Autore Claudio Ernè
Titolo Basaglia a Trieste
SottotitoloCronaca del cambiamento
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008 , pag. 120, ill., cop.fle., dim. 24x20x1 cm , Isbn 978-88-6222-022-4
LettoreFlo Bertelli, 2008
Classe psichiatria , fotografia , citta': Trieste












 

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Indice


  4 QUASI PRIMA CHE ACCADA  Peppe Dell'Acqua

  7 TRENT'ANNI FA LA LEGGE 180  Claudio Ernè


  9 ANNO ZERO, ARRIVA BASAGLIA

 31 COMINCIA LA RIFORMA

 53 MARCO CAVALLO

 75 VOLA L'UTOPIA

 83 CONFRONTO E MACERIE

 95 MUSICA, RÉSEAU, DISTRUZIONE


117 TRA DUE IMMAGINI ESTREME  Franco Rotelli


 

 

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PEPPE DELL'ACQUA

QUASI PRIMA CHE ACCADA


Quando, nel 1839, il primo scatto fotografico riesce finalmente a riprodurre su una lastra la realtà così com'è, la nascente psichiatria che ha postulato il danno al cervello come causa della malattia mentale è alla ricerca di una dimostrazione oggettiva e incontestabiie delle sue ipotesi.

I segni della malattia che il sapere medico sta disegnando con crescente sicurezza devono essere oggettivabili. La fotografia si offre così a sostenere la psichiatria che vuole rappresentare la follia. Diventa la prova inequivocabile della malattia ed entra nei classici manuali di Clinica Psichiatrica.

Sono patetiche e tragiche le foto dei malati costretti in posa a mostrare sul loro volto i segni della malinconia, dell'allucinazione, della mania, delle passioni alterate, dell'idiozia, del furore. Il gesto, l'espressione, lo sguardo del folle fermato nella lastra testimonia con indiscutibile rigore la malattia. La classificazione delle malattie, sembra avere ormai fondamenti più che evidenti. Alla catalogazione segue la riduzione di ogni passione, emozione, sentimento a malattia e da qui la sottrazione, la separazione, il sequestro. La ragione scientifica impone l'internamento.

Quando la foto segnaletica comincia a servire le autorità di polizia, anche la psichiatria arricchisce di questo strumento il suo agire istituzionale. La foto segnaletica diventa corredo della cartella clinica: gli internati in posa di profilo e di prospetto con il numero di matricola sulla divisa. Sfogliando oggi le vecchie cartelle si scoprono le persone ferme nella loro sofferenza, si coglie la profonda tragicità del momento in cui stanno per diventare irreversibilmente oggetto, stanno per perdere per sempre la loro appartenenza. Vengono i brividi a figurarsi la tranquilla competenza dell'infermiere fotografo intento a ritrarre il momento di quel tragico cambiamento, quasi un attimo prima che accada.

La psichiatria medica, clinica, istituzionale, la psichiatria dell'ordine trionfa. Come una sorta di pandemia, il manicomio si diffonde in tutti i Paesi civili e, con essi, nelle colonie d'oltre mare. I manicomi dell'Impero, di Vienna, di Budapest, di Praga e, non ultimo, di Trieste sono esemplari nel testimoniare la grandiosità di quella straordinaria utopia. È il definitivo dominio della ragione sulla follia. La fotografia è strumento e veicolo di questa grandiosità, del manicomio paterno e rassicurante. Costruisce e diffonde un'immagine di ordine, di pulizia, di gerarchie. Le prospettive ordinate dei padiglioni, i giardini ben curati, le foto di gruppo, gli internati serenamente dediti al lavoro restituiscono l'immagine del paese ordinato. Letteralmente un altro mondo.

Immagini trionfalistiche e celebrative si rincorrono per più di un secolo. Le riviste scientifiche, gli archivi, le biblioteche dei manicomi offrono un campionario ricco e puntuale della vita e dell'organizzazione: gli uomini impegnati a falciare l'erba, a trasportare masserizie, a spalare la neve sotto lo sguardo attento del sorvegliante. Le donne intente a ricamare, a piegare lenzuola, a pulire verdure, a rifare letti. Sempre un'infermiera sorridente e bonaria, in divisa con la cuffia e il grembiule inamidato osserva e controlla. Le sale da pranzo ordinate con gli internati con la divisa in ordine, in posa per l'occasione. I cameroni dormitorio vuoti con l'infinita teoria dei letti ben rifatti. Le stanze per le terapie più avanzate e rischiose, con le infermiere amorevoli pronte ad accogliere i malati che saranno sottoposti a quei trattamenti: lo shock insulinico, lo shock cardiazolico, lo shock elettrico.

Mai un'immagine che restituisca la bolgia, la confusione, la sporcizia, la miseria dei grandi cameroni. Le oscene nudità, le grida, i pianti, le risate sguaiate e disperate, i segni delle quotidiane sopraffazioni. Solo le foto dei manuali, riservati agli specialisti, mostrano le qualità, le caratteristiche e le istruzioni per l'uso dei camerini d'isolamento, dei letti di contenzione, delle fasce, dei corpetti, delle camicie di forza. E denunciano quasi per caso la violenza di quei luoghi.

Soltanto negli anni '50 si registra qualche timida incrinatura in questa piatta narrazione fotografica. La vastità sconvolgente della guerra appena conclusa ha attraversato anche le grandi istituzioni. Uno sguardo sociologico sembra entrare nei manicomi e alludere a uno svelamento possibile. La fotografia comincia a narrare, ad animare corpi, a restituire volti, a tentare di rintracciare appartenenze.

Ma bisogna aspettare la grande stagione degli anni '60 per cogliere la forza dirompente della svolta che sta per accadere. L'Italia sembra essere il luogo dove il cambiamento veramente accade.

Ne è testimonianza il lavoro di Luciano D'Alessandro, nel manicomio di Mater Domini a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Chiamato da Sergio Piro, per la prima volta porta fuori dalle mura le immagini degli internati: poveri corpi, volti devastati, sguardi che restituiscono solitudini infinite e distanza ormai insondabili.

Di lì a poco, Berengo Gardin e Carla Cerati producono il primo reportage completo sulla condizione degli internati. Morire di classe, il libro che pubblicano per Einaudi con la prefazione di Franco Basaglia e Franca Onagro, risveglia le coscienze. Le parole di Se questo è un uomo di Primo Levi stampate sulla copertina introducono il testo e le foto. La parola lager, ad aggettivare i manicomi di allora, ricorre con frequenza. Un mondo dimenticato, rimosso, separato appare nella sua tragicità. Non è la Città del Sole quella che si disegna nelle splendide tonalità del bianco e nero. È il luogo dell'abbandono, della rimozione. Il luogo dove dimenticare i fratelli scomodi, I Giardini di Abele come dirà Sergio Zavoli nel suo insuperato reportage da Gorizia. Il film di Agosti, Bellocchio, Petraglia e Rulli Nessuno o tutti. Matti da slegare segnala dal manicomio di Colorno, dove aveva lavorato Franco Basaglia, l'urgenza del cambiamento che preme.

Claudio Ernè ha la fortuna di trovarsi a Trieste quando tutto comincia. E di vivere la sua giovinezza di fotografo proprio nella scia di quei maestri che faranno grande la fotografia di denuncia e di impegno civile. Ha la fortuna di essere testimone del cambiamento quasi prima che accada.

A San Giovanni sta lavorando Ugo Guarino che con le sue strisce, i poster, i collettivi Arcobaleno e col suo sguardo sorpreso e i segni graffianti, scanzonati e crudeli denuncia la malvagia stupidità dell'istituzione. Intanto il grande cavallo azzurro di Vittorio Basaglia e di Giuliano Scabia ha stupito la città con l'impossibile uscita del corteo dei matti che anticipa la fine vicina e impensata del manicomio.

Claudio comincia a frequentare San Giovanni come tanti ragazzi ventenni di allora. Curiosità, voglia di cambiare, di partecipare, di immaginare un altro modo di stare insieme, di costruire un altro destino. Le porte aperte, le prime impensabili assemblee, gli "scandalosi" reparti misti, le uscite. Sguardi stupiti, meravigliati e gioiosi, mani che si cercano, corpi che muovono alla riconquista dello spazio fino ad allora negato. Attese e speranze restituiscono il tempo e la vita agli internati. "L'ospedale psichiatrico di San Giovanni è aperto in entrata ed in uscita" scriveva allora sui muri un anziano internato, quando Franco Basaglia aveva appena cominciato il suo lavoro a Trieste e l'Ospedale Psichiatrico di San Giovanni si era trasformato in un grande cantiere.

Tutto quello che accadrà negli anni successivi accadde in quegli anni: dalla prima cooperativa, ai gruppi di convivenza, al lavoro esterno che allude ai centri di salute mentale che di lì a poco verranno. I reparti fino a quel momento organizzati per gradi e definizioni di comportamenti, vennero rimescolati. I tranquilli, gli agitati, i violenti, gli infermi, i sudici si aggregano per territorio di provenienza. È il segno che hanno un'appartenenza. Gli operatori cominciano ad esplorare con gli internati la città, cercando legami dimenticati, relitti di storie, brandelli di relazioni. Si disse allora che gli operatori uscivano e attraversavano la città "portando il matto sulle spalle". L'urgenza di vedere allontanarsi il manicomio e di rompere irreversibilmente con quella "storia" attraversa ogni azione, ogni gesto. E trova i benpensanti, le lobby psichiatriche, la Curia, il Tribunale, il quotidiano della città avversari perseveranti e ostinati.

Il lavoro di Claudio è di questo indispensabile e appassionata testimonianza.

Maggio 2005/Gennaio 2007

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CLAUDIO ERNÈ

TRENT'ANNI FA LA LEGGE 180


Trent'anni fa, il 13 maggio 1978, veniva approvata la legge 180 che ha messo fine all'esistenza crudele e inutile dei manicomi in Italia e ha proposto un modello a tutto il mondo civile. Da quella data gli ospedali psichiatrici dovevano essere chiusi al più presto e nessuno avrebbe più potuto costruirne di nuovi. Per arrivare a questa conquista di civiltà e umanità sono stati necessari molti anni di battaglie politiche. Trieste e Gorizia ne sono stati i principali punti di riferimento e si sono trovate, coi rispettivi manicomi, in prima linea, sotto la luce dei riflettori di chi voleva ridare dignità e parola ai matti, ma anche di coloro che hanno tentato in tutti i modi e con tutte le manovre di bloccarne la liberazione. Franco Basaglia è stato il grande regista, la bandiera riconosciuta di questa "fabbrica del cambiamento" ma sulla scena di quegli anni si sono alternati attori e comprimari, volontari, giovani, uomini di cultura, militanti politici, artisti, amministratori pubblici, medici. Un coro che ha lavorato con la determinazione dei giusti, senza la necessità di ordini, seguendo le ragioni del cuore, dell'umanità, della solidarietà. Molto resta però da fare: altri muri, altre reti e barriere sono state erette in questi anni e hanno creato altre separazioni, altre apartheid sociali, culturali, razziali. Entare in questi nuovi luoghi di segregazione non è facile, come non era facile visitare negli Anni Cinquanta e Sessanta gli stessi ospedali psichiatrici. In questo sono stato un "privilegiato". Fin da quando ero un bambino. Ecco la cronaca del mio approccio con l'ospedale psichiatrico di Trieste, la prima di tante "visite" alla collina di San Giovanni, dove oggi il manicomio non esiste più, se non nella memoria e in piccoli segni. Avevo sei anni e mio padre mi teneva per mano mentre salivamo la collina di San Giovanni. Era il 6 gennaio 1953, il giorno della Befana. Camminavamo sul lato destro del viale, con pesanti cappotti addosso. Era la prima volta che entravo in quel grande parco e i miei genitori mi avevano raccontato, prima di uscire di casa, che lì vivevano i matti. "Non avere paura" mi avevano rassicurato. "Sono chiusi, non possono scappare". Sapevo vagamente cosa voleva dire matto. Per me era una parola che si associava a discorsi sentiti in famiglia. Il fratello di una zia viveva chiuso lì, e quando ogni tanto usciva, lo riportavano presto dentro perché lui beveva molto vino e poi, nel mezzo delle vie del centro città di Trieste, si metteva a dirigere il traffico e si toglieva la camicia. Inseguiva i tram, correndo e urlando. Chiedeva soldi ai passanti, spesso con insistenza. Si chiamava Enrico e aveva fatto il pittore, non era sposato e la nonna, quando qualcuno ne taceva il nome, piangeva sempre. Gli altri di lui parlavano poco e malvolentieri: quando si accorgevano che stavo ascoltando cambiavano discorso.

Camminavo sul lato destro del viale in salita il 6 gennaio 1953. Mamma era rimasta un po' indietro e papà, geometra della Provincia che lì nel manicomio lavorava al restauro e alla manutenzione dei padiglioni, ogni tanto si fermava, girava il capo, e aspettava. In una di quelle soste ho guardato verso gli edifici che sorgevano sui due lati del viale. Costruzioni basse, quasi dei villini. Ho sentito un brusio nel grande silenzio e ho visto tanti occhi dietro la finestra che mi guardavano.

"È il padiglione degli agitati" disse mio padre. E mi tirò via stringendo la mia piccola mano. Guardavo e camminavo. "Chi sono papà?" Non ricordo la risposta. C'erano altre famiglie con bambini più grandi e più piccoli di me che salivano per lo stesso viale. Andavamo tutti verso il teatro del manicomio dove delle donne severe ci avrebbero consegnato alla fine del pomeriggio un pacco pieno di mandarini, fichi secchi, datteri e un piccolo dolce con zibibbo e canditi, una specie di panettone in casseruola. Nello stesso teatro di lì a poco sarebbe stata messa in scena una sacra rappresentazione: angeli e santi, con lunghi abiti turchini e bianchi. Gli attori erano dei matti. "Scelti tra i più tranquilli" avrebbe spiegato papà. Ai matti le severe signore non avrebbero consegnato né mandarini, né panettoni in casseruola. Li avevano allontanati appena spente le luci del palcoscenico. Via dal teatro, festa finita. È stato questo il mio primo approccio col manicomio, con gli occhi degli "internati" che mi guardavano salire la collina attraverso il vetro delle finestre; con gli uomini vestiti da santi e da angeli e mandati sul palcoscenico. Con le guardie in divisa che sorvegliavano gli ingressi e chiudevano i portoni di ferro dietro alle spalle di chi entrava o usciva. Festa dell'Epifania, 6 gennaio 1953. Quel giorno ho visto per la prima volta il manicomio. Poi tutto questo sarebbe stata routine fino all'arrivo di Franco Basaglia e di chi con lui voleva distruggere questa infamia "normale".

Passano davanti agli occhi i fotogrammi del "cambiamento". C'è Giampiero a cui piacevano le ragazze e amava le scarpe da ballerina, sottili come guanti. C'è Ugo Guarino con i suoi sette testimoni: tavole, cassetti, porte, infissi, sono diventati volti, occhi, braccia, gambe, mani di grandi statue costruite usando vecchi mobili e infissi dei reparti ormai chiusi. C'è Brunetta, lobotomizzata perché disturbava, era troppo vivace, dava scandalo. C'è Ljubo col suo motorino, c'è Rosina che suona l'armonica. Ci sono i volti di tanti rimasti senza nome che hanno scritto coi loro corpi, con le cicatrici delle loro sofferenze, questa storia.

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FRANCO ROTELLI

TRA DUE IMMAGINI ESTREME


Tra due immagini estreme si snoda una vicenda eccezionale che non ha ancora trovato il suo racconto. Quel che è accaduto tra il 1970 e il 1980 a Trieste ha poi travolto centinaia di analoghi luoghi in Italia e nel mondo. Fino agli anni '60 la prima foto, pubblicata alla pagina seguente, resta plausibile, nell'ordine e nella disciplina dei ruoli e dei poteri: l'istituzione.

A mettere in ordine la follia, il physique du ròle del direttore e i solidi corpi contadini delle infermiere inamidate, a racchiudere miserie e disordine dentro le mura e il verde dell'ospedale. Le immagni degli internati non ci furono mai, se non quelle segnaletiche per scopo d'archivio. Venne poi un libro alla fine degli anni '60 (L'istituzione negata) e queste immagini diventarono denuncia, del degrado, della violenza, del sopruso, dell'inaccettabile. Ed erano 100 mila gli internati solo in Italia.

E poi, nell'altra foto, un altro direttore vola sulla città con gli ex internati. Egli se ne andrà non molto tempo dopo, quando per legge accadde ciò che invocava: "Chiudere per sempre quei luoghi e spargervi sale". Loro, gli ex internati, ti mettevano in gioco, ti obbligavano a rompere il povero stereotipo della maschera delle relazioni finte.

Come accade una cosa simile? Perché? E come fu? Fu che fummo indotti a non essere cinici. Non accadde mai più dopo di allora. Fu che ci fu data la possibilità di non esserlo. Fu che nell'unità di un luogo e di un tempo condiviso non ci fu che scambiare le nostre storie. Non c'era altro da fare che farlo. Fu la porta aperta a far tutto. Il resto venne. I pericolosi a sé e agli altri e di pubblico scandalo costituirono ancora scandalo mano a mano che si svelava il loro essere inermi oltre il lecito (e poi via via si disperserso nella città) e l'unico scandalo restò poi il ricordo di quegli anni (in cui "successe di tutto") e di quelli prima (in cui "succedevano davvero le cose in quel modo?").

Via via le fotografie ricostruiscono il fragile tessuto della normalità ritrovata attraverso eventi ed energie che rovesciano il passato e i corpi riassumono fisionomie e tratti non più catalogabili, non più riducibili a maschere, stereotipi, alienità. Riabilitazione collettiva che fu l'atto con il quale per la prima volta nella nostra storia civile ogni cittadino, nessuno escluso, poté essere riconosciuto legalmente e "banalmente" cittadino. Non era così (per i matti) per sanzione giuridica, per esclusione ideologica, per istituzionale definizione, per annullato diritto. Da allora a nessuno poté più essere negato questo statuto: di cittadino. Si intuisce da queste immagini la ricchezza della storia di quegli anni. Forse è tempo di ricostruirla per intero. Di raccontarla per esteso. Di raccogliere le migliaia di altre immagini, di fotografi che ci accompagnarono, e parte delle parole allora spese.

Anni dopo fu possibile vedere immagini simili in molti altri luoghi. Altrove invece si attese la lunga morte dei manicomi, senza mai cambiare, senza aprire conflitti. Altrove ancora molti subirono senza capire, altri capirono e non vollero il rischio: pilotarono il non-cambiamento. Ma la forza irresistibile di una dimostrazione concreta agì comunque come una lunga ondata che produce tuttora effetti e solo temporaneamente eludibili confronti. Quante istituzioni forse meno totali ancora rinchiudono in modo insopportabile e negano relazioni e progetti, possibilità e dignità, producendo solo ordine e controllo dietro la prosopopea dei camici e l'impettita e inamidata formalità del potere? Si disse poi della morte delle illusioni del '68. Negli anni qui documentati si giocò invece una delle lunghe partite vinte quando accade "di fare e di non subire".

Anni drammatici, comici, turbolenti, gioiosi come quando accade che le parole riescano a trasfomare le cose, le idee trasfomare la realtà e la realtà le idee. La meglio gioventù? Certamente ci consentimmo di gioventù una ben lunga stagione sul crinale tra normalità e follia, tra oppressione e libertà, sulla collina di San Giovanni, in Trieste, vicino al confine.

Laboratorio contro "esclusione sociale", allora termine solo lì usato, oggi nell'agenda di tutti i governi. Lunga marcia attraverso le istituzioni. Il presidente del Brasile, Luis Ignazio Lula da Silva, ci dice: "Ci avete insegnato il coraggio di pensare una società senza manicomi". Onda lunga che scrolla brefotrofi, istituti minorili, scuole speciali. Quanto c'è ancora da scrollarsi di dosso, nella sanità, nel "sociale", negli istituti di pena, nelle "case di riposo", nel manicomio del mondo? Quanto occorre ricominciare da questa scuola di libertà, di ricchezza della democrazia, della negoziazione continua tra le diversità estreme: profezia e laboratorio di un futuro non eludibile? Ci cembrò che la contraddizione tra una "società più giusta" e una "società più libera" potesse essere sanabile. Non ci rendevamo conto che questo era in qualche modo possibile solo attraverso un costo personale che noi e loro eravamo disposti a pagare ma non il mondo intorno a noi. Ma la contraddizione resta aperta a un futuro che dovrà affrontarla di nuovo. E di nuovo ancora.

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