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| << | < | > | >> |IndiceUna moglie per Dino Rossi Una moglie per Dino Rossi 9 Il chierichetto 68 Prima Comunione 92 L'abruzzese di Hollywood di Gian Gaspare Napolitano 103 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Il suo nome era Dino Rossi; faceva il barbiere giù a North Denver, nel quartiere italiano dove stavamo da bambini. Tanto tempo prima aveva corteggiato mia madre: intorno al 1909, prima che mio padre entrasse in scena. Dino Rossi non poteva essere stato un corteggiatore ardente; era troppo mite per una parte simile; sottile, con una voce dolce, mani e piedi molto piccoli. Non era stato certo un rivale degno di mio padre, degno di un muratore. Mio padre e mia madre si erano sposati proprio sotto il naso di Dino. Dino era mescolato alle mie prime impressioni: ricordo che mi faceva trottare instancabilmente sulle ginocchia aguzze. Dino veniva a pranzo da noi sei o sette volte l'anno. Papà ci teneva molto; faceva un pezzo di strada in più per andare ad invitarlo nella sua bottega di barbiere. Per noi ragazzi, Mike e Tony, Clara ed io, la ragione era evidente: papà si divertiva a veder Dino al nostro tavolo perché Dino non era riuscito a sposare mammà, mentre papà l'aveva sposata. Mammà era sempre lì, entrava ed usciva dalla stanza, girava intorno al tavolo per servire il pranzo; sempre lì per ricordare a uno dei due uomini il suo trionfo, all'altro la sconfitta. Quando c'era Dino, papà manifestava una straordinaria tenerezza per mammà. Dal suo posto, fra Tony e me, i miti occhi di Dino vedevano papà abbracciare mammà ogni volta che arrivava dalla cucina con l'arrosto o i maccheroni, o altro. Oppure papà afferrava mammà e la baciava con violenza. Tutto questo era straordinario e anche disgustoso, perché papà non faceva mai queste cose quando Dino non c'era. Papà era spesso di cattivo umore; metteva il broncio per intere giornate, e dava in escandescenze per delle sciocchezze: se le uova non erano cotte abbastanza, e i fazzoletti stirati male, se mancava un bottone a una camicia, alzava i pugni al soffitto, si strappava ciuffi di capelli e urlava minacce. Se non trovava a tavola il sale e il pepe ci avvisava di solito, mammà e tutti noi, che era stufo, stufo, e ci avrebbe piantati. Eravamo abituati a queste scene e nessuno più ci badava, nemmeno papà stesso. | << | < | > | >> |Pagina 21Nell'oscurità non vedevamo la sua faccia, ma la sua sagoma nella luce del fanale era rotonda, morbida e maestosa. Tenendosi sottobraccio, papà e lei entrarono in casa. La sua vista, la prepotente bellezza di quella donna ci lasciarono sbalorditi, a bocca aperta, mentre lei ci guardava tra un balenio di denti bianchi.Papà ci presentò: prima me, poi Tony, poi Clara e finalmente Mike. Ugo guardava ridendo felice, la lingua penzoloni, ma era solo un cane e nessuno si curò di lui. Eravamo costretti ad ammirare papà; ad essere fieri di lui. Papà, anche se era un semplice muratore, non si turbava davanti a una beltà come non ne avevamo mai viste. Quando Coletta Drigo mi prese la mano e me la strinse con lunghe morbide dita mentre i grossi braccialetti d'oro ai suoi polsi tintinnavano come campanelli, fui così turbato che mi sfuggì una risatina idiota. Mio malgrado invidiai Tony. Coletta lo abbracciò affondandogli le dita nei capelli mentre se lo stringeva al cuore. Mio fratello era ubriaco di felicità, non l'avevo mai visto sorridere così. Sembrò spaventato per un attimo, poi alzò le braccia e si abbandonò languido a lei, stringendole la vita, chiudendo gli occhi sul suo petto. Mammà e Dino arrivarono dalla cucina. La faccia di mammà era dura, ma Dino sembrava preparato a tutto. Dopo essersi asciugate le mani al grembiule, mammà strinse la mano di Coletta. - Come sta? le domandò. - Benissimo grazie, - disse Coletta. - E lei signora Toscana? Mammà non rispose. Avevano all'incirca la stessa età, ma trentacinque anni potevano diventare quarantacinque se la faccia di mammà fosse stata la misura del tempo, mentre quella di Coletta ne dimostrava venticinque. Nella faccia di mammà si vedevano quattro figli, perfino Ugo si vedeva, secoli di dispiaceri, eternità di fatica, di lavoro, di angosce. Non c'era segno di figli sulla faccia di Coletta Drigo, né di dolori, né di angosce. Si vedeva invece una rara sfumatura tra la gioventù e la maturità; gioia di vivere, si vedeva, grandi città, ore felici e tutto il mondo meraviglioso, e soprattutto la sua bellezza, capelli neri, occhi neri, la pelle bianca. Se quella donna aveva in casa un animale, non era certo un cane, si pensava guardandola, ma un gatto siamese. In piepi accanto a mammà, Dino sembrava più che mai uno di noi, un fratello o uno zio, e la bellezza di Coletta Drigo ne faceva una creatura estranea, unica. Tese a Dino la mano tenendola sospesa come una molle colomba bianca, e sorrise e Dino si asciugò la palma sudata sulla coscia e prese quella mano ansante, eccitato. La strinse debolmente piegando la testa su cui Coletta poteva vedere ora la calvizie incipiente. I suoi occhi neri si spalancarono illuminandosi, come se riconoscesse Dino, come se dicesse a se stessa: «Ah, è lui!». - È un grande onore per me fare la sua conoscenza, - disse Dino. - Grazie, - disse Coletta. - Grazie Dino. Il proprio nome detto da quelle labbra gli diede coraggio. La guardò audacemente, la sua faccia e il suo corpo subirono una trasformazione, il suo sorriso esprimeva felicità. Papà si affaccendava nella stanza nervoso; cominciava ad essere convinto, si vedeva, che dopo tutto il pranzo sarebbe riuscito bene.
Offri una sedia a Coletta che si tolse la pelliccia in modo
strano come se sotto, pensai, fosse nuda. Mike e Tony ed io trattenemmo il fiato
mentre una guaina di raso nero appariva sotto la pelliccia e ci precipitammo
insieme a prendere il cappotto dalle mani di Coletta. Finì in una zuffa, otto
pugni strangolavano la pelliccia bianca e nera. Ugo affondò i denti in una
manica penzolante e tirò finché papà non fu riuscito a disserrargli le mascelle.
Portammo la pelliccia in camera di mammà e la stendemmo con amore sul letto. Poi
Mike l'afferrò per le maniche affondando il collo nell'alto bavero.
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