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| << | < | > | >> |IndiceNota introduttiva 9 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Più in particolare, all'interno del campo antropologico, la fotografia attiene essenzialmente alla pratica etnografica e, dunque, nessun ripensamento radicale di quest'ultima è possibile senza un'anamnesi della sguardo, della cultura visiva, delle pratiche di ripresa, delle immagini (di quanto cioè presiede a una stabile memorizzazione dei dati e delle interpretazioni, del sapere nel suo complesso).Per quanto attiene alla seconda proposizione, il dominio delle immagini, e delle immagini legate all'alterità per quel che più da vicino ci riguarda, ha costituito preoccupazione costante non soltanto dei sistemi nazionali, astrattamente intesi, quanto, al loro interno, del senso comune, delle istituzioni delegate al controllo sociale, degli ambienti scientifici, in particolare di quello antropologico. La creazione delle immagini etnografiche, in questa prospettiva, è stata delegata alle discipline antropologiche (e a quanto ruotava nei loro immediati dintorni), con una procura ampia, ma costantemente sottoposta a minaccia di remissione. La manipolazione e il controllo di queste immagini, infatti, sono stati avocati dalle agenzie del potere che ne hanno fatto uso essenzialmente al fine di costruire stereotipi e pregiudizi, di rafforzare il dominio e di consolidare la condizione di dipendenza (interna e coloniale). Quando le immagini dell'alterità non sono state del tutto funzionali alla logica politica dei sistemi, esse sono state occultate e i loro creatori sono stati delegittimati e rimossi. Dunque, e riassuntivamente, intorno allo sguardo e ai suoi prodotti, intorno all'immagine fotografica, si è giocata la vitale partita della produzione del senso e della memoria che, sia nel più ristretto contesto scientifico, sia nel più vasto teatro mondano, la nostra società ha elaborato. Cercare di illustrare, allora, i processi di costruzione delle immagini dell'altro, con particolare riferimento, per quanto mi concerne, ai contadini dell'Italia meridionale; di comprendere i nessi che legano l'elaborazione scientifica e le pratiche di rappresentazione; di leggere i contesti intellettuali che sono a monte della produzione visiva; di registrare le specificità linguistiche delle immagini etnografiche e i legami esistenti tra diversi media nell'ambito di un medesimo processo di rappresentazione; di individuare il procedimento mnestico che presiede alla creazione; di osservare da vicino il laboratorio delle immagini etnografiche e i suoi frequentatori; di esplorare quel particolare processo di collisione tra realtà e rappresentazione che genera la visione stereotipa delle cose, significa contribuire in modo rilevante alla decifrazione, critica e storica, del campo intellettuale dell'antropologia contemporanea, quale si organizza ed esprime concretamente nel nostro Paese. Nella prospettiva sopra ricordata la mia attenzione si sofferma in questo libro sugli ultimi quaranta, cinquanta anni del secolo scorso. Un periodo, lo si osserverà scorrendo i testi raccolti, per molta parte segnato, direttamente o indirettamente, da una marcata impronta realista, e segnatamente neorealista, su cui è opportuno, in via preliminare, spendere qualche parola. Lavorando, in particolare, intorno a Ernesto Treccani, Arturo Zavattini, Annabella Rossi ho dovuto reiteratamente affrontare, com'era inevitabile, il problema del neorealismo; in posizione diversa l'uno dall'altro, e nei confronti del movimento artistico-letterario del Dopoguerra, infatti, tutti e tre questi autori, partendo dai loro rispettivi ambiti espressivi, vi hanno dovuto fare i conti. Comprendere meglio la natura del neorealismo, dunque, appare indispensabile. Su di un piano generale, del resto, che l'analisi critica della prospettiva realista sia fondamentale per rimettere in discussione le teorie e le pratiche dell'antropologia è assunto, da per lo meno un trentennio, acquisito. La storiografia tuttavia, per quel che concerne i recenti lavori relativi alla fotografia, appare del tutto inadeguata a restituire una rappresentazione cogente di quel momento, alto e complesso, della cultura italiana contemporanea. Proprio questa inadeguatezza, però, mi sembra interessante in prospettiva antropologico-culturale, perché consente di affrontare criticamente un contesto intellettuale e di meglio definire il punto di vista disciplinare. Cosa sfugge a quanti hanno tentato di individuare e circoscrivere il neorealismo fotografico e cosa, dunque, può offrire il nostro punto di vista? La prima cosa che, mi sembra, sfugga a molti, al di là di generiche affermazioni, è che il neorealismo fotografico allogava in un campo di lotta politico-sociale aspro e diversificato. Sullo sfondo di un movimento intellettuale e figurativo, si staglia uno scontro di classe assai duro e vi sono contese politiche che profondamente divaricano anche l'ambito della Sinistra. Vi è, innanzitutto, il tentativo di far decollare un capitalismo dipendente e uno Stato a sovranità limitata e autoritario, con ristretti margini di democrazia borghese e di dissenso, con una impronta culturale piccolo-borghese, cattolica, provinciale e retriva, sullo sfondo di un confronto senza esclusione di colpi tra Occidente e Oriente. Vi è, di conseguenza, una repressione operaia e contadina capillare e violenta, che usa sistematicamente l'intimidazione, la repressione poliziesca, la persecuzione giudiziaria, la strage (di Stato e di mafia). | << | < | > | >> |Pagina 23Nelle Indie di quaggiù.
Nove note per leggere la mia ricerca fotografica nel Mezzogiorno italiano
Lo sguardo d'etnologo comprensivo che io ho rivolto all'Algeria, ho potuto rivolgerlo anche su di me, sulla gente del mio paese, sui miei genitori, sull'accento di mio padre, di mia madre; e ho potuto recuperare tutto ciò senza dramma, cosa che è uno dei grandi problemi di tutti gli intellettuali sradicati, prigionieri dell'alternativa populista o, al contrario della vergogna di essere legati al razzismo di classe. Ho assunto, attraverso uomini molto simili ai Kabyles, uomini con cui avevo trascorso la mia infanzia, lo sguardo di riconoscente comprensione che distingue la disciplina etnologica. La pratica fotografica, prima in Algeria, poi nel Béarn, ha senza dubbio molto contribuito, accompagnandola, a questa conversione dello sguardo che presuppone – credo che la parola non sia troppo forte – una effettiva conversione. La fotografia è, in realtà, una manifestazione della distanza dell'osservatore che registra, e che non dimentica mai di registrare (cosa che non è sempre facile nelle situazioni familiari, [...]); ma presuppone anche tutta la prossimità del familiare, attento e sensibile ai dettagli impercettibili che la familiarità gli permette e gli impone d'apprendere e d'interpretare sul campo (non si dice di qualcuno che si comporta bene, in modo amichevole, che è pieno di riguardi?), a tutti quei minuscoli particolari della pratica che sfuggono spesso all'etnologo più attento. La fotografia è legata al rapporto che non ho mai smesso di intrattenere con il mio oggetto, che non dimentico mai essere fatto di persone sulle quali fermo uno sguardo che definirei volentieri, se non temessi il ridicolo, affettuoso, e spesso commosso.
Pierre Bourdieu,
intervista con Franz Schultheis,
26 giugno del 2001
1. Con l'espressione le Indie di quaggiù, alla fine del sedicesimo secolo, i missionari gesuiti indicavano, com'è noto, remoti universi contadini sparsi per ogni dove in Italia, in particolare nel Mezzogiorno, nei quali per l'isolamento geografico e la frammentazione del territorio, per la miseria spirituale e materiale delle popolazioni, per la durezza della condizione civile più urgeva, a loro dire, l'impegno di evangelizzazione. I religiosi mescolavano, in realtà, le difficili condizioni di vita di coloro che incontravano con i fantasmi di un immaginario turbato dalla diversità culturale e da differenti modi di intendere Dio. Viaggiando in regioni che, in quanto prossime, a portata di piede, per così dire, essi presupponevano note, si meravigliavano di scoprirle ignote e di rinvenire al loro interno situazioni, credenze, usi e costumi ben lontani da quelli in cui erano cresciuti e che l'ortodossia aveva forgiato. Era, in particolare, l'assenza della dottrina cattolica che rendeva selvagge, per i Gesuiti, le genti incontrate e, dunque, la sua diffusione avrebbe annullato le ingiuste differenze di ordine spirituale e materiale. Malgrado le certezze della fede, il loro stupore restava alto, come i resoconti dell'epoca mostrano: le tenebre, infatti, lungi dall'essere al di là dei mari e degli oceani, erano prossime; un confine, immaginato come remoto, passava all'interno del proprio mondo e questa constatazione incrinava convinzioni e filosofie. La definizione dei Gesuiti, consolidatasi nel corso del tempo, ha finito con il circoscrivere, in Italia, un ambito concettuale, quello di un Paese sconosciuto, selvaggio, diverso, posto però sul limitar di casa, di una zona della conoscenza e della comprensione inaccessibile benché a portata di mano. Tale ambito concettuale, anche per le concrete vicende storiche nazionali, ha costituito una costante del pensiero sociale, religioso o laico che fosse (e uno stereotipo, fortemente limitativo): il Mezzogiorno e, in particolare, al suo interno, il mondo contadino, pur se empiricamente esperibile, è restato luogo di affermazioni apodittiche e violente reprimende, di incerta identità e ambiguo smarrimento, di urgente esplorazione e problematica decifrazione. Anche la riflessione antropologica ha risentito dell'atteggiamento diffuso: basti pensare, tra le numerose testimonianze adducibili, alle motivazioni con cui Lamberto Loria spiega la propria folgorazione sulla via di Circello del Sannio o con cui Ernesto de Martino offre ragione del suo impegno e della sua ricerca in Lucania. Emblematicamente de Martino, del resto, muoveva i primi passi lungo il labirintico cammino delle tarantate salentine a partire da un'intensa rievocazione delle Indias de por aca, pur rivendicando, com'è naturale, la differenza di prospettiva dell'etnologo moderno rispetto al religioso dell'epoca controriformista. In realtà, benché dal Cinquecento a oggi si sia profusa una variegata attività d'indagine, la condizione sociale e culturale del Mezzogiorno è restata largamente incompresa. È mal esplorato il suo passato, soprattutto legato agli ambiti della pastorizia, dell'agricoltura e dell'artigianato, alla società aristocratico-rurale; è banalizzata e semplificata la sua vicenda contemporanea, scaturita dalla repentina capitalistizzazione delle campagne, dalla terziarizzazione e dall'inurbamento. Ma, soprattutto, permane un disagio conoscitivo che scaturisce dall'oscuro intreccio tra arcaico e moderno, dalla peculiare fisionomia sincretistica tra il passato e il presente che nell'area si è andata affermando. Certamente dietro tale disagio s'intravedono copiose dosi di pigrizia intellettuale così come motivazioni poco limpide: è più comodo immaginare il Mezzogiorno secondo stereotipi, piuttosto che sforzarsi di comprenderne le molteplici e giustapposte realtà; e gli stereotipi, com'è noto, sono funzionali rispetto alle logiche e ai processi di dominio. Al di là di tutto ciò, però, una reale difficoltà si erge di fronte a chi abbia desiderio di comprendere lo stato delle cose. Effettivamente il Mezzogiorno, in particolare, sino a un recentissimo passato, nelle aree di disagevole accesso, interne, disgregate, oggi nelle aree ad alta concentrazione urbana, appare di problematica decifrazione; esso si nega a una lettura immediata, organizza sue strategie di differimento e occultamento. Le vaste plaghe desertificate, il degrado dissennato del territorio e degli abitati, il muto smarrimento di esistenze marginali, l'oscura incombenza mafiosa, l'inconsulta violenza di certe aree urbane, l'aperta sfida del clientelismo e del nepotismo, l'altalenante presenza degli emigrati, la trasparente povertà di molti, l'opaca ricchezza di pochi, la rancorosa rivendicazione di minuscole identità locali, la distanza da tutto e la prossimità con tutti, lasciano perplesso il visitatore e lo inducono a prendere sovente, con fastidio, le distanze dalla realtà che osserva. Come ho prima accennato, questo processo di incomprensione, o di fraintendimento, ha riguardato anche il contesto antropologico. Forse perché il Mezzogiorno italiano è stato osservato soprattutto, anche se non soltanto, da Italiani: e questi hanno dovuto fare i conti con un mondo vicino, familiare (pur se, spesso, sottoposto a un processo di distanziamento ed estraniazione, di "orientalizzazione"). Ora, com'è noto, comprendere una realtà vicina, interna alla propria vicenda, se può dare risultati pregevoli, è tuttavia difficile e comporta uno sforzo particolare. Lo sguardo tende a smarrirsi quando incontra realtà che ambiguamente mescolano radicali differenze, elementi del tutto familiari ed altri che sembrano provenire dall'esperienza di antenati prossimi; bisogna sapersi addestrare, con scrupolo e speciale umiltà conoscitiva, a leggere la diversità nell'identità, saper rinvenire ragioni all'interno delle emozioni. Occorre non soltanto dimenticare di sapere, non presupporre, ma anche, per quel che è possibile, dimenticare di essere. Mentre lo studioso di mondi lontani deve portare con sé la propria identità, colui che si muove all'interno del proprio mondo deve, in qualche misura, sbarazzarsene, obliarla. Se è vero che la nozione di vicino non può essere ridotta alla mera dimensione spaziale, che la lontananza è uno stato conoscitivo che i ricercatori devono saper acquisire attraverso una severa disciplina epistemologica, deontologica e metodologica, è pur vero che l'essenza e l'originalità dell'approccio antropologico, il suo telos e la sua più certa possibilità di successo, come ha sovente ricordato Claude Levi-Strauss, risiedono nell'osservare da lontano, nel sottrarsi all'insieme di conoscenze implicite e di determinazioni affettive che connota i rapporti che si sviluppano in uno spazio storicamente condiviso tra lo studioso e i suoi soggetti di studio; nel guardare, come egli dice, secondo la prescrizione degli attori giapponesi del teatro del No, "nello stesso modo in cui ci guardano gli spettatori". In assenza di tale presa di distanza anche la più limpida volontà di conoscenza rischia di imbattersi in un limite che, come ho accennato, nella particolarità del rapporto e dell'approccio, sembra garantire, in qualche modo, l'identità e la centralità del ricercatore. Ho evocato quest'ambito problematico perché anche il mio viaggio fotografico nel Mezzogiorno italiano, e in particolare in Calabria, la regione che con più intensità e sistematicità ho esplorato, è stato in qualche modo un viaggio nelle Indie di quaggiù. Nell'accingermi a ricordarne alcuni aspetti, dunque, mi piace conservare questa locuzione, a dispetto della sua profonda ambiguità: essa è, infatti, carica di echi esotici, allude a una realtà lontana nello spazio e nel tempo, e sembra negare, con la concreta identità del Mezzogiorno italiano, il progresso di conoscenze dovuto alla Storia e alle scienze sociali, ma al contempo funge, paradossalmente, da segnale rispetto alla complessa condizione intellettuale e morale che ha accompagnato parte cospicua della ricerca etnografica recente nel Sud (cui ho testé fatto riferimento) e che, per qualche verso, ha improntato anche il mio operato. Credo di non essermi saputo sottrarre del tutto, infatti, a quanto ho sommariamente richiamato. Ho scontato la ruvidezza, la reticenza, l'ambiguità, la complessità della società e della cultura meridionali. Ma, soprattutto, ho ereditato la vischiosità conoscitiva che proviene da una lunga tradizione di rapporti e dalla mia posizione di appartenente, in buona misura, al mondo che ho osservato. La mia vicinanza, inoltre, non è riconducibile soltanto a un comune sistema statuale e sociale, a medesime aree geografiche di appartenenza o, comunque, di afferenza. Sono stato anche politicamente vicino agli uomini che ho studiato, ho condiviso la loro ansia di liberazione, le loro speranze. Diversamente da de Martino, però, non ho ritenuto che occorresse comprendere un mondo residuale affinché, anche attraverso tale comprensione, questo cessasse di esistere, risolvendosi in un'istanza superiore, garantita da qualche forma di critica razionalista. Ho pensato, invece, che tale mondo occorresse studiare in quanto cosa in atto, frammista e segmentata ma non sopravvivente, per capire le indicazioni che da esso provenivano e aiutarlo a meglio esprimere le potenzialità insite nelle sue specifiche forme culturali e sociali. Nella dialettica tra lontano e vicino, dunque, come altri studiosi italiani che, pur con inclinazioni e declinazioni peculiari hanno condiviso il nucleo fondamentale della demartiniana istanza d'impegno, mi sono trovato a esercitare un tipo di sguardo che non era l'una, né l'altra cosa. Sguardo tecnicamente estraniato e tuttavia implicato nel medesimo orizzonte del riguardato; che professionalmente separava ciò che la coscienza civile ricongiungeva; che tentava di carpire, insieme, il segreto storico della lontananza e le ragioni etiche della vicinanza. Sguardo intermedio, dunque, e, fatalmente, dotato di ambivalenza e, forse, di ambiguità. Sguardo, tuttavia, che non ha voluto venir meno al suo compito fondamentale – l'occhio ha la funzione di separare il soggetto dal mondo; vedere vuol dire sapere, mi ricordavano i miei numi tutelari, Maurice Merleau-Ponty e Ludwig Wittgenstein –, per stemperarsi in una più sommessa e dimessa dimensione cognitiva. (Ciò non vuol dire, naturalmente, che abbia saputo vedere: che abbia saputo guardare le cose giuste e tessere le giuste relazioni di senso e significato tra le cose che ho guardato; le vie della cecità, e le sue ragioni, come ricorda José Saramago, sono praticamente infinite). Così la fotografia, con la sua valenza critica, il suo potere di separazione e di identificazione della realtà, di potenziamento dello sguardo, ha costituito un mezzo indispensabile d'orientamento, un prezioso ausilio conoscitivo, uno strumento per riconoscere la complessità dell'universo in cui muovevo, la densità dei documenti che ne traevo.
Le mie immagini, insomma, riportate da frontiere insieme labili e
invalicabili, vorrei fossero lette anche come documento del viaggio più
difficile da documentare: quello all'interno delle ragioni che hanno indotto un
viaggiatore a viaggiare.
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