Copertina
Autore Gianluigi Falabrino
Titolo I comunisti mangiano i bambini
SottotitoloLa storia dello slogan politico
EdizioneVallardi, Milano, 1994, Domino 31 , Isbn 978-88-11-90425-0
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe illustrazione , media , politica , storia
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Indice


Indice

Propaganda senza slogan                  5
Il sole dell'avvenire                   27
Guerra, sola igiene del mondo           46
Osare l'inosabile                       69
Se avanzo, seguitemi                    92
Le donne non ci vogliono più bene      117
Anni difficili                         125
Anni facili                            147
Tutto e subito                         162
La maschera e il volto                 188
In Europa!, in Europa!
(E la vera storia di 'Forza Italia")   213
Il partito margarina                   233
Tutti insieme, incoscientemente        252
Peppone laburista                      276
La parabola del senatur                290
L'autunno della partitocrazia          311
Il partito-azienda                     312

 

 

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Pagina 24

Tra il Risorgimento e d'Annunzio, il maestro di retorica nazionalista era stato Giosue Carducci, il bardo del patriottismo che a 24 anni, nel 1859, si guardò bene dall'unirsi ai volontari toscani perché, scrisse in una lettera, s'era sposato da poco e aveva avuto un bambino: "Tengo famiglia". Dopo l'Italia dei cesari e l'Italia dei papi, Mazzini prima, Carducci poi, lanciarono il mito della Terza Italia, infarcito del ricordo delle sproporzionate glorie dell'antica Roma, che Cavour aveva tanto temuto, ostile anche per questo all'unione subitanea con il Sud e con Roma. Si deve però aver presente che dai Carbonari a Mazzini, da Garibaldi a Carducci e alla borghesia interventista del 1911 e 1915, per tutti i risorgimentali la Patria non era un concetto, ma una fede, un oggetto di culto: non a caso si parlava di religione della Patria. Di fronte a essa, Cavour e Giolitti erano "atei".

Si debbono a Carducci gli slogan del nazionalismo, ricorrenti per circa un secolo, fino ai nostri anni Cinquanta:


Itala gente dalle molte vite

In faccia allo stranier che armato accàmpasi
sul nostro suol, gridate:
Italia, Italia, Italia!


e, anticipando i deliri dannunziani e mussoliniani dell'imperialismo italico, Roma gli apparve
nave immensa lanciata vèr l'impero del mondo.

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Pagina 27

Il sole dell'avvenire

    Su fratelli, su compagne,
    su, venite in fitta schiera,
    sulla libera bandiera
    splende il sol dell'avvenir

è la prima strofa del "Canto dei lavoratori scritto nel 1886 da Filippo Turati, allora giovane avvocato e organizzatore dei socialisti lombardi, su commissione di Costantino Lazzari e altri compagni d'idee, che volevano un inno con la sintesi del pensiero e delle aspirazioni del partito operaio, per inaugurare la bandiera della Lega dei figli del lavoro. Da quella festa dei proletariato milanese, il "Canto" (o "Inno" come fu subito chiamato popolarmente) non si sa se musicato da Amintore Galli, o dai maestri Ziglioli e Andreoli, fece molta strada e divenne l'inno ufficiale del socialismo italiano, insieme a "L'internazionale, futura umanità", scritto da Eugenio Pottier durante la Comune di Parigi.

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Pagina 44

Nel nuovo secolo, con un proletariato più organizzato e più istruito, si diffuse una miriade di pubblicazioni dai titoli esortativi e programmatici ("Avanziamoci!", "Sorgiamo!", "Basta!", "In marcia!", "Sempre Avanti!", "Più avanti!", "Abbattiamo", "Alla riscossa") il punto esclamativo era quasi sempre di rigore. Come si vede, molti titoli di giornali erano combattivi e programmatici, veri slogan in se stessi. A fianco dei giornali e delle riviste, per approfondire la cultura del movimento operaio ci furono i "Quaderni di Critica Sociale" e, per portare la propaganda nelle case con uno strumento tradizionale e già accettato da tutti, gli Almanacchi.

Questi ultimi erano libri annuali, pubblicati fin dal diciottesimo secolo, con il calendario, le feste, i fenomeni astronomici e meteorologici, i proverbi, e molti consigli per i contadini e le massaie.

Il primo ad adattare la formula degli almanacchi alla propaganda socialista fu, nel 1871 lo stesso Bignami che era stato il fondatore del primo giornale proletario, "La Plebe", e lo chiamò infatti "Almanacco repubblicano della Plebe".

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Pagina 62

Ancora una volta, le canzoni fecero la loro parte, a cominciare da "La canzone del Piave" scritta dall'impiegato postale E.A. Mario (pseudonimo di Gioviano Ermete Gaeta):

Il Piave mormorò:

Non passa lo straniero!


La stessa funzione di esortazione alla resistenza ebbe la "Canzone del Grappa", di autore ignoto, vera canzone popolare, nota soprattutto per un verso che è un programma:

Monte Grappa, tu sei la mia patria.


Più tardi, il testo della canzone fu riscritto in forma letteraria dal generale Emilio De Bono, poi quadrumviro del fascismo e comandante dell'esercito nella prima parte della guerra d'Etiopia.

Lo stesso motto degli Alpini,

Di qui non si passa


divenne una parola d'ordine generalizzata durante la resistenza sul Piave e sul Monte Grappa. Per inciso, vent'anni dopo, durante la guerra civile spagnola, i repubblicani usarono lo slogan

No pasaran

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Pagina 72

Marinaio e aviatore, d'Annunzio diede all'aviazione italiana il grido di guerra, dalle remote origini storiche e letterarie, che poi passò alle squadre fasciste e alla liturgia del regime:

Eja! eja! eja! Alalà!


Il grido nacque, come racconta lo stesso poeta, una sera dell'agosto 1918, su un campo d'aviazione, dopo che gli ufficiali l'avevano salutato con il tradizionale, triplice hurrà!, che la marina italiana aveva tratto dall'uso inglese.

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Pagina 74

Nella Reggenza del Camaro il genio propagandistico del Poeta-Soldato si scatenò:

Fiume o morte


fu il motto dei legionari di d'Annunzio, a imitazione dello slogan garibaldino; e poi altri:

Ardisco non ordisco


Hic manebimus optime


Si spiritus pro nobis, quis Contra nos?


(che fu il motto della Reggenza); e ancora:

Città olocausta, urna inesausta


Natale di sangue


Me ne frego


con le applicazioni alle canzoni:

Ce ne fregammo un dì della galera

Ce ne fregammo della bella morte


e anche

Me nefrego è il nostro motto

me nefrego di morire

me ne freno di Bombacci

e del sol dell'avvenire.

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Pagina 76

Dunque, dalla resistenza sul Piave la propaganda fascista ha ereditato Meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora; dal Poeta-Soldato e dall'aviazione le è arrivato Eja! Eja! Eja! Alalà!; e dati Arditi, ancora per il tramite di d'Annunzio, il motto becero Me ne frego. Ma non soltanto questi slogan: com'è naturale per un movimento nato con la guerra e dalla guerra, anche altro è arrivato dalle trincee al fascismo, a cominciare da un secondo grido degli Arditi e dallo stesso inno del regime.

A noi!


gridavano gli Arditi lanciandosi negli assalti alla baionetta.

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Pagina 80

Nel 1926, Longanesi scrisse il "Vademecum del perfetto fascista, seguito da Dieci assiomi per il Milite ovvero Avvisi ideali". Il settimo assioma diceva:

Mussolini ha sempre ragione.


E' inutile dire quanto l'adulato seppe trarre vantaggio dalla smaccatissima adulazione; e l'incredibile frase riecheggiò per più di quindici anni dalle concioni radiofoniche, rimbalzò da tutti i giornali e fu scritta su molti muri, a scorno del nostro orgoglio e dell'intelligenza italiana.

Ignoro invece chi abbia inventato l'altro slogan demenziale, da cervello all'ammasso, come Guareschi avrebbe detto più tardi, per altri fanatismi:

Duce, tu sei tutti noi.

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Pagina 96

Dunque, lasciando stare avi più remoti, il nonno della propaganda nazionalista è stato Carducci, il padre d'Annunzio, il figlio e nipote, Mussolini. Politico abituato ai comizi dell'estrema sinistra, e alle discussioni nei comitati del partito, giornalista esperto nei titoli sintetici e nelle polemiche brucianti, Mussolini fece dei discorsi con la folla il suo capolavoro politico, e degli slogan sprezzanti o estetizzanti il collante del consenso. Passa per essere stato un discepolo di Sorel; certamente, studiò la "Psicologia delle folle" di Gustave Le Bon e la mise in pratica, trattando le masse come femmine passive e masochiste, da eccitare con i sogni più arditi e da placare con il congiungimento orgasmico:

Duce tu sei tutti noi.


Già nel 1925, Mussolini aveva detto: "Voi lo sentite, o camicie nere pisane, che andiamo incontro a tempi di grandezza". Come notò acutamente Leo Longanesi, nessuno aveva rivolto ai portinai, agli impiegati e alle maestre parole così napoleoniche: "La loro vita era grigia, monotona, povera, e un po' di epica li rincuorava. Quando mai un deputato liberale si era assunto il compito di spiegar loro la storia romana?

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Pagina 176

Si cantavano anche testi più politici, come la celebre canzone di Fausto Amodei, Morti di Reggio Emilia / uscite dalla fossa : / tutti con noi a cantar / "Bandiera Rossa', e come "Che roba, contessa", scritta da Paolo Pietrangeli per la morte di Paolo Rossi durante l'occupazione deh'Università di Roma:
Voi gente perbene cbe pace cercate,
la pace per far quello che voi volete,
ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra,
vogliamo vedervi finir sottoterra,
ma se questo è ilprezzo l'abbiamo pagato,
nessuno più al mondo dev'essere sfruttato.

Si cantava, ma si leggeva anche molto: "Le lettere ad una professoressa" di don Lorenzo Milani (1967), 'Il diario del Che in Bolivia" (1968), tutti i libri di Herbert Marcuse, il "Libretto rosso" di Mao, "Cent'anni di solitudine" di Gabriel Garcia Márquez: il suo Macondo diventò la sede di ogni utopia.

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Pagina 179

Il '68 era stato l'anno della rivolta studentesca o, meglio, del suo inizio; il '69, con l' "autunno caldo", fu il tempo della rivolta operaia; e, almeno nel breve termine, è indubbio che i nuovi contratti, lo Statuto dei lavoratori firmato proprio allora, e il maggior peso dei sindacati, cambiarono la società e l'economia più della guerra contro i "baroni" universitari e per il diritto al 18 collettivo. Anche i sindacati adottano nei cortei operai la tecnica degli slogan rimati e gridati in coro.

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Pagina 182

L'uso dei muri, le bombolette spray, gli slogan ritmati e scanditi sono ormai di tutti. Le femministe prediligono i cortei con i cori:
Borgbesi tremate, / le streghe son tornate
Io sono mia
Né medico né giudice né confessore / le donne sanno decidere da sole
Sacrifici e aborto controllato / così il PCI salva lo Stato.

Io sono mia è stata l'affermazione più diffusa del movimento, il vero slogan dell'intero femminismo. Era già una frase radicata nella cultura americana, grazie a quel fenomeno della civiltà di massa, del quale gli Stati Uniti sono stati una delle patrie: il cinema. Come "Casa di bambola", manifesto del primo femminismo, è stato scritto da Ibsen, così anche questo slogan è di un uomo. Nel corso di un furioso bisticcio cinematografico in "Anna Christie", di Eugene O'Neill, l'autore fa dire a Greta Garbo "Io sono mia, io sono la mia padrona".

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Pagina 185

Giorgio Bocca e altri hanno tentato di scrivere la storia del terrorismo; nessuno ha però voluto affrontare la storia più ampia degli anni Settanta, la storia delle contestazioni e il problema del nesso eventuale fra movimento e violenza, fra ribellismo e lotta armata. Per equilibrare i trionfalismi del reducismo, prima di scrivere una tale storia, sarà opportuno ricordare i molti morti di quegli anni, soprattutto a Milano e a Roma. C'è stata una violenza giovanile che non era terrorismo organizzato, ma era guerriglia urbana oppure soltanto rissa ideologizzata, assenza di tolleranza e disprezzo per chi la pensava diversamente, e scontro fra studenti e poliziotti: la discussione sostituita dalle botte e dalle spranghe, qualche volta dalle pallottole.

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Pagina 188

La maschera e il volto

L'anno rivoluzionario, però, checché ne pensino gli ex-giovani, non è stato il '68. Era stato invece il 1963, anno decisivo per gli italiani. In quel '63 i barbieri decidono di fare festa la domenica, i tassisti aboliscono il vetro divisorio fra il conducente e i clienti, e quasi tutte le aziende, banche comprese, adottano la settimana corta che per molti anni aveva caratterizzato soltanto le società petrolifere e, dal 1957, l'Olivetti.

Sono tre piccole cause dai grandi effetti, che produrranno un enorme cambiamento sociale. L'ultimo fenomeno - la settimana corta - trasforma le abitudini familiari e scristianizza i cittadini, allontanandoli dalle parrocchie e dalla messa domenicale, sostituita dal rito delle code sulle autostrade; finisce la società del risparmio e comincia la civiltà del fine-settimana, anzi del uicchénd. Il cambiamento è così evidente, una vera rivoluzione, che per un po' i sociologi non parlano d'altro.

Non danno invece la dovuta importanza agli altri due fattori rivoluzionari. La chiusura dei negozi di barbiere alla domenica segna la fine della civiltà contadina, la fine del paese come centro e modello di vita: se i contadini delle frazioni e delle cascine non aspettano più la domenica per andare a farsi la barba, è perché ormai hanno imparato a usare il rasoio elettrico e perché nei loro nuovi, orrendi condomini, costruiti in stile cittadino ai margini dei vecchi paesi, hanno perfino il bagno, o almeno sognano di averlo o di costruirlo per la figlia che si sposa. E' la fine del buon tempo antico.

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Pagina 214

Il massimo sforzo propagandistico negli ultimi vent'anni fu fatto dalla Democrazia cristiana nelle elezioni politiche del 1987 e del 1992. Nel primo caso, il partito veniva da cinque anni di astinenza dalla presidenza del Consiglio (1982-83 presidenza Spadolini, 1983-87 presidenza Craxi), e doveva arginare l'irruenza e il crescente potere del decisionista Bettino; nel '92, invece, combatteva per mantenere il ptrere e fermare l'appena iniziata inchiesta "Mani pulite", che aveva preso il via, apparentemente, nel febbraio dello stesso anno, con l'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa. L'obiettivo era di portare Andreotti al Quirinale, lasciando Palazzo Chigi (cioe il governo) a Craxi. Sembra che si parli di un secolo fa...

Nel 1987, per conto della Democrazia cristiana, l'agenzia RSCG lancia la prima campagna Forza Italia! ispirata evidentemente, con poco sforzo, al grido che incoraggia le nazionali sportive, unico momento di patriottismo italiano. Silvia Costa, allora responsabile della propaganda democristiana, aveva dichiarato a "Panorama" (17 maggio 1987): "Ci siamo affidati all'altissima qualificazione professionale della RSCG con un obiettivo strategico: recuperare il gap fra il mondo politico e la gente.

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Pagina 304

E, più forte e più significativo di tutti, lo slogan lanciato al congresso di Pieve Emanuele del 1991:

La Lega ce l'ha duro


dal quale è derivato il neologismo celodurismo, per indicare molto più del decisionismo craxiano: forza, determinazione, capacità d'agire e di vincere.

Dal linguaggio da caserma degli squadristi alle parolacce ostentate adolescenzialmente dai sessantottini siamo arrivati alla scurrilità, al turpiloquio e alla volgarità dei gesti. In fondo, gran parte della società italiana parla, purtroppo, come Bossi: con la scusa del giovanilismo, dell'odio per l'ipocrisia, del "parla come mangi" , e sull'onda dei preclari esempi televisivi di Funari e altri, quello che un tempo veniva definito linguaggio da trivio è ormai diffuso come linguaggio da bar e, spesso, da salotto. Ma c'era un'ipocrisia per la quale il linguaggio comune veniva bandito dalle dichiarazioni ufficiali e dai discorsi degli uomini politici, che poi facevano correntemente uso delle volgarità, appena i microfoni erano spenti.

Bossi ha avuto il dubbio merito di avere rotto questa ipocrisia e di avere introdotto nella politica il linguaggio parlato dalla grande maggioranza:
Stanno provando a mettermela in quel posto

La Lega ce l'ha duro era una metafora, abbastanza esplicita del carattere della Lega. Ma io non vorrei che adesso alla Lega s'iscrivessero tutte le signore italiane...

Abbiamo inchiappettato Spadolini, ora tocca agli altri

Formentini stravince rispetto a quel cornuto di Dalla Chiesa

(dal palco del comizio in piazza Duomo a Milano, 4 giugno 1993; e Giampaolo Pansa commenta: 'Altro che barbaro da ringraziare! Ho sentito un alito orribile di nuovo fascismo sulla bocca di Bossi: cornuto! una, quattro volte, otto volte cornuto a Dalla Chiesa, ho la rivoltella in tasca, le bombe le hanno messe per far vincere il soviet di Baffo spento, ma io gli spacco la faccia a quello. Parole? Mica tanto").

 

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Riferimenti


Bibliografia essenziale

Libri

U. ALFASSIO GRIMALDI e G. L. FALABRINO
    (L. Marchi): Le parole misteriose del
    nostro tempo, Palazzi editore, 1971.
D. G. AUDISIO e G. VITTORI: Via il regime
    della forchetta - Autobiografia del PCI
    nei primi anni '50 attraverso i manifesti
    elettorali, Savelli.
V. BERGAMO: Dieci anni di grafica e politica
    in Italia nell'immagine di due partiti
    (PRI e PSI), tesi di laurea, Politecnico
    di Torino, 1981.
COMUNE DI VENEZIA: Per la rivoluzione, per
    la patria, per la famiglia e per le donne
    - 100 anni di manifesti politici nel
    mondo, Marsilio Editori, 1978.
G. DURANDIN: Le menzogne della propaganda e
    della pubblicità, Edizioni Dedalo, 1984.
G. FUMAGALLI: Chi l'ha detto?, Hoepli, 1934.
A. FUSELLA: Arrivano i barbari, Rizzoli, 1993
N. GALLERANO (a cura di L. Romano e P.
    Scabello): C'era una volta la DC,
    Savelli, 1975.
C. GARELLI: Il linguaggio murale, Garzanti,
    1978.
M. GIUSTI: Bossoli, Theoria, 1993.
G. GUARESCHI: Mondo Candido, Rizzoli, 1992.
S. LEPRI: Mezzo secolo della nostra vita,
    vol. 1, Gutenberg 2000, 1992.
F. MONTELEONE: Storia della radio e della
    televisione in Italia 1922-1992,
    Marsilio, 1992.
R. PACINI e V. VERGANI: Elezioni e
    radiotelevisioni, A.N.T.I., 1980.
A. PAPA: Storia politica della radio in
    Italia, Guida, 1978.
R. PHILIPPE: Il linguaggio della grafica
    politica, Mondadori, 1981.
PODRECCA e GALANTARA (a cura di E. Vallini):
    L'Asino, Feltrinelli, 1970.
A.C. QUINTAVALLE: Il manifesto politico
    italiano, 1972.
A. REALI: L'utilizzo del mezzo pubblicitario
    nella competizione elettorale in Italia,
    tesi di laurea, Università di Urbino,
    facoltà di Magistero, 1988-89.
L. RINALDI: Il libro della quinta classe -
    Letture, La Libreria di Stato, 1940.
A. STEINER: Il manifesto politico, Editori
    Riuniti, 1978.
G. YANKER: Prop Art (100 manifesti di tutto
    il mondo), Daney House, 1972.
AA.VV. (a cura di P. Mancini): Persone sulla
    scena - La campagna elettorale 1992 in
    televisione, RAI-Nuova ERI, 1993.
AA.VV.: Almanacco PCI '76.
AA.VV. (a cura di 0. Del Buono): Eia, eia,
    eia, alalà!  La stampa italiana sotto il
    fascismo, Feltrinelli, 1971.
AA.VV.:	Le immagini del socialismo -
    Comunicazione politica e propaganda del
    PSI dalle origini agli anni Ottanta,
    Almanacco socialista, 1983.
AA.VV.:	1892-1982 - PSI Novanta anni di
    storia, Almanacco socialista, 1982.

Riviste

S. BERTOLINI e M. FARINA: Bossi: infanzia di
    un capo, in "Sette", supplemento del
    "Corriere della sera", 30 settembre 1993.
U. BRINDANI: Lumbard contro tutti, in
    "Panorama", 10 ottobre 1993.
O. CITTERIO: Quanto pesa il marketing nel
    mondo dei partiti, in "Marketing
    Espansione", febbraio 1989.
S.F. PADULA: I partiti nell'arena dei mass
    media, in "Queste istituzioni',
    dicembre 1987.
G. SANI: Milano: se il centro si frantuma, in
    "Il Mulino', luglio-agosto 1993.
C. VALENTINI: Se questo è un duro -
    Psicosessuologia di Umberto Bossi
    (colloquio con G. SCHELOTTO), in
    "L'Espresso', 10 ottobre 1993.
AA.VV.: Buonanotte DC, in 'Il Venerdì di
    Repubblica", 9 luglio 1993.
AA.VV.: La vita privata nel Sessantotto,
    supplemento a "Panorama',
    31 gennaio 1988.


 

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