto durante la sua guerra all'inverno. Primavera ed estate implicavano erbacce che crescevano con maligna alacrità, animali che rubacchiavano, insetti, vicissitudini del tempo. Mooshum usava il tosaerba nel modo in cui la maggior parte dei suoi coetanei avrebbe usato un deambulatore, mentre incidentalmente radeva il prato a zero. Coltivava un grande orto con zelo invisibile, sradicando la gramigna, l'amaranto comune, e portando secchi d'acqua per piantare le zucchine, sempre senza dare neanche l'impressione di muoversi. Del giardino poco si curava, ma Clemence aveva un'aiuola di lamponi inselvatichiti che si erano mescolati con una macchia di arbusti di pero corvino. Quando le bacche cominciavano a maturare, Mooshum si alzava all'alba per proteggerle. Spaventapasseri vivente, si piazzava sulla sua sedia gialla a bere il tè mattutino. Per spaventare gli uccelli aveva anche teso una corda da bucato piena di coperchi di lattine. Aveva forato i coperchi con un chiodo e il martello e li aveva annodati abbastanza vicini in modo che la brezza li facesse tintinnare. Tirava queste corde risonanti in tutto l'orto, e io stavo sempre molto attento a notare dove le metteva perché gli orli dei coperchi erano taglienti e un ragazzo che avesse girato in bicicletta nella corte senza badare a dove andava avrebbe potuto tagliarsi la gola. Con questo attivismo incessante e in apparenza donchisciottesco, Mooshum si teneva in vita. Quando superò i novant'anni gli tolsero le cataratte dagli occhi e gli riadattarono la dentiera sulle gengive raggrinzite. L'udito era ancora buono. Ci sentiva così bene da essere infastidito dal periodico ronzio della macchina da cucire di Clemence in fondo al corridoio e dall'abitudine che aveva zio Edward di mugolare delle nenie mentre correggeva i compiti. Una mattina, nel grande caldo di giugno, mi recai a casa loro in bicicletta. Mooshum mi sentì mentre ero ancora sulla superstrada, ma allora avevo attaccato con una molletta una carta da gioco a un raggio. Mi piaceva il suo allegro ticchettio, e oltretutto l'asso di quadri portava fortuna. Avrebbe potuto sentirmi chiunque, ma in quel momento nessuno sarebbe stato così felice di vedermi come Mooshum. Perché si era impigliato in un grosso pezzo di rete per gli uccelli che aveva tentato di gettare sopra le bacche del pallon di neve, anche se erano ancora ben lontane dall'essere mature. Appoggiai la bicicletta al muro e lo liberai. Poi ripiegai la rete. Gli chiesi dov'era mia zia e perché lo avevano lasciato solo, ma lui mi fece segno di tacere e disse che Clemence era in casa. Non vuole che io usi la rete. Gli uccelli si impigliano e muoiono, o perdono le zampe.
In effetti dalle pieghe della rete, in quel momento, tolsi
una zampina d'uccello, col piccolo artiglio ancora stretto intorno a un filo di
plastica. Lo aprii con cura e lo mostrai a
Mooshum, che lo guardò aggiustandosi ripetutamente la
dentiera.
|