Copertina
Autore Leo Ferlan
Titolo La geometria dei sentimenti
SottotitoloLettere d'amore
EdizioneTerre di mezzo, Milano, 2009 , pag. 300, cop.fle., dim. 11,5x16,5x2 cm , Isbn 978-88-6189-076-3
LettoreElisabetta Cavalli, 2010
Classe biografie
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Pagina 5

Alger, 17 ottobre 1952

Gentilissima signorina,

la sua mi mette in un curioso e piacevole imbarazzo, e non so davvero, in fede mia, per che verso incominciare a risponderle.

Penso che convenga semplicemente riprendere gli argomenti così, come Lei me li mette davanti.

Innanzitutto, non deve credere ch'io sia un tipo buono, altruista e generoso, come Le hanno detto. Ho, invece, un caratteraccio rancido, e mi dicono un po' misantropoide; faccia conto, un vecchio ventiquattrenne, un tanto ridicolo. Non creda proprio alle fiabe gentili che Edi Le racconta.

Ho riflettuto su quanto Ella mi domanda, ma m'accorgo di non poter esserLe utile, e me ne dolgo. Vede, non conosco e non frequento volutamente nessuno, qui, e non saprei dove pescare delle informazioni d'una certa consistenza, e che presentino qualche garanzia di serietà e sicurezza.

D'altro canto, non vedo, purtroppo, alcuna possibilità di lavoro per Lei nell'ambiente universitario, né in quello della missione scientifica di cui faccio parte. Lei dovrebbe naturalizzarsi francese, conoscere alla perfezione la lingua, e avere perlomeno delle buone conoscenze di biologia generale e fisico-chimica. Io stesso, sono stato incaricato in via del tutto eccezionale, grazie alle raccomandazioni di uno scienziato molto noto ed influente, membro dell'Académie des Sciences, il prof. Emberger.

Mi spiace veramente. Creda comunque, che se dovesse presentarsi la possibilità di sapere qualcosa, La terrò informata. Le confesso, però, che le probabilità sono debolissime.


Non ci sarebbe altro da aggiungere, ma la Sua lettera è tanto gentile da cavarmi di bocca dell'altro. Ad ogni modo, non se la prenda col tono dei miei discorsacci. Le ho detto: ho un caratteraccio irrancidito.

Vediamo: dove diavolo radica il suo malcontento, Miriam? È importante che Lei riesca a rendersene conto.

Vede, andarsene, è un'illusione. In nessun luogo è dato di ricominciare veramente. Si può, tutt'alpiù, modificare gradualmente l'impostazione, questo sì, ma non è tanto questione di luogo, quantoppiù d'impegno; due vettori, chiamiamoli così, che non hanno nulla in comune, né direzione, né forza, né risultante.

Dopotutto, Lei ha una casa, una famiglia come non ne ho viste molte. Ne renda grazie, Miriam, poiché non è cosa da poco, e non si ottiene così, in quattro e quattr'otto. Anzi, non si ottiene affatto; è una fortuna che si constata, e basta. Ci pensi, e s'accorgerà che non pochi dei nostri rimpianti ce li impastiamo noi stessi, quasi inconsciamente. Si guardi in giro: quanti umani l'invidierebbero!

Ma quand'anche Lei volesse credere che partire possa pur tuttavia significare andare verso il meglio, può credermi, che ci sono altre soluzioni, meno drastiche ed azzardate, e certamente - guarda paradosso -, più radicali.

Se ho ben afferrato, Lei dovrebbe evadere non da casa, da Udine, dall'Italia, ma piuttosto da quella Sua scontentezza. Bisognerebbe diagnosticare esattamente la natura di questa Sua scontentezza ch'Ella sente e dice profonda. La scontentezza non è il male, ma una semplice manifestazione di quello; un po' come la febbre: bisogna vedere cos'è che la produce. Allora, e solo allora, è possibile metter mano a un buon rimedio.

Io immagino che la sua è noia, e della peggior specie. Perciò, si dia un'occupazione, s'interessi a qualcosa, a qualcuno. Lei non è certamente tanto scettica da non poter trovare una sola ragione d'interesse in una qualche attività, né tanto insensibile da non trovare qua o là nulla di bello o di piacevole. Si scelga una buona amica, una confidente; legga roba buona e sostanziosa; scriva; faccia delle pitture; ascolti musica buona; lavori; prenda, per esempio, i ragazzi della Sua classe come creaturè singole, complesse, da comprendere, una per una, e non come scolari anonimi da ammaestrare per forza e senz'amore.

O dell'altro ancora, non saprei. Credo che non potrà mancare di trovare infine un polo d'attrazione.


Comunque, non ho riso della Sua lettera. Si rassicuri.

Concludo. Come ha visto, non ho potuto aiutarla, e mi rincresce, sinceramente. M'auguro di poterle essere utile in un'occasione più fortunata.

Mi creda Suo devotissimo

Ferlan Leo

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Pagina 8

Alger, 28.10.1952

Gentilissima Signorina,

non le sto a dire il grandissimo piacere che m'ha fatto la Sua lettera. Lei può benissimo ritenerla "insulsa", ma dovrà però riconoscermi il diritto di giudicarla per conto mio in tutt'altro senso. Insulso, per me è sinonimo d'inutile. Una lettera è insulsa solo se perfettamente inutile, se non risponde, cioè, né ad uno scopo, né ad un bisogno, né ad una simpatia, né ad una convinzione d'intenti.

"Caro signor X, qui piove. Io sto bene e le auguro altrettanto. Saluti a lei e famiglia, suo Y": un prototipo comico di lettera insulsa. Si riconoscono anche, perché finiscono invariabilmente e giuste giuste in fondo alla pagina. Come se le cose e i casi da raccontare fossero standardizzati e assolutamente prestabiliti.

Uno che scrive lettere insulse non giudicherà mai sufficiente fermarsi a mezza pagina, e mai necessario aggiungere un foglio in più. Le Sue non sono lettere di "politesse", e perciò non possono essere insulse.

Mi spiacerebbe però non poco che l'opinione che Ella ha delle Sue lettere dovesse impedirle di "disturbarmi" ancora, come Lei conclude. Non è un disturbo che Lei m'arreca, ma un piacere, e più grande assai di quel che Lei non possa immaginare. Del resto non Le ho risposto per una sorta di dovere: ho uno spirito troppo orgoglioso e ribelle per piegarmi a necessità così minute. Le ho risposto semplicemente, perché il Suo modo gentile e intelligente m'ha colpito.


E passo ad altro.

No, non mi occupo seriamente di psicologia. Ho letto una bella fila di opere e trattati, soprattutto Durkheim e James; ma non mi riesce di credere che si possa squartare semplicisticamente un uomo, tagliarlo in pezzettini e classificarlo per caselle, - qui l'emozione, lì la tendenza, laggiù le sensazioni, e così via -, senza strozzarne miseramente l'unità.

L'uomo e lo schema sono un'atroce contraddizione.

Però mi piace osservare e cercar di capire gli altri. Lavoro di naso. Conto moltissimo sul fatto che nell'uno c'è sempre modo di scoprire tracce d'un altro. La società impone una serie di condizioni sensibilmente uguali per ciascuno, e mi diverte assai osservare da vicino le diverse reazioni.

No, neppure la vita dei fiori e degli animali m'aiutano a capire quella degli uomini. Nel senso fisiologico, sì, ma non nel comportamento.

M'è difficile dire come abbia fatto a capirLa, Miriam. Forse son passato anch'io per lì, o è stata un'intuizione, o un azzardo. Chissà... Ma ciò non conta.

Conta invece molto che Lei abbia preso una decisione, che abbia reagito. Ciò significa già molto. Ora, tutto starebbe a tenerla salda, a non lasciarla degenerare in altre indecisioni, al primo momento di sconforto venuto.

Faccia così: appena sente che l'ottimismo se ne va, lasciando posto ad uno scoraggiamento pessimistico, non si concentri a contemplare passivamente in Lei questa brutta metamorfosi, ma si confidi, scriva. Una tensione nervosa, una sensazione d'incompletezza, hanno la proprietà di lasciarsi deporre e neutralizzare. Perciò lo faccia.

E se può, faccia anche di più. Una decisione vuole il suo equilibrio, non può restare a mezz'aria, bisogna puntellarla, o correrebbe altrimenti il rischio di degradarsi in una fissazione insensata e assurda. Pensi al futuro. Agisca per rapporto a qualcosa, se può. Per esempio ad un suo progetto lontano che s'innesti e valorizzi la decisione che ha presa. La Sua volontà di rendersi utile e indipendente, o altro. Vedrà, Miriam, che ne avrà una forza inaspettata.

È necessario "vedere qualcosa" nella vita, scoprirle un senso. Il che significa dargliene uno. Oggidì l'anemia e la carenza d'ideali sono diventati una moda, alquanto ridicola e bestiale (esistenzialismi di vario impasto), e quasi un attributo condizionale della modernità. È beninteso che c'è pure del vero e del sincero in questa forma angosciosa contemporanea del sentirsi sperduti e inutili di fronte alla vita, ma per una donna, e per una donna intelligente e sana, la soluzione più naturale non può essere difficile: un'occupazione, una famiglia, possono diventare limiti ideali verso i quali tendere.

Tutto il segreto sta lì: tendere verso una giustificazione sensata, e non lasciarsi andare alla deriva, abulicamente.

Lei ha fatto bene a scegliere le lingue, e benissimo a scegliere, con quelle, il concorso di cui mi parla.

L'inglese e il francese potranno anche servirLe realmente, potrà leggere bellissime cose, autori realmente grandi, viaggiare con immenso profitto, senza contare gli altri innumerevoli vantaggi che Le verranno dalla padronanza di lingue tanto importanti.

Mi faccia il favore, Miriam, di contare senz'altro su di me, se le occorressero testi o libri di lettura in francese. Potrò inviarglieli da qui, o portarglieli per le prossime feste, come meglio crederà.

È tardi, e termino. Debbo ancora metter mano allo zaino e al materiale da bled. Conto levar domattina le tende per una lunga escursione attraverso le steppe e il deserto, nel sud oranese. Non sarò di ritorno che tra il 6 e il 10 del mese prossimo. Spero d'aver Sue nuove, e nuove che Le auguro e m'auguro sempre migliori.

Coraggio, Miriam!

Suo devotissimo

Ferlan Leo

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Pagina 11

Carissima Miriam,

Ho pensato che potesse farle piacere vedere in immagine un pezzettino di steppa. Così, Le invio due foto tra le molte che ho preso durante l'ultima missione nel sud oranese.

Se vuole avere una buona idea della steppa, faccia coincidere gli orizzonti in (a) e (b). Il mio non è purtroppo un obiettivo a gran angolo, e per avere un buon pezzo d'orizzonte, ho dovuto scattare due volte, verso l'ovest prima, e verso il sud, dopo.

Faccia conto che facendo tutto il giro dell'orizzonte, il paesaggio resti assolutamente uguale. Poi, che Lei si metta in marcia verso la catena di montagne che si scorge appena, sul fondo, e che, arrivata sulle cime, Lei s'accorga che al di là la steppa continua ancora, a perdita d'occhio, fino ad un'altra catena di montagne, in fondo, in fondo. E che giunta ancora una volta laggiù..., ecc.

Le piacerebbe?

Molto cordialmente

Suo Ferlan Leo

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Pagina 12

Alger, 18 novembre 1952

Gentilissima signorina Miriam,

Con dieci giorni di ritardo, è vero, ma me la sono cavata bella. M'accorgo che ho il muso ben infossato, abbronzato, le labbra screpolate dal vento, la schiena in pezzi, le mani tutte rattrappite e slogate dalla stanchezza, tanto da non riuscire neppure a tenere una penna tra le dita. Mi rassegno a scriverLe a macchina.

Sono arrivato tutto fradicio d'acqua, sporco di fango, coi capelli all'aria, carichi di mota e sabbia, che, a prima vista, Lei m'avrebbe preso per un delinquente in fuga.

Sulle steppe ho trovato per parecchie centinaia di chilometri delle piste infernali, sdruccevoli, sassose, insabbiate; ho forato quattro volte; a un certo momento tutto il carburatore s'è staccato e se non fosse rimasto sospeso penzoloni al tubo della benzina, l'avrei seminato per istrada; tra Bou-Alam e Aflou m'è scoppiata una camera d'aria e sono finito, poco graziosamente invero, lungo e disteso; a Bouktoub mi sono impantanato nella fanghiglia del Chott-ech-Chergui e ne sono sortito col motore in panna; insomma, non mi sono annoiato affatto. Ho fatto un giretto lunghetto; veda su una carta: Alger-Inkermann-Mascara-Saida-El Kheider-Gary-ville-Bou Alam-Aflou-Laghouat-Ghardaia-Djelfa-Boghari-Medea-Alger, un migliaio di chilometri...

Appena tornato, e ancor prima di prendere una doccia, un buon caffè e di liberarmi di tutti gli stracci sporchi, son corso a vedere se c'era una Sua lettera. Ci avevo pensato spesso sulla steppa.

(Però, a considerare bene la cosa, m'accorgo che la mia è una sorta d'aspettativa da ragazzino e perfettamente ingiustificata. Perché mai Lei avrebbe dovuto scrivermi, e puntualmente, e immancabilmente? Perché diavolo credere che Lei debba scomodarsi per qualcuno che potrebbe essere benissimo un semplice ed innocuo pauvre type, come dicono qui, un poverissimo diavolo da niente?)

Tuttavia è bello rimetter piede da lontano, e trovare una parola gentile, un pensiero cordiale. È una debolezza poco virile, fuor di dubbio, ma talvolta tutti ne abbiamo un vile bisogno. La solitudine è divina, ma rimbambisce spaventosamente. Fa bene parlare a qualcuno, talvolta, e fa pure bene ascoltare. Non so se Lei può afferrare, Miriam. È difficile trovare parole adeguate per dirLe il bene che m'è venuto dalla Sua lettera; difficile soprattutto se uno ha preso definitivamente in odio il modo sentimentale.


Penso che debba dirlo: crede Lei Miriam che potremmo ancora restar delusi e ripentirci della confidenza amicale accordata l'uno all'altro? Non crede che dovremmo lasciar in banda il "Lei", untuoso e in un certo modo prammatico, e passare al "tu" come fanno i buoni amici? Certo, l'uso vorrebbe che ci si conosca, prima. Per conto mio io l'ho ben compresa. Però Edi dovrebbe presentarmi a Lei, a Natale.

Ha ragione: vagabondare fa un gran bene. Naturalmente non è possibile rifarsi del tutto; non è dato di rifarsi una direzione; si può accentuare, come le dicevo, ritoccare, perfezionare, peggiorare perfino, questo sì, ma non di più.

Durante quest'ultima escursione ho preso degli appunti interessanti; serviranno a meglio ricordare quelle ore stupende. La steppa - ho girato soprattutto nella steppa, questa volta -, è qualcosa d'immenso e monotono, una plaga senza fine che pare non abbia mai incominciato e non finisca mai.

Lei corre verso l'orizzonte, ma non fa che scoprirne un altro, sempre uguale a se stesso, terribilmente vuoto, enorme. Per ore ed ore Lei non fa che passare da un Djebel all'altro, e tutt'intorno non c'è che quella strana vaiolatura di ciuffi d'alfa, di ligeo e d'artemisia, sulla terra d'un colore affocato, rubiginoso, o giallastro, o d'ocra, o violaceo, o verdastro e quasi di travertino. Si prova come una sorta di curiosa vertigine orizzontale.

S'incontra ogni tanto un gregge, qualche tenda lurida e sudicia di nomade, qualche rara carovana che viene dal nord e va a svernare nel Sahara.

Mi sono fermato a chiacchierare con degli Oulad Sidi Cheikh, nomadi del garyvillese; il capo tribù ha invitato il nostro gruppo per la primavera prossima: intende ingrassarci, dice, e farci capire cosa sia l'ospitalità, tanto cara a M'hamed e tanto grata ad Allah.


"Fortunato lei..." Sì mi ritengo molto fortunato. Innanzitutto, perché vagabondando non poche visuali s'aprono e s'allargano. Il mondo cambia aspetto a tutti i mille chilometri. O, piuttosto, siamo noi a vedere mano a mano il mondo sotto i suoi aspetti più curiosi e quasi divertenti.

"È proprio vero che sta solo in noi...", come Lei dice acutamente.

Vede, ho preso del thé alla menta, del caffè sotto delle tende di nomadi del sud oranese, ho mangiato del couss-couss con dei Kaid di villaggi berberi, mi sono divertito ad ingoiare della sc'rba nei ristoranti indigeni, mi son fatto amico di non pochi poveri diavoli di straccioni a Bab-el-Oued; così credo d'aver capito non poche cose. C'è chi preferisce le guide illustrate, precise fino al chilometro, con gli hotel ben classificati per categorie e comodità, con deliziose ed erudite descrizioni di monumenti, rovine e curiosità locali. E c'è chi preferisce invece restar ignorante, ma andar dentro nelle cose, mescolarsi, e capire così, quasi dissimulato, la vita degli altri. Sono due metodi molto differenti, quasi opposti. Direi, il metodo del "turista" e del "vagabondo nato". Io sono piuttosto un vagabondo nato. Il turista viaggia, si sposta per rapporto a qualcosa, alla patria, alla sua famiglia; per lui, tutto quello che non è compreso nel classico chez nous, è curiosità, teratologia, anomalia; per il turista non può esistere che una forma mentale, la sua, una sola serie d'usanze ragionevoli e perfette, le sue; tutto il resto non è che illustrazione, oggetto di svago, un passatempo chic, intellettuale.

Io preferisco considerare tutto il resto come forme mentali, usanze, modi di vivere, perfettamente giustificati, nemanco per ombra inferiori ai nostri; naturali, insomma, umani.

Io mi sento bene ovunque; quasi, non sono mai "lontano", poiché non riesco a trovare un punto di riferimento. Bisogna essere lontani da qualcosa, come dice Sartre, per poter affermare d'esser lontani.

E più che fare gli occhi grossi ai modi "selvaggi" degli arabi, mi meraviglio vieppiù del gran numero di piccole leggi perfettamente inutili, di cretinerie rigorosamente codificate, di regole senza senso commediate con molta convinzione da noi, "civili". Mi scapperebbe quasi di dire che La Roche-foucauld deve aver girato una bella fetta di mondo incivile.


Crede valeva veramente la pena, Miriam, d'infilare in una cornice quelle due o tre caricature? Talvolta riescono benino; soprattutto quando m'ispiro a me stesso. Ma quelle non c'entrano.


A proposito della frase ch'Ella mi riporta: "Se nella terra scura, ecc". Non è mica Salvaneschi per caso? La frase certamente bella, suona bene; solo il tono è forse un po' eccessivamente declamatorio. Il peggior difetto di Salvaneschi.

Cuore d'uomo e seme di rosa: è certamente bello, però, vede, quei tali semi danno talvolta certe bruttissime erbaccie senz'ombra di rosa; non ho ben capito cosa voglia dire l'autore con quel suo "lungo viaggio verso le stelle". Sublimazione o semplicemente vita?

Sono invece molto contento che Lei mi abbia riportata la frase. È un bel segno di spontaneità. Il che conta moltissimo, mi creda.

Le ricordo, Miriam, che Lei non mi ha detto ancora niente per i testi di francese.

A ben presto?

Suo devotissimo

Ferlan Leo

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Pagina 99

Oued Riou, 4 giugno 1953

[ ... ] Dovrei farti un lungo discorso, Miriam, quando mi parli di "destino". L'ho già fatto a Edi, l'ho fatto, anni fa, a Nerina, una buona amica che ho perso di vista. Ma non me la sento. Ti dirò solo che "destino" non significa niente. È come dire "licranetto", parola che non significa niente in nessuna lingua.

Credere nella predeterminazione assoluta è fatalismo. È il caso degli arabi. Un popolo di cenciosi, felici, ma con un ingegno d'adattabilità alle esigenze materiali e intellettuali della vita perfettamente atrofizzato. Una casa pericolante? È Allah che lo vuole, perciò non va riparata. Tagliamo un bosco e mettiamo a nudo una collina. Il clima si scatena, scava, rode, solca la collina di Oued, di chabets; ogni tanto una piena fulminea spazza un douar; sulla collina scarnificata affiora lo scheletro roccioso; il grano non viene più, tutto inaridisce. Non è il vandalismo che opera; è Allah.

Così ragionano gli arabi davanti a un ghourbi che barcolla e quando tagliano un boschetto di pini d'Aleppo. Da mane a sera, e da qualche secolo, l'arabo applica questa sciocca dialettica in tutti gli atti della sua esistenza. È il popolo fabbricatore di miserie sociali per eccellenza, e un vero e proprio "desertificatore". Tutto per quel fatalismo fondamentale.


Passiamo al cosidetto "destino". Ti accorgerai che l'idea vaga di "destino", come l'intendiamo all'incirca noi europei, è un bastardo a mezza strada tra fatalismo (determinazione assoluta, anzi, predeterminazione assoluta, dunque perfetta vanità d'ogni reazione di fronte alle offensive dell'esistenza) e indeterminazione (caso, azzardo, nulla è predeterminato, dunque libertà e giustificazione delle reazioni nei limiti delle reali possibilità e a seconda della circostanza). Ora, essendo a mezza strada, il "destino" è affare di grado; grado di credenza - coefficiente variabile di credenza, come direbbe Bouthoul -, tra due attitudini estreme: tutto è previsto, nulla è previsto. E la scelta del grado è personale e soggettiva: tutto è più o meno previsto, tutto è più o meno imprevisto. In altri termini, si tratta di una credenza irragionevole, che non possiede nulla, assolutamente nulla che le faccia da piede. Io al destino non ci credo. Non capisco cosa voglia dire esattamente "destino". La vita, Miriam, è solo parte di un sorteggio "influenzato": la nascita ci ha dato nostro malgrado una razza, una famiglia determinata, un'individualità abbozzata. Abbozzata, dico, non determinata. Perciò non credo al destino. Il novanta per cento delle circostanze ce le fabbrichiamo noi. Tutta la dignità di uomini, di uomini liberi e civili, è compresa in quella possibilità.


Amare la vita non è un sentimento senile, anzi. E men che meno un sentimento da condannati. I romantici andavano fieri di questa credenza melodrammatica.

Si ama la vita perché la vita è sacra e bella. Anche perfettamente inutile (empita fino a farla traboccare non può ancora avere un'utilità tutta sua), resta ancora sacra e bella. Alcun'altro valore va messo al di sopra della vita. Amarla è segno d'equilibrio e di pienezza d'intelletto e animo.


Brucio di rivederti, Miriam. Mi sto intossicando d'immaginazione, m'avveleno a sognare l'impossibile, l'improbabile. Mi scervello a farti parlare, a chiacchierare con te; ma quante volte, in queste fantasticherie, vado errato di contenuto e di tono? Non m'addormendo più senza pensare a te, non mi metto mai al lavoro senza aver prima cercato di pensarti qui, con me. È un vero delirio. Brucio davvero, Miriam. Ho bisogno di realtà come un annegato d'aria. Sono innamorato come un collegiale, mille volte, peggio d'un collegiale. Non posso più sopportare questa vanità, quest'assenza, questa lontananza.

Dovrò abbracciarti forte, Miriam, per convincermi che ci sei davvero, e ubriacarmi della tua presenza, del tuo sorriso vero, sentirti, ascoltarti.

Luglio è alle porte, Miriam!

Con un bacione, mille baci, e un forte abbraccio

tuo Leo

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Pagina 102

18 giugno 1953

Miriam mia,

Bussola, altimetro, bou-saâdi, casco, scarponi, sono già finiti nel sacco da montagna. I quattro libri inseparabili sono impacchettati, loro pure. Domattina me ne vado da Oued Riou. Per tre mesi, o forse per sempre.

Ho quasi il cuore grosso. Oued Riou m'è indifferente, o perfino antipatico: grosso villaggio presuntuoso, con un campanile sgraziato, immodesto, la gente dall'animo impagliato dai pregiudizi e dal "man" heideggeriano, quei suoi due bar di pessima imitazione cittadina, quei suoi quattro arabi camuffati da cattivi europei... Ma mi spiace lasciare la piana del vecchio Oued Cheliff, le cicogne del boschetto d'eucalipti di Hamadena, il sole bruciante delle lande del Bled Teferchat, l'argilla pastosa sotto il Sidi Abd El Kader Moul Gaa, le sabbie rossicci e la polvere d'Ourizane, la stupenda tavolozza delle Dahra, il fosso profondo dell'Oued Djidiouia, i falchi del Kudia bel Krarrouba, i colubri e gli uccelli dei boschetti di tamerici, le nicchie e le caverne del Kef N'Soura, gli avvoltoi delle scarpate dello Cheliff, le lunghe e agili scolopendre delle steppe di scilla, le tife e le fragmiti del Merdja Sidi Abed, gli amici dei douar sperduti lungo le piste della piana: Milhoud, Larbi...

Partire invecchia l'animo. Il fardello dei ricordi e delle impressioni consumate, s'ingrossa, pesa.

Dopotutto, non sono nato vagabondo: mi sono fatto e mi sono educato da vagabondo, poco a poco. Non riesco a coltivare e a far mia l'insensibilità del vagabondo vero, duro, autentico. Sono troppo sentimentale, troppo bambino. Lascio Oued Riou per tre mesi, ma mi sembra di lasciarlo per sempre. La sensazione del tempo che vola, del tempo irrecuperabile che passa, mi resta troppo acuta. Tornare non è più la stessa cosa. Qualcosa si spezza tra partire e tornare. Non so come spiegarmi. Anche la pietra più dura, più stabile, più rigida, dopo tre mesi, non è più la stessa. È la stessa pietra, "dopo". Non ha perso un atomo di sostanza, non s'è spostata d'una frazione di millimetro; ma la rivedi "dopo". Cìò ha un significato estremamente doloroso. Il tempo corre. Ma forse è bene che sia così.

Penso già a Tamanrasset, alla Costa d'Avorio, al Brasile. E sono ancora qui a Oued Riou. Il vagabondo è un essere che ha addosso una strana febbre. Talvolta, neppure il vagabondaggio la placa.


Incomincio ad afferrare che tornerò realmente in Italia, che un giorno non tanto lontano ti chiamerò al telefono, e ti chiederò, con la voce resa un po' rauca dall'emozione, come stai e se riconosci lo scocciatore; che un altro giorno ti vedrò - vedrò, dico, coi miei occhi -, arrivare a Gorizia, mescolata tra la folla d'un treno in arrivo da Udine. Oued Riou e Gorizia: due mondi paradossalmente diversi.

Miriam: è mai possibile che tu esista, che tu mi voglia realmente bene; è mai possibile ch'io non stia sognando, come un colleggiale ubriaco d'ingenuo romanticismo; è possibile, è vero, che tu mi ami come io ti amo? È vero, o è immaginazione troppo nutrita, che tra noi esiste questa straordinaria follia, questo mirabile capovolgimento del buon senso e del pregiudizio ch'è l'amore? Io non ho saputo e non ho potuto prometterti niente; perché questo tuo atto gratuito? Speranza? Affetto insensato, gratuito o solo attesa?

Sono intossicato d'immaginazione, te l'ho detto. I miei discorsi sono deliri. C'è un gran vuoto da empire, Miriam; un vuoto che mi sono portato dietro, mezzo anno fa, e che non ho potuto empire, neppure con la più pazza ed effervescente fantasia. Mi manchi, mi manchi molto, Miriam. E io ti voglio un gran bene, ti amo. Mi credi?

Con un bacio affettuoso

tuo Leo

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