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| << | < | > | >> |IndicePremessa 7 I. I sentieri dell'alcol 11 1. Noè, Quetzalcóatl e Geronimo 11 2. Definizione 15 3. Quanto è grave ubriacarsi? 18 4. Il ruolo mistico del vino e della chicha 24 5. L'acqua fa male 27 6. Bevute tedesche 30 II. Prima di noi. Descrizioni europee e abitudini indigene 39 1. I documenti 39 2. Le bevande 49 3. La funzione sociale e religiosa dei fermentati 57 III. Dopo di noi. Pratiche nuove, costumi modificati 71 1. L'alcol che arriva dall'Europa 71 2. I profeti 78 3. Bere diversamente: coloni e colonizzati 86 IV. Ubriachi delinquenti, ubriachi peccatori 93 1. Ma perché? 93 2. La punibilità 100 3. Ubriachi senza Dio 106 4. Ubriachi senz'alcol 114 V. I luoghi dell'alcol 119 1. Taverne nell'America spagnola 119 2. Taverne in Europa 123 3. Taverne nell'America britannica 127 Epilogo 140 Bibliografia 145 Indice dei nomi 167 |
| << | < | > | >> |Pagina 111. Noè, Quetzalcóatl e Geronimo Da che mondo è mondo gli uomini fanno i conti con l'ubriachezza, quantomeno fin dai tempi di Noè. Narra infatti il libro della Genesi che, finito il diluvio, Dio ordinò al vecchio patriarca (era il suo seicentunesimo anno di vita) di uscire dall'arca assieme alla moglie, ai figli Sem, Cam e Iafet con le proprie spose e a tutti gli animali che vi avevano trovato riparo. Stretta l'alleanza con Dio, stabilita quella con i figli, i loro discendenti e tutti gli esseri viventi, Noè cominciò a preoccuparsi attivamente di un sostentamento di qualità. Da buon coltivatore della terra quale era, iniziò piantando una vigna. Dalla vite al vino il passo è breve: ignaro dei possibili effetti di quanto aveva creato, cadde ubriaco e si addormentò nudo nella propria tenda. Cam lo vide, raccontò la cosa ai fratelli e loro per non vedere il padre senza veli lo coprirono con un mantello camminando a ritroso. Svegliatosi, Noè seppe di Cam, non la prese affatto bene e maledisse Canaan, figlio di Cam, condannandolo a essere schiavo dei cugini. Tutto perché il padre aveva visto quello che non si poteva vedere. Il patriarca non ebbe ripensamenti nei trecentocinquant'anni che gli restavano da vivere (Gen 9, 20-27). Al loro arrivo in America gli europei si trovarono davanti a enormi problemi concettuali: tra i maggiormente dibattuti quello relativo all'origine delle popolazioní indigene. Una delle risposte più diffuse – almeno nella prima stagione della conquista – fu che si trattasse proprio dei discendenti di Canaan, condannati dunque a una vita di servitù. Pure dall'altra parte dell'Atlantico, però, il rapporto con l'ubriachezza poneva delicate questioni di interpretazione della religione. Secondo quanto ci racconta il francescano Motolinía (al secolo Toribio de Benavente, 1482-1568), uno dei dodici padri della missione cattolica in Messico, gli indios della Nuova Spagna discendevano tutti dal grande signore Iztac Mixcoatl (Bianco Serpente di Nuvole) e dai suoi sette figli, destinati a regnare ciascuno su di una diversa tribù: una discendenza paragonata dal francescano a quella di Noè. Il settimo figlio di Iztac, Quetzalcóatl (Serpente Piumato), uomo onesto e temperato, non si era sposato e aveva scelto la vita casta: era un re-sacerdote. Questo almeno finché i suoi nemici, i toltechi, non organizzarono un raggiro per destituirlo. Quetzalcóatl giaceva ammalato nel suo palazzo, quando sotto mentite spoglie gli si presentò Tezcatlipoca, il dio venerato dai toltechi. Offrì una medicina all'infermo che, dopo vari tentennamenti, accettò di berla. Altro che farmaco, si trattava in verità del pulque, bevanda alcolica ricavata dalla fermentazione dell'agave. Compiaciuto del gusto di quanto gli era stato offerto, il re bevve fino a ubriacarsi e, sotto l'effetto dell'ebbrezza, sedusse una sacerdotessa, perdendo così la castità pretesa dal suo doppio incarico (e da sé stesso). Rinsavito, Quetzalcóatl fu travolto dal senso di colpa e dalla vergogna, ma non maledisse nessuno se non sé stesso: abdicò immediatamente, decidendo anche di lasciare il proprio dominio di Tula, seguito da chi gli volle rimanere fedele. Se ne andò verso oriente, secondo una versione del mito attraverso il cielo, a sentire un'altra, invece, navigando sul grande mare. Promise però che un giorno sarebbe riapparso, avrebbe recuperato il proprio trono e consentito ai sudditi di vivere in pace. Venuto a conoscenza di questa credenza, il conquistador Hernán Cortés (1485-1547) ne avrebbe tratto giovamento, alimentando la voce indigena che lo ritraeva proprio come la personificazione di Quetzalcóatl, alla fine decisosi a tornare. Le storie di Noè e Quetzalcóatl ci mettono di fronte a diverse questioni legate all'interpretazione sociale, culturale e religiosa dell'ubriachezza: è degradante, disumanizzante; conduce al peccato (specie quello legato alla lussuria), ma anche al delitto vero e proprio; può essere conseguenza dell'ignoranza o dell'inganno. Molti sono gli aspetti ulteriori, da tenere presenti in un ragionamento sull'ebbrezza: il suo legame con le feste, la tolleranza e la condanna, i luoghi, pubblici o privati, nei quali il consumo diviene abuso. C'è ancora qualcosa di importante da mettere in evidenza: Noè e Quetzalcóatl sono vittime di sbronze inconsapevoli e occasionali, a nostro sapere mai più ripetute. Le cose però non stanno sempre così e nel racconto dell'incontro tra il Vecchio e il Nuovo Mondo sono molto più frequenti le relazioni di ubriachezza abituale, quella che lingue differenti dall'italiano designano con un termine ad hoc: ivrognerie il francese (diversa dalla semplice ivresse); ebriositas il latino, quello giuridico in particolare (non una innocente ebrietas); borrachera anziché embriaguez lo spagnolo. Fermiamoci qui e lasciamo parlare l'esempio, preso ancora una volta dalla storia americana, continuando quel viaggio tra mondi destinato a diventare familiare con lo scorrere delle pagine. Lo sanno bene i lettori di Tex Willer: tra i suoi nemici più odiati vi è il contrabbandiere di whisky, quello disposto a vendere alcol agli indiani per renderli dipendenti e per togliere loro la dignità. Come spesso accade nelle storie del ranger del Texas, c'è più di un fondo di verità. L'alcol fu effettivamente un'arma usata in vari contesti bellici, anche contro i nativi americani, lo dimostra tra gli altri il caso di Geronimo (1829-1909), l'apache arresosi per ultimo all'esercito degli Stati Uniti. Ormai vecchio e provato, rinchiuso nella riserva, dopo la capitolazione definitiva il condottiero viveva stancamente. Il giorno 11 febbraio 1909 si industriò in uno dei piccoli commerci che lo aiutavano a sbarcare il lunario: vendette degli archi e delle frecce e con i proventi chiese al giovane amico Eugene Chihuahua (1881-1965) di procurargli del whisky. A sua volta, questi diede il denaro a un soldato: era costretto a rivolgersi ad altri perché la legge proibiva agli apache di acquistare liquori. Saziatosi di alcol, Geronimo montò a cavallo dirigendosi verso casa, ma, poco prima di arrivare, vinto dall'ubriachezza cadde e rimase a terra nel gelo notturno. Lo ritrovarono l'indomani mattina: quella che sembrava un'infreddatura degenerò presto in polmonite e all'alba del 17 febbraio Geronimo morì. Con lui scompariva, simbolicamente, la storia della resistenza indiana all'avanzata dell'uomo bianco, fatta fuori dal «puro veleno», avrebbe chiosato Tex Willer. Nei capitoli seguenti racconteremo proprio quella storia dell'ubriachezza, che possiamo far iniziare con Quetzalcóatl e terminare con Geronimo. È la storia di un incontro, quello tra gli europei e i popoli insediati nel continente americano prima del loro arrivo, analizzata attraverso le bottiglie, potremmo dire, con gli occhi rivolti a quelle bevande, fermentate o distillate, spesso assunte senza moderazione. O almeno, questo è quanto si pensava nel Vecchio Mondo. | << | < | > | >> |Pagina 275. L'acqua fa maleUn vecchio adagio diffuso in gran parte d'Italia è: il vino fa sangue e fa cantare mentre l'acqua fa male perché arrugginisce. Al di là delle motivazioni dell'affermazione, vi è al suo interno una radice storica: per secoli si ritenne l'acqua una bevanda malsana, dannosa per la salute, al contrario di fermentati e distillati, buoni per disinfettare ma anche per nutrire e medicare. Si pensava gli alcolici potessero pure combattere tensione e depressione, alzi la mano chi non ha mai sentito dire: una buona sbornia è un ottimo rimedio alle delusioni d'amore, solo per fare un esempio. Paolo di Tarso (5/10-64/67), nella Prima Lettera a Timoteo (17 circa-97) dispensò parecchi consigli al più giovane discepolo, tra questi gli intimò di smettere di bere soltanto acqua e di iniziare a usare il vino, così da risolvere i suoi frequenti mali di stomaco (1 Tm 5, 23). Certo, la moderazione prima di tutto, se è vero che sempre a Timoteo Paolo nell'elencare le qualità del vescovo sottolineò: Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro (1 Tm 3, 2-3). | << | < | > | >> |Pagina 48I racconti dei colonizzatori non sono l'unica fonte che ci consente di affermare la rilevanza delle bevande fermentate nel periodo antecedente l'arrivo degli europei nelle Americhe. Per la regione andina a rinforzare l'opinione dei primi cronisti arrivano anche i dati archeologici. Essi rivelano come la maggioranza dei recipienti di uso quotidiano utilizzati per bere contengano tracce di alcol, mentre i luoghi dei ritrovamenti e la loro collocazione spiegano la funzione rituale degli alcolici. Conferme arrivano anche da testimonianze pittoriche e analisi isotopiche sui resti umani, pure queste ultime infatti certificano il consumo di liquori fermentati. La sempre maggior definitezza di simili ricerche riesce addirittura a proporre una sorta di cronologia alcolica del mondo andino: a una fase in cui prevalsero sostanze allucinogene ed eccitanti non alcoliche, seguì probabilmente un periodo (200 a.C.-600 d.C.) in cui i liquori assunsero un'importanza crescente, divenuta fondamentale nei secoli ancora successivi, fino all'incontro con gli spagnoli, destinato a scompaginare ogni tradizione.I documenti raccontano che se nell'America iberica si padroneggiavano le tecniche della fermentazione, lo stesso non avveniva nella parte settentrionale del continente. Questo accadeva soprattutto nei territori della costa nordorientale, mentre altrove non solo si conoscevano gli alcolici, ma li si utilizzava anche in occasioni rituali. Per tale ragione il capitolo dedicato alle bevute precoloniali privilegerà inevitabilmente i popoli dell'America centromeridionale. In ogni parte del Nuovo Mondo invece la distillazione era del tutto sconosciuta e fu introdotta dai coloni. La sua origine viene fatta risalire agli alchimisti greci attivi ad Alessandria intorno al primo secolo dopo Cristo. Tracce archeologiche lasciano intendere come la pratica fosse nota anche in Cina, più o meno nello stesso periodo, in particolare durante la dinastia Han orientale (25-220 d.C.). Le evidenze si fanno numerose per la Cina a partire dall'VIII secolo, mentre in Europa una distillazione massiccia è testimoniata solo dal Duecento, all'interno della Scuola Medica Salernitana. La parola alcol deriva dall'arabo al-kuhl, termine usato per indicare un prodotto della chimica di base, una polvere finissima e depurata, utilizzata per curare gli occhi o per cosmetica. Il vocabolo passò poi a descrivere una sostanza purissima, un'essenza di qualcosa tendente alla sublimazione, ed è proprio in quest'accezione che è stato adottato negli idiomi europei. La prima occorrenza in lingua inglese, per esempio, risale al 1543 e si utilizzava per definire un estratto ottenuto per riscaldamento da sostanze chimiche. Solo dopo qualche secolo la parola assunse uno specifico riferimento ai frutti inebrianti della fermentazione e della distillazione. | << | < | > | >> |Pagina 64Gli esempi in tema si possono moltiplicare: anche Garcilaso parlava delle libagioni della cultura inca, specificando come fossero seguite da eccessi sessuali, sodomia, promiscuità incestuosa e adulterio. José de Acosta denunciava: gli uomini ubriachi potevano commettere crimini terribili; non rispettavano le donne, non ci si accorgeva della propria madre, non c'era differenza tra coniugi e gli appetiti sessuali venivano sfogati anche uomo con uomo. Erano queste parole dettate da esperienze di prima mano o narrazioni costruite sulla base di pregiudizi?Informazioni simili mettono in evidenza due argomenti fondamentali per la comprensione della società coloniale e della sua componente religiosa-moraleggiante in particolare. Il primo richiama l'impossibilità, probabilmente anche la scarsa volontà degli evangelizzatori di capire i costumi di una cultura totalmente altra; il secondo invece ci consente di identificare nella perdita dei freni inibitori in occasioni ufficiali una fuoriuscita, legittima e riconosciuta nella civiltà andina, da condotte abitualmente proibite. I comportamenti legati alla ritualità precoloniale, infatti, erano accettati come valvola di sfogo delle pulsioni a rischio di minacciare l'ordine stabilito. Le occasioni di ubriachezza costituivano momenti di licenza nei quali era possibile tenere un comportamento contrario alle norme sociali, che se non fosse stato controllato avrebbe potuto rivelarsi pericoloso per l'ordine stabilito. L'analisi è molto prossima alla lettura antropologica contemporanea, anche se in tale discorso la sessualità ricopre un ruolo molto meno esplicito e si punta piuttosto a un sovvertimento di certi ordini sociali, alla rottura delle gerarchie, all'acquisizione di spazi di libertà. L'insegnamento della Chiesa cattolica mirava a combattere queste devianze dalla propria morale non solo attraverso catechesi e predicazione, ma anche con l'imposizione di comportamenti sobri e moderati, uno tra tutti il digiuno. Lo esplicitava l'opera del medico Juan de Cárdenas (1563-1609), pronto a spiegare come l'istituzione del digiuno in terra andina rincorresse tre diversi obiettivi. Il primo: l'uomo doveva soffrire fame e sete, in forma di penitenza per colpe e peccati. Il secondo: le privazioni non avevano da essere dannose per la salute del corpo (di qui l'esenzione per chi éra troppo giovane o troppo vecchio). Il terzo, quello che più ci interessa in questa parte del discorso: andavano repressi ardore e forza della carne e della sessualità; l'astinenza dal cibo e dalle bevande indeboliva, di conseguenza si riduceva l'appetito sessuale e donne e uomini erano meglio disposti a contemplare e servire Dio. Ancora una volta, gli eccessi della tavola venivano connessi a quelli della copula. | << | < | > | >> |Pagina 88La storia delle colonie atlantiche è segnata dall'alcol fin dal viaggio della Mayflower (settembre-novembre 1620), la nave che portò dall'Inghilterra i propri 102 passeggeri a stabilire il primo insediamento europeo dell'America del nord. Il carico dell'imbarcazione prevedeva una grande quantità di birra, utile anche ai bambini per sostituire l'acqua soggetta a imputridirsi facilmente. Approdati a Cape Cod, poi ribattezzata Plymouth, i padri pellegrini edificarono molto presto un birrificio e una taverna. La bionda bevanda era un regalo di Dio e come tale andava trattato, godendone nella misura opportuna. Il pericolo dell'eccesso era però dietro l'angolo e nel 1635 fu sancita dal tribunale di Plymouth la prima condanna contro l'ubriachezza. Era l'inizio di una lunga storia. Nonostante i provvedimenti tesi a limitare la diffusione dell'alcol, non ci si allontanò dalle abitudini del Vecchio Continente, anzi, le dosi quotidiane aumentarono e fermentati e distillati entrarono a far parte del panorama coloniale. Il marinaio inglese Thomas Walduck, vissuto tra Sei e Settecento, fu un grande conoscitore delle Indie occidentali, le cui coste percorse in lungo e in largo, spingendosi anche a sud. In una lettera scritta nel 1708 a un nipote residente a Londra, con felice sintesi Walduck segnò le differenze dell'altro mondo:In tutti gli insediamenti impiantati dagli Spagnoli, la prima cosa che essi fecero fu costruire una chiesa. La prima cosa che fecero gli Olandesi nel fondare una nuova colonia fu costruirsi un forte, ma la prima cosa fatta dagli Inglesi, nella più remota parte del mondo, come tra gli Indiani più selvaggi, è aprire una taverna o un locale dove bere. Torniamo a George Washington, che nella sua prima discesa nel campo politico non ebbe successo: nel 1755 si candidò per un seggio nell'assemblea della Virginia, ma uscì sconfitto. Due anni dopo ebbe un colpo di genio, paragonabile a quello di lanciare un messaggio attraverso le proprie reti televisive unificate. Investì del proprio e acquistò 144 galloni (545 litri circa) tra rum, punch, sidro e vino. Inviò i propri sostenitori nelle piazze e li spinse a dialogare con l'elettorato offrendo un cicchetto dopo l'altro. Washington fu eletto. | << | < | > | >> |Pagina 931. Ma perché? A leggere le testimonianze in nostro possesso, gli indiani dell'America nordorientale non conoscevano l'ubriachezza prima dell'incontro con gli europei, ma non fecero alcuna fatica ad abituarcisi. Fu soprattutto l'acquavite ad attrarli, la bevanda più forte, capace di portare in tempi brevi all'ebbrezza: le relazioni degli europei della Nuova Francia sono concordi nel raccontare come l'obiettivo dei nativi non fosse affatto gustare qualcosa di buono, quanto piuttosto prendersi delle importanti sbornie. Il prete Jean Dudouyt (1628-1688), per esempio, scrisse che se otto indiani si trovavano in possesso di una modesta quantità d'acquavite, sei tra loro si sarebbero ben volentieri privati della propria razione per consentire agli altri due di ubriacarsi come si deve. Perché? Gli storici e gli antropologi che si sono posti questa semplice domanda hanno dato risposte molto diverse e, come spesso accade, non si dovrebbe andare troppo lontani dalla realtà accettando la quota di attendibilità presente in ciascuna di esse, senza attribuire a nessuna la verità assoluta. Le prime opinioni misero in collegamento il notevole aumento del consumo alcolico nell'Europa dei secoli XVI e XVII con il crescere delle tensioni sociali e della povertà, basandosi su quello che è stato definito «il modello della fuga dal disagio», utilizzato anche per spiegare l'attitudine all'ubriachezza dei popoli amerindi in epoca coloniale. Abbandonarsi all'alcol fu giudicata anche una causa della crisi demografica o, più in generale, dello scontro tra mondi. La gestione delle relazioni con í nuovi arrivati avrebbe portato alcuni indigeni (sia singoli, sia interi gruppi) ad arrendersi davanti all'impossibilità della convivenza e a lasciarsi andare verso una dimensione di obnubilamento e rifiuto della realtà che buone dosi di bevande o sostanze eccitanti consentivano di facilitare. Tra le popolazioni andine furono frequenti i casi di persone disposte a scegliere il suicidio e l'infanticidio per non rassegnarsi alla schiavitù del lavoro in miniera. Lo stesso meccanismo è di certo intervenuto in molti che decisero di perdere il senno o la memoria in fondo a un bicchiere, preferendo o subendo un destino niente affatto sconosciuto alle nostre società contemporanee. Come ogni modello esplicativo che si rispetti, anche questo è stato messo in discussione. Prima di tutto da studi dedicati alla Francia e alla Germania in età moderna, capaci di dimostrare come nelle taverne si bevesse non tanto per dimenticare, quanto più di frequente per fare o sentirsi parte di una certa ritualità sociale. Condividere, offrire, brindare erano tutti gesti importanti sia per stringere e rinforzare legami, sia per favorire la costruzione di identità collettive. L'interpretazione è stata confermata in seguito da ulteriori ricerche concentratesi in particolare sulle classi basse, aggiungendovi quelle inglesi, dalle quali si evince: bere in abbondanza poteva anche essere il modo per dimostrare industriosità, forza e resistenza. Ma non basta. Le élite di età moderna, comprese quelle italiane, non disdegnavano incontrarsi per bevute collettive in club esclusivi, dove celebravano le virtù del vino e il suo potenziale creativo. Pure se al tempo non si assegnava ancora il premio Nobel. Già lo abbiamo spiegato, la dominazione coloniale aveva cercato di smantellare il sistema di credenze che attribuiva origine divina all'ubriachezza controllata e ai suoi effetti. Pulque e chicha furono così indotte a perdere il proprio carattere sacrale per assumerne uno individualista e mercantile, volto a stimolare il consumo personale dietro pagamento di un corrispettivo. Questo causò un vero e proprio stravolgimento: i nuovi venuti negavano non solo il valore religioso dei fermentati, ma spesso anche le loro proprietà medico-terapeutiche, facendosi beffe del sapere tradizionale. Non potevano togliere di mezzo gli effetti, rilassanti o ottenebranti a seconda della quantità di consumo, capaci di fare degli alcolici un luogo di rifugio o di ricerca di un universo in via di smantellamento. Pure in questi termini storici e sociologi spiegano la grande fortuna di sostanze inebrianti ed eccitanti nelle società indigene dopo la colonizzazione, tornando al modello della fuga dal disagio, ma connotandolo di un significato anche spirituale: non tanto dimenticare, quanto piuttosto ricordare. I rituali degli anni precedenti la conquista, così incomprensibili agli occhi di cronisti e missionari, erano caratterizzati — almeno per le regioni messicana e andina — da un significato religioso e da una concezione di moderazione poco familiare agli europei: sbronzarsi sì, ma solo in determinati contesti e a precise condizioni. Perché abbandonarli? L'ubriachezza indigena pertanto poteva servire a difendere la cultura del passato, in opposizione alle pretese moraliste dei nuovi venuti, davanti ai quali l'alcol aveva la capacità di contribuire ad affermare le tradizioni costitutive della propria identità. | << | < | > | >> |Pagina 99Concludendo la complessa risposta alla semplice domanda del perché gli uomini in generale e le popolazioni amerindie in particolare fossero e siano così facilmente attratti dall'alcol, non dobbiamo lasciare da parte il piacere. Come scrivono Alberto Capatti e Massimo Montanari in La cucina italiana, infatti, anche il gusto è un prodotto della storia. Noi non siamo certo in grado di ricostruire l'esperienza individuale dell'irochese per la prima volta di fronte all'acquavite, possiamo però riconoscere la cultura che lo spinge a determinare cosa sia buono o cattivo da mangiare, nel nostro caso da bere. È quanto fece con mirabile spirito critico John Heckewelder al principio dell'Ottocento, ponendosi la nostra stessa domanda: perché gli indiani si appassionarono così tanto alle bevande alcoliche? Ricordando come la sua analisi fosse riservata alle tribù della costa nordorientale, seguiamone il ragionamento. Premettendo un «forse» e un «io credo», Heckewelder collegò la preferenza per gli alcolici alla dieta caratterizzata dall'uso di frutta e verdura fresche. Specie se consumate per lo più senza sale, queste a lungo andare provocavano il desiderio di qualcosa di più saporito. Di qui l'attrazione indiana per sostanze acide come l'aceto, i lamponi (dei quali erano ghiotti tanto da impegnarsi in lunghi viaggi pur di trovarne un'adeguata scorta) e altri frutti dal sapore aspro o comunque forte, di qui anche la conservazione del poco sale disponibile alla stregua di un minerale prezioso. Ma cosa c'è di più forte di un distillato? Proviamo a pensare alla sensazione lasciata da una grappa bella carica tracannata tutta d'un fiato... non ci lascia forse l'amaro in bocca e la necessità di fare una linguaccia, accompagnata magari da un prolungato «aaaahhhh». Lasciando spazio ai ricordi personali, torna alla memoria l'esperienza del raki, il liquore turco all'anice, gradazione minima 40°, che di solito si diluisce con acqua. Un amico (si dice sempre così, ma talvolta è addirittura vero) ne butta giù un bicchiere, impassibile, guarda con sospetto l'acqua servita assieme al raki, perplesso la beve e solo dopo aver gustato il forte sapore dell'acqua si lascia andare a quell'«aaaahhhh» appena ricordato. Perché, in fin dei conti, l'acidità non è mica uguale per tutti.
Se parliamo di gusto, dobbiamo tenere conto
dell'opinione di Jean Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826), comunemente
riconosciuto come il fondatore della gastronomia moderna. Nel suo best-seller
ottocentesco
La fisiologia del gusto,
egli si occupò tra le altre cose delle bevande forti, il cui desiderio — scrisse
— accomunava tutti gli uomini, compresi «quelli che si
è convenuto chiamare selvaggi». E poi: «L'alcol è il
monarca dei liquidi e porta all'ultimo grado l'esaltazione del palato», le
bevande nate grazie all'arte della
distillazione «hanno aperto nuove fonti di godimento».
Ma vi era il rovescio della medaglia in quanto l'alcol,
aggiungeva Brillat-Savarin, «è diventato tra le nostre
mani pure un'arma formidabile, poiché le nazioni
del nuovo mondo sono state domate e distrutte più
dall'acquavite che dalle armi da fuoco». Eccolo qui, il
sacro dono della sintesi.
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