Copertina
Autore Massimo Felisatti
CoautoreBruno Gambarotta
Titolo La nipote scomoda
EdizioneL'Ambaradan, Torino, 2006 [1977], L'Approdo , pag. 310, cop.fle., dim. 140x210x24 mm , Isbn 978-88-89257-18-0
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe gialli
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Pagina 9

I



                                Che cos'è un essere umano
                                Perché tu pensi a lui?
                                Che cos'è un uomo
                                Per ricordarti di lui?

                                Salmo 8.5



In apparenza si era trattato di un incidente, tutti i dati combaciavano e andavano a incastrarsi l'uno nell'altro a formare una ricostruzione estremamente probabile.

È vero, non c'erano testimoni oculari, ma era l'unico neo. In compenso, il teatro dell'evento e la dinamica del fatto, come si esprimono i poliziotti nei loro verbali di ricognizione, erano incontrovertibili.

Teatro dell'evento: corso Grosseto, nel tratto che va da via Ala di Stura a piazza Rebaudengo; corso Grosseto è una strada di circonvallazione a larghissime carreggiate divise da una pedana centrale sulla quale sorgono ogni cinquanta metri i piloni in cemento dell'alta tensione.

Dinamica del fatto: poco dopo la mezzanotte un motociclista che viaggiava a bordo di una Gilera 125 vecchio modello era sbandato senza motivo apparente, forse abbagliato dai fari di un'automobile che incrociava o forse per un colpo di sonno. Fatto sta che la moto, spostandosi sempre più verso il centro della strada, aveva finito con l'urtare contro il gradino della pedana centrale.

Il conducente era stato sbalzato di sella e disgraziatamente era andato a sbattere con la testa, priva del casco protettore, contro uno dei piloni di cemento dell'alta tensione.

Verso le tre un'auto di passaggio, che procedeva a velocità moderata per la nebbia che stava calando fitta e bioccosa, illuminò dapprima la motocicletta, rovesciata sull'asfalto della pedana centrale. L'automobilista, sceso a vedere, scorse l'uomo che giaceva bocconi ai piedi del pilone, le braccia spalancate come protese in avanti, la testa squarciata. Data la sua esperienza, non gli ci volle molto a rendersi conto che era morto e che la morte doveva essere stata istantanea.

Il giornale cittadino, nel riferire la notizia, non mancò di notare una curiosa coincidenza: a scoprire il cadavere era stato il commissario capo di P.S. Giuseppe Solaro mentre tornava a casa dopo la cena organizzata dai colleghi per festeggiare la sua nomina a capo della squadra politica della Questura e l'assegnazione alla sede di Torino.

In quanto al morto, i documenti che aveva indosso ne permisero l'identificazione: si trattava dell'operaio Modesto Fusco, di anni 54, sposato e senza figli, che abitava, dopo essersi separato dalla moglie, in strada di Settimo 372.

Le prime indagini svolte lasciavano ritenere che il Fusco, terminato il suo turno di lavoro alla Grande Fabbrica, stesse ritornando alla propria abitazione. Sulle cause dell'incidente si poteva anche fare l'ipotesi che l'operaio fosse stato tradito dalla nebbia, oppure che avesse ecceduto nel bere. Secondo alcuni conoscenti, infatti, da quando era stato abbandonato dalla moglie il Fusco non era più lo stesso, si era lasciato andare, aveva cominciato a trascurare gli amici, preferendo la compagnia della bottiglia.

L'autopsia, subito disposta dall'autorità giudiziaria, avrebbe chiarito ogni dubbio e accertato se Modesto Vusco, prima dell'incidente, avesse ingerito alcolici, come tutto faceva ritenere.

Del resto, concludeva la cronaca del giornale, al fenomeno dell'alcolismo si deve quasi il 40% degli incidenti.

L'accertamento della verità aveva peraltro rilevanza puramente statistica: un incidente, uno dei tanti.


Ma non era vero che Modesto Fusco non avesse più amici. Certo, in ogni uomo c'è la solitudine, solitudine di momenti o solitudine di anni ma è difficile che non ci sia almeno un'amicizia. Carmine Guzzo, ingegnere, 28 anni, era suo amico, un vero amico.

Che un ingegnere di 28 anni abbia come suo amico un operaio di 54 anni può sembrare strano solo a chi non conosce la vera amicizia, oppure non sa come può vivere un meridionale a Torino. Benché Fusco non fosse portato alla solitudine, negli ultimi tempi si era andato un po' inselvatichendo ma era rimasto uomo generoso e disponibile. Carmine lo poteva dire: in fondo lui era molto più solo perché Modesto era il suo unico amico. Carmine era calabrese, laureato a Messina. Era partito dalla Calabria con la laurea e con la lettera di assunzione alla Grande Fabbrica, convinto che stava per cominciare a vivere la sua grande avventura. Mentre il treno lo portava verso il Nord, Carmine fantasticava su quello che sarebbe stato il suo ambiente di lavoro, i nuovi colleghi; mentalmente si preparava discorsetti di presentazione, come usano fare i timidi; lo rincuorava il pensare che Torino, come si leggeva sui giornali, era città piena di meridionali, perciò si sarebbe trovato altrettanto bene come al paese suo. Immaginava che ai primi tempi si sarebbe sistemato in una pensione rumorosa ma allegra, abitata anche da studenti, coi quali avrebbe trascorso serate intere a discutere di tutto.

Niente andò come Carmine aveva immaginato: il primo giorno di lavoro - questo gli bruciava ancora - si era avvicinato a un gruppo di nuovi colleghi radunati attorno alla macchinetta del caffè con un entusiasmo non simulato e quelli, dopo una fredda e formale stretta di mano si erano subito rimessi a parlare in dialetto, per tagliarlo fuori.

Più tignosi e scostanti erano proprio i suoi compaesani laureati al nord, che facevano di tutto per mantenere la distanza, come se fosse un peccato da far dimenticare l'essere nati al sud, e una colpa qualunque legame con i terroni e il paese loro.

Dentro e fuori del lavoro era la stessa cosa, Carmine era stato a lungo sempre solo. Aveva provato come nella città moderna "la gente si passa davanti in fretta come se non avesse nulla in comune, nulla a che fare l'uno con l'altro, e vi è solo il tacito accordo per cui ciascuno si tiene sulla parte del marciapiede alla sua destra, affinché le due correnti della calca, che si precipitano in direzioni opposte, non si ostacolino a vicenda il cammino. Nessuno pensa a degnare gli altri di uno sguardo".

L'unica cosa che gli stava sempre addosso era la nebbia, che in quel primo inverno gli si era ficcata nelle ossa e non lo lasciava mai, e aveva finito per essere una compagnia o un rifugio, dentro il quale nascondere la sua vergogna di terrone solitario.

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Però il giudice appariva turbato. Lanciò un'occhiata a Solaro, come per chiedere aiuto, ma subito distolse lo sguardo; doveva riordinare le idee.

Solaro, dal canto suo, guardava l'operaio con una sorta di divertita curiosità. Non c'era dubbio che fra il giudice piuttosto inabile e grossolano e quell'operaio sornione e astuto, il più interessante come tipo era l'operaio. Il commissario avrebbe avuto ben altre domande da rivolgergli, ma si ricordò dei consigli di prudenza e discrezione e per il momento pensò che era meglio non compromettersi.

Però quel Chirone lo interessava: chi ha mai detto che i cosiddetti semplici sono semplici?

«Permette che rivolga al teste qualche domanda?» chiese al giudice. Milanesio acconsentì, perché in fondo l'intervento del commissario lo toglieva da una situazione, diciamo così, psicologicamente difficile.

«Lei, signor Chirone, si esprime con molta proprietà. Inoltre in casa sua ha molti libri, ne ho visto un mobile strapieno. È una cosa piuttosto insolita.»

«Per un operaio, vuol dire? Se frequentasse l'ambiente operaio non si stupirebbe tanto. I borghesi non hanno bisogno di leggere; se lo fanno, lo fanno solo per il loro piacere. Sono gli operai che devono istruirsi se vogliono uscire dalla loro condizione.»

«Devo dedurre che lei è politicamente impegnato...»

«No, no. Non almeno nel senso che dice lei. Le mie letture non sono di tipo politico rivoluzionario, almeno nell'accezione comune del termine. Io credo che la rivoluzione sia prima di tutto un fatto individuale, una conquista che parte dalla coscienza...»

«Lei crede quindi di poter raggiungere una condizione sociale superiore attraverso l'istruzione» intervenne Milanesio, non proprio a proposito.

«Non si tratta della conquista di beni materiali» spiegò l'operaio «ma di una condizione interiore.»

Milanesio si convinse di avere di fronte uno di quegli esaltati da cui c'era da aspettarsi di tutto.

Solaro, invece, ci provava gusto. Aveva sempre avuto un debole per la metafisica, una di quelle aspirazioni inappagate che ci si porta dentro quando si è scontenti di sé, e capita anche a un poliziotto brillante come in fondo si riteneva Solaro. L'appassionavano quindi le discussioni teoriche, alla fine delle quali viene sempre fuori l'animus dell'uomo.

«Quindi lei non crede alla lotta di classe.»

«La lotta di classe c'è, ma io non voglio accettare la logica della lotta per la vita, fatta di tanti gradini, prima c'è il manovale, poi l'operaio, il caposquadra, il tecnico, l'ingegnere; oppure l'usciere, il maresciallo, il commesso, il rappresentante di commercio... tutta una condizione servile che mette chi la segue in trincea, in prima linea a sudare sangue per conquistare la trincea che sta appena più avanti, e tutto questo perché? Per la propria felicità? No, per fare gli interessi della borghesia che se ne sta nelle retrovie a vivere di rendita.»

«Noi siamo di condizione borghese ma nessuno di noi vive di rendita» intervenne ancora il magistrato. E rivolto a Solaro: «ci stiamo allontanando, mi pare, dal tema della nostra indagine.»

Solaro era seccato per l'intromissione del giudice. Tuttavia non voleva troncare con la discussione. Scelse una strada che gli permettesse di continuare.

«Fusto aveva idee diverse dalle sue.»

«Sì, Fusco credeva che gli operai dovessero lottare per conquistare posizioni di potere, senza rendersi conto della contraddizione, perché il potere presuppone sempre chi comanda e chi è subordinato.»

«Credeva nella lotta di classe, quindi, ma poi desiderava andarsene a vivere in campagna.»

«In questo non c'è contraddizione: finché sono sulla breccia faccio la mia parte, diceva; ma la questione del potere operaio è una questione di tempi lunghi; e quella della campagna era una prospettiva personale per quando l'età lo avesse costretto a lasciare la fabbrica.»

«Capisco» disse Solaro. «Torniamo alle sue letture. Mi ha detto che non sono di tipo rivoluzionario. Potrebbe dirmi allora di che tipo sono?»

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«Interessante» disse Guzzo, indicando il palco e alludendo a quello che si stava dicendo. «Ho visto un volantino che citava Thoreau: questa forma di disobbedienza civile a un ordine ingiusto del potere dovrebbe soddisfarla, perché corrisponde proprio ai suoi principi di non violenza. Se tutti disobbediscono, il sistema si blocca e diventa impotente.»

«Balle!» disse Chirone, con una violenza che in lui Guzzo non si sarebbe mai aspettato. «Prenda la faccenda della luce. Se vogliono, ci tolgono la luce per un giorno, due, una settimana, in casa fa freddo, gli ascensori sono bloccati, non funzionano il frigo e le televisioni. Anche i bar e le macellerie devono chiudere. Loro che ci rimettono? Ma la gente si rende conto che loro sono i più forti, e finirà col mettersi in ginocchio senza più voglia di riprovarci, a tirarsi in piedi. Vuole che glielo dica? Io non prenderò mai in mano la penna, ma se un giorno lo facessi, vorrei scrivere un nuovo Dei delitti e delle pene ma alla rovescia, con l'apologia della pena di morte. Perché io sono un fautore del ripristino della pena di morte. Non contro quei poveracci che commettono un omicidio o qualche gesto sciagurato; quelli sono pietosi casi patologici. La pena di morte la vorrei per tutti coloro che coscientemente, servendosi della ragione e dell'intelligenza, a puro scopo di lucro, compiono crimini nefandi contro l'umanità: contro gli speculatori patriottici che hanno distrutto la patria, straziato le città, reso le spiagge e il mare degli enormi immondezzai, devastati i luoghi più ameni, inquinato le acque; contro coloro che avvelenano la vita di popolazioni intere con medicine e cibi adulterati e nocivi; contro chi manovra il denaro con le speculazioni, incurante della gente gettata sul lastrico, dei bambini affamati; chi costruisce le autostrade anziché gli ospedali, i carri armati anziché le fogne, per difendere la patria da un ipotetico lontano nemico e lasciandola invece in balia dell'epatite virale e del colera... Questi colpevoli di genocidio io perlomeno mi sentirei di prenderli a calci nel culo e mandarli a lavorare in una miniera, è d'accordo? Ma capisco che sarebbe più giusto prendere una corda e spalmarla umanamente di sapone e attaccarli lì, tutti davanti ai cancelli delle fabbriche e delle scuole, a mostrar la lingua sporca a chi passa, a far tornare allegria dove prima c'era angoscia, con un cartello di plauso sotto il quale chiedere l'adesione di tutti gli uomini pacifici e veri democratici, perché credo che ci siano mille ragioni di giustizia, di umanità, di carità, che rendono sacrosanto questo gesto. La non violenza ha una stretta parentela con l'utopia, caro ingegnere, ma non con l'ingiustizia e la coglioneria.»

Chirone aveva continuato a parlare a voce bassa, ma poco a poco il tono si era fatto sempre più enfatico e concitato, gli occhi gli erano diventati fissi e umidi come se qualcosa dentro lo illuminasse: "un fanatico" pensò Guzzo. Ma con un indubbio fascino.

Gli venne anche da pensare alla propria fragilità, perché si rendeva conto di come si lasciasse facilmente suggestionare e trascinare, ieri per un sorriso di Cecilia già si sentiva disponibile per il partito dell'ordine, oggi, ascoltando Chirone, poteva essere convinto che dopotutto se non si faceva una bella pulizia non si sarebbe più usciti dal pantano. Le forche, addirittura!

Ma la ragione vera non era neppure nella sua volubilità, è che le cose che uno vorrebbe fare perché gli sembrano giuste non le può fare, e allora a furia di adattarsi finisce come tutti, una puttana che purché abbia la sua paga e lo lascino in pace fa tutto quello che gli dicono.

«Questi sono discorsi che non servono a nulla» disse a Chirone. «E lei lo sa bene. Sarebbe molto più utile, anziché parlare a vanvera, sapere come funzionano queste spie al laboratorio prototipi e se c'entrano in qualche modo con la morte di Fusco.»

«Utile a che?» gli chiese Chirone.

E Guzzo non poté non pensare che la risposta più ovvia "utile alla giustizia" non aveva senso. Di fronte alla giustizia apocalittica di cui parlava Chirone, si sarebbe trattato di una piccola, forse inutile giustizia.

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Pagina 174

Si rese conto definitivamente che anche fra i reietti era fuori posto quando varcò la soglia della sala d'aspetto, ciancicando il suo biglietto nella mano sinistra. Tutte le panche erano occupate; per trovare un posto possibilmente comodo bisogna venirci presto: qualcuno c'era venuto addirittura con la sportina della cena, che teneva ben protetta fra i piedi. In un angolo due stavano litigando, perché uno appena arrivato pretendeva da un altro, che si era sistemato più comodo, che si stringesse e gli facesse posto.

Altri si erano già messi per terra; qualcuno si era portato dei panni, un vecchietto perfino un cuscino.

Quando aveva deciso di fare il biglietto Guzzo si era sentito nell'animo uno di loro, ripudiando la sua camicia bianca, il suo appartamentino inodoro, insaporo, la sua qualifica di ingegnere; ma la realtà è diversa. Intanto da quel groviglio di corpi emanava un odore rancido di pelle mal lavata, di sudore rappreso, un afrore rodente di cattivo tabacco. E si sentì respinto.

Tornò indietro fino alla tabaccheria che stava chiudendo, per comprare delle sigarette. Avrebbe potuto cercare un taxi, forse non era impossibile. Ma sul lato arrivi della stazione non ce n'erano. L'unica cosa possibile, a questo punto, sarebbe stata avviarsi a piedi, per tornare a casa, navigando nella nebbia per quattro, cinque, sei chilometri, per quanto era lunga via Nizza, col rischio di perdersi mentre era praticamente da scartare la possibilità di incontrare prima o poi un taxi vuoto o qualche automobilista pietoso, e coraggioso, disposto a fermarsi e a dargli un passaggio. Stette a pensarci un po', poi si decise ad avventurare i primi passi per attraversare via Nizza e raggiungere i portici, ma s'accorse con uno stupore quasi ilare che le gambe non lo reggevano più. Si appoggiò a un pilastro della stazione e ridacchiando tra sé cercò di fare un approssimativo esercizio di respirazione: pensava che forzando l'ossigeno a entrare nei polmoni si sarebbe svegliato e le forze che avevano inspiegabilmente abbandonato le sue gambe se ne sarebbero ben presto tornate. Ma il tentativo lo faceva ridere e nel riso se ne andavano le sue poche forze. Il pensiero poi di cosa sarebbe successo se la pattuglia della polizia ferroviaria l'avesse trovato in quello stato, raddoppiò la sua euforia. Decise che oramai non doveva più raggiungere la sua casa. Se era un vero uomo, e su questo punto in quel momento non aveva dubbi, doveva affrontare quella situazione fino in fondo.

Rientrò nella sala d'aspetto e andò a sedersi per terra, in un angolo per evitare gli spifferi d'aria delle porte che ogni tanto si aprivano e si chiudevano.

Furono ore senza storia. Si tolse la cravatta, per ovviare almeno alla più vistosa delle anomalie. Cercò di fumare, ma buttò quasi subito la sigaretta, aveva già la gola irritata e poi non era un fumatore.

Arrivò un treno, chissà da dove, e intravide lungo il marciapiedi una frotta di gente che si affrettava verso qualche parte. Entrarono anche in una decina nella sala d'aspetto, due ragazzi il cui viso era quasi per intero invaso da un compatto pelo nero, barba, baffi, capelli, perfino gli occhi sembravano sepolti dalle sopracciglia. Portavano entrambi un eskimo di tela verde imbottito di pelliccia bianca, sintetica, e sulle spalle una specie di sacca a zaino: l'unica differenza consisteva nel fatto che uno era alto e massiccio, di corporatura bovina, e l'altro smilzo e affilato.

Poi c'era un vecchietto bianco di pelle e di capelli che portava uno scatolone di cartone legato con uno spago "alla sua età, in giro a quest'ora per una città che non è la sua!" pensò Guzzo.

Visto che non c'era posto, alcuni dei nuovi venuti si sistemarono per terra, altri se ne andarono.

Per due volte venne anche una pattuglia della polizia ferroviaria, a svegliare chi dormiva per controllare se era in regola con il biglietto; quel fiscalismo crudele doveva del resto essere una abitudine, perché nessuno protestò.

Si assopì anche, per un po' di tempo. Scivolò nel sonno insensibilmente, e fu un sonno pesante, senza sogni; quando si risvegliò fece fatica a rendersi conto, e anche aveva la sensazione di avere dormito un'eternità, si sentiva sveglio, vivo, pieno di rabbia.

Guardò l'orologio: erano poco più delle due, aveva dormito sì e no un'ora.

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