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| << | < | > | >> |Pagina 7Il paziente pellegrino del sogno.Pittura, memoria, narrazione nell'arte di Antonio Saliola
ANTONIO FAETI
Il colore del racconto Ci sono artisti che non amano le dichiarazioni perentorie, che non stilerebbero mai «manifesti», che si allontanano silenziosamente da tutti i proclami, che tacciono sorridendo quando si allude a prese di posizione espresse con rumorosa veemenza. La loro cauta separatezza fa nascere nei distratti certi strani pregiudizi: se tacciono - si dice - è per via di una loro non appartenenza ai grandi territori in cui via via si suddivide la storia dell'arte, se tacciono è perché non hanno mai saputo trovare buone ragioni, argomenti rispettabili, connotati rilevanti, se tacciono è evidente che la loro arte non possiede mai le «parole per dirlo». L'eterno sorriso che appare in tutte le immagini in cui, di volta in volta, Antonio Saliola si traveste da contadino, da baronetto, da elettore di Giolitti, da rispettabile fattore, è un eterno sorriso che spiega, allude, stuzzica, deride, illumina, ammicca. In realtà, l'arte di Saliola è attraversata da fremiti, pulsioni, desideri, drammi, sofferenze, provocazioni: però, proprio al centro della sua incessante polemica silenziosissima, così dotata di colori e così priva di parole, c'è un denso argomentare costantemente riproposto, c'è una poetica mai tradita, c'è un sogno ricorrente che si nutre di dubbi, incertezze, domande, visioni, c'è una scelta spirituale espressa fin dall'inizio e poi sempre ribadita. Pittore del silenzio, visionario delle attese, cronista delle assenze, narratore che parla in nome degli scomparsi, Saliola nasconde nel sorriso un dialogo muto con icone infinite, occulta nel distacco una presa di coscienza vistosamente bruciante nell'animo, spegne, con l'ironia ossimorica del proprio sguardo partecipe e a un tempo distratto, la chiassosa superficie di un balordo comizio di cui sente gli echi senza neppure prendersi la briga di mostrarsi infastidito. Saliola comincia a esporre i suoi lavori proprio mentre il trionfo mondiale della Pop Art induce molti artisti della generazione a cui appartiene a rivedere, a riconsiderare, a ripensare certe componenti del grande movimento, con l'intenzione di non lasciarsi pigramente attrarre entro gli infiniti meandri fascinosi dai quali è composto. Sono anni in cui si riflettesu un insinuante e metafisico precursore come Joseph Cornell, su una presenza graffiante e densa di peripezie innovative come quella di Öyvind Fahlström, su possibili esiti già alternativi come quelli derivati dalla «nouvelle figuration» di Gilles Aillaud. Si tratta, come spesso accade, di un trionfo che contiene una crisi, di un apice toccato proprio mentre si discutono fortemente sia i presupposti teorici che gli esiti poetici. Un pittore colto e attento come Saliola entra risolutamente proprio nel magma più intenso - ma meno superficialmente visibile - di questo dibattito che gli infiniti confini della Pop Art rendono quasi planetario. Non a caso, un quadro il cui senso profondo può molto appassionare anche oggi, «Coca per pochi: non tutto fila secondo i desideri dei nostri eroi (e si profilano complicazioni dall'Oriente)», del 1968, diventa un riassuntivo, abbacinante trattato su quella transizione figurale. Con una rara capacità di condensazione, qui sono collocati grandi temi come l'ansia, l'alienazione, la rivolta, l'insicurezza, l'occultamento, la parvenza, l'inquietudine. E, in questo «interno» claustrofobico, dominato dalla nascosta ansia tanatologica della Guerra Fredda, ci sono alcune Icone del Novecento, individuate con perizia storiografica obbedendo alle ragioni di un «paradigma indiziario» nato da una cultura che spiega e decifra. La scelta di Saliola impressiona anche quaranta anni dopo, perché il pittore continua a restarle fedele. Il racconto è ampio, intricato, perentorio, crudele. Nessuno di questi personaggi può sfuggire alla «logica» di questo racconto, però tutti devono obbedire alla fulgida pittoricità dell'insieme: narrazione come intenzionalità e voluta scelta poetica, ma colorismo nutrito dalle grandi fonti visionarie di un Novecento rivisitato con passione. Un giovane pittore comincia a raccontare: di capitolo in capitolo il suo potente romanzo di formazione non avrà mai interludi.Ecco, allora, il Darwin parodico che allude con ironia intrisa di sapienza dalle tele della serie «Viaggio dei miei antenati», del 1970. Questi zii un po' bestie e un po' uomini alludono a un albo di famiglia che può riassumere in sé proprio le istanze proposte da Cornell, da Fahlström, da Aillaud. Già Italo Calvino aveva pensato a una galleria di antenati: quelli che ci offre Saliola mescolano i dubbi sulle origini alle paradossali paure del presente. Il pittore ama la Storia, ma non concede nulla agli storici, perché spreme dal Novecento proprio questo sogno surreale e inquietante, sa che non ci furono davvero distinzioni, sa che le istanze lombrosiane spesso diventarono ludiche, mentre un immenso zoo per nulla metaforico si riempiva di carnefici. Il pittore intride i sogni con il sarcasmo e usa la propria perizia per fare scomparire ogni possibile indulgenza; questa animalizzazione non è per nulla esopiana, è surreale e luciferina. Nel creare gli antefatti riconoscibili del grande lavoro, della grande opera che poi seguiranno, Saliola legge, studia, ripensa, ritrova: era da tempo entrata nell'Immaginario quella infida paura orwelliana che scaturisce da una delle torbide icone del Novecento. Saliola vuole ritrovarla e con essa compone una galleria di antenati: il visitatore ride per ingannare la paura. | << | < | > | >> |Pagina 58L'addio di TusitalaNon c'è un congedo, non c'è un saluto, non c'è una conclusione, non c'è una sintesi, non c'è una fine, non c'è una possibilità d'approdo, né un esito conclusivo. Un quadro del 1992, «La prima lettera», potrebbe essere collocato all'inizio, potrebbe dire che tutto comincia da questa missiva che ha una funzione articolata e complessa: in senso strettamente pittorico la macchia bianca che delizia l'occhio perché tiene conto di delicati equilibri compositivi esaurisce il proprio compito perché chiama a sé tutta la costruzione, dice dove deve essere in primo luogo rivolto lo sguardo. Ma è una lettera, c'è una penna, c'è un calamaio, dobbiamo tener conto del titolo, possiamo sentirci guidati. Tutta la pittura di Saliola, nel suo insieme, si configura come un mandala, tanti quadri lontani nel tempo ritornano, dialogano con tele che hanno pochissimi anni di vita, che sono recenti. I temi sono numerosi e ricorrenti, il pittore ritorna su luoghi in cui è già stato, rimedita su occasioni. In «Quando il tempo si addormenta», del 1999, c'è un delinearsi di porte, ci sono aperture che si succedono, al termine ci sono quadri appesi e uno di essi potrebbe risultare proprio quello che stiamo guardando. Del resto, gli occhi inseguono questa fuga, vanno avanti, lo sguardo cerca, il silenzio aiuta la concentrazione, fa crescere le esigenze. Dopo la lettera non spedita, o forse smarrita, o bruciata, o nascosta, o mai iniziata, perché era la «prima», l'ingresso in questo succedersi di porte ci riconduce a certi film di Ford dove è spesso realizzato questo «effetto» amato dal regista. Però si cita Ford, e si rammenta che Saliola nel West c'è già stato. Dopo aver scritto tanto, in un'età ancora giovane, Stevenson scomparve nelle isole, cambiò il suo nome, volle essere Tusitala, cioè l'uomo che racconta le storie. Ogni quadro di Saliola è intenzionalmente una storia. Lettere, corridoi, travestimenti, giardini, mari, boschi: ovvero un titolo di un quadro del pittore che potrebbe essere riassuntivo e che è presente ovunque, in ogni caso: «Come se l'infanzia non finisse mai». Forse gli abitanti delle isole non sapevano e non volevano dare un'età a Tusitala. E Stevenson creò un Doppio molto famoso, ma non lo portò nelle isole, la «prima lettera» potrebbe alludere al suo «demone nella bottiglia», la luce di quel tramonto potrebbe attendere Tusitala. E Saliola è un Tusitala pittore che racconta tante storie, senza interruzione, storie senza limiti, storie che salvano la vita per mille e una notte, raccontando si sopravvive: questo dice la fiaba.Ma c'è un quadro del 2005 che fa pensare a Tusitala bambino, in Scozia, quando il suo viaggio non era iniziato. Indubbiamente, «Lettori notturni», un sapore un poco conclusivo lo possiede davvero, ma solo un poco. Una grande libreria, una immensa libreria, con moltissimi dorsi colorati, candele accese, riverberi dorati, il cuoio antico un po' dovunque, le luci che sono complici come in un complotto libresco, come in un cosmo bibliotecario. Il pittore conosce quei dorsi, a uno a uno, lui che non ha fatto entrare gli adulti, in quella stanza, ma due bambini e un elfo. Leggono, sfogliano, guardano, è uno spazio contenuto, è limitato come i giardini, i tanti giardini di una vita di pittore che ama le biblioteche. E i bambini, e i dorsi di cuoio, e le candele, e gli elfi, e i libri lasciati lì, solo un poco sfogliati, in questa notte in cui tutto è possibile perché c'è tutto, in una biblioteca. Proprio «come se l'infanzia non finisse mai», e Jim vedesse ogni cosa e comprasse questa biblioteca con l'oro dell'isola dove lo ha condotto Tusitala.È l'elfo, a guardar bene, l'autentico lettore ostinato. E questa è la sua Dodicesima notte: fra un poco rientrerà nel libro che sta leggendo, proprio come se si trovasse in un quadro di Saliola. | << | < | |