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| << | < | > | >> |IndiceAvvertenza e modalità d'uso 7 A mo' di proemio 11 In principio fu Piazzese? 17 Un radiotecnico alla Zisa 24 Luigi Natoli e il sottosuolo rigoglioso della città 33 Il ventre di Palermo 35 Il grembo coperto della città 37 Il tesoro nascosto dei Beati Paoli 40 La setta degli adolescenti 47 Le anime dei Decollati 50 Palermo fantasmatica 54 Altre viscere ancora 61 Macerie affabulatorie 69 Nel bianco della polvere 72 Il vento gelido dell'Apocalisse 73 La città polverosa e occulta 80 Palermo pestilenziale e secentesca 82 Tra rifiuti e rovine 84 In mezzo a pustole e putredini 86 Palermo all'avanguardia 89 Una metropoli biologica e modificante 90 Un ricettario panormita 92 La città protoavanguardista e insieme "retrò" 94 Una Palermo sbilenca 98 Dal Palazzo di Giustizia 102 Una città demotica e picaresca 105 Dalla Cala alla Kalsa 106 La città policroma che cambia 108 La blasfemia di Fondo Picone 112 Palermo gitana e terragna 116 Il budello strozzato di via Castellana Bandiera 120 Epopea palermitana della "sbirritudine" 121 C'è del marcio a Borgo Vecchio 123 Nota bibliografica 127 Gli scrittori di Palermo di carta 131 La mappa letteraria di Palermo 133 |
| << | < | > | >> |Pagina 11A fare da perfetto incunabolo per questo avventuroso periplo cartaceo è un racconto di Marcello Benfante, dal titolo emblematico: Distruzione e rifondazione di Palermo. Sono poche pagine, una storia stringata, come al solito priva di sbavature: Benfante ha dimostrato in tante occasioni di non armare la pletora, essendo un narratore parsimonioso, asciutto, che si tiene al riparo dall'adipe stilistico. Qui, oltretutto, è riuscito a dare il meglio di sé, facendo i conti (viene da pensare a una sorta di letteraria ordalia) con Palermo, da sempre al centro dei suoi immaginativi rovelli. Una città sorpresa nella canicola estiva, impietosamente sferzata dallo scirocco: Le estati palermitane sono meno calde di quanto generalmente si creda. Sono interminabili, è vero, e senza tregue, né notturne né temporalesche. Tuttavia, non hanno il furore di quelle continentali, così brevi e feroci [...]. Ma quando soffia lo scirocco la città si trasforma in un deserto infuocato in cui solo i più sfortunati o i più audaci osano avventurarsi all'aperto. A questo punto, però, è doverosa una parentesi: il vento caldo di sud-est si era già manifestato in tutta la sua potenza affabulatoria nel romanzo di Santo Piazzese intitolato I delitti di via Medina-Sidonia (1996). Romanzo svolta, nella storia della declinazione letteraria della città: da quando ha visto la luce il giallo d'esordio dello scrittore-biologo, infatti, non è stato più possibile pensare a Palermo, evocarla o anche maledirla senza far a meno dello sguardo ossimorico, corrosivo, del protagonista, ossia Lorenzo La Marca, biologo-detective, ritagliato in qualche modo da una sagoma autobiografica. Il quale, da buon meteoropatico "terminale", ne registra la presenza invasiva con una divertente e umorale sintomatologia. La storia che prende corpo in questo romanzo «comincia con una sciroccata, che del tempo atmosferico è contemporaneamente la parte dramma e la parte commedia. Forse che Dio, quando soffiò la vita in un Adamo di creta, non la soffiò da sud-est? Così lo scirocco nacque prima di Adamo. La Genesi non ne fa cenno: era troppo ovvio». Per non dire del mare di Mondello: «Quando lo scirocco lo spiana, sembra un documentario sui tropici. È per via dei colori, netti, con una prevalenza del verde smeraldo e improvvise lame di blu indaco». È un vento, lo scirocco, che non dà respiro, e che annunzia l'inferno, il rogo, che apre definitivamente le porte all'apocalisse. Ma per la sua ossessiva ricorrenza nelle carte degli scrittori siciliani, viene da pensare che senza lo scirocco non ci sarebbe stata gran parte dell'avventura dello scrivere, del raccontare. | << | < | > | >> |Pagina 69Le macerie, i luoghi deturpati, il cumulo di rovine che Palermo gelosamente custodisce diventano spesso materia imperiosa nei ricordi e nell'immaginario degli scrittori. Come nel caso di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, legato visceralmente alla memoria della sua casa: «La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso quando essa da dodici anni non è più che un ricordo. Fino a pochi mesi prima della sua distruzione dormivo nella stanza nella quale ero nato, a quattro metri di distanza da dove era stato posto il letto di mia madre durante il travaglio del parto. Ed in quella casa, in quella stessa stanza forse, ero lieto di essere sicuro di morire» (Ricordi d'infanzia). Cosa che non avvenne, dal momento che il 5 aprile del 1943 «le bombe trascinate da oltre Atlantico la cercarono e la distrussero». Alla dimora di Tomasi che si sbriciola, va detto tra parentesi, si oppone quella del cugino, Fulco Santostefano della Cerda, duca di Verdura, che invece non ha ceduto alle offese del tempo e della storia: La villa è sempre li, grazie a Dio - recita l'incipit di Estati felici (1977) - la cara vecchia casa con i suoi balconi e le due terrazze, cotta dal sole, stanca sotto il peso della buganvillea che ne ricopre la facciata, ma fieramente eretta in mezzo al suo romantico giardino all'inglese [...]. Ma la casa (e per me quella, Villa Niscemi, è stata sempre l'unica casa che ho veramente amato di quell'amore che non conosce riserve e che soltanto i bambini possono provare) non ha perso nulla del fascino e dello strano potere che esercitava su di me. Quella di Tomasi, invece, era «rintanata in una delle più recondite strade della vecchia Palermo, in via Lampedusa, al n. 17 (F5), numero onusto di cattivi presagi», commenta amaramente ironico l'autore del Gattopardo (1958), «ma che allora serviva soltanto ad aggiungere un saporino sinistro alla gioia che essa sapeva dispensare. (Quando poi, trasformate le scuderie in magazzini, chiedemmo che il numero fosse mutato ed esso diventò 23, si andava verso la fine: il numero 17 le portava fortuna)». Una stradina recondita ma non strettissima, via Lampedusa, decente tutto sommato: «Non così lo erano le vie d'accesso: la via Bara all'Olivella che portava in piazza Massimo era brulicante di miseria e di catodi e percorrerla era un affare triste. Divenne un po' meglio quando venne tagliata la via Roma, ma rimase sempre un buon tratto da fare tra sporcizia e orrori». La «vecchia Palermo», scriveva Tomasi; quella che prepotentemente si affaccia dal primo capitolo del suo capolavoro: La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicinissima completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalle smisurate moli dei conventi. Di questi ve ne erano diecine, tutti immani, spesso associati in gruppi di due o tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi e conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di gesuiti, di benedettini, di francescani, di cappuccini, di carmelitani, di liguironi, di agostiniani... Smunte cupole dalle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più alte; ma erano essi, i conventi, a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro, ed insieme il senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere. Il Principe è in vettura, diretto a Palermo per accompagnare padre Pirrone a Casa Professa e per concedersi poi un diversivo carnale: [...] entrò in città per Porta Maqueda. Al caffè Romeres ai Quattro Canti di Campagna [E6] gli ufficiali dei reparti di guardia ridevano e sorbivano granite enormi. Ma fu il solo segno di vita della città: le strade erano deserte, risonanti solo al passo cadenzato delle ronde che andavano passando con le bandoliere bianche incrociate sul petto. Ed ai lati il basso continuo dei conventi, la Badia del Monte, le Stimmate, i Crociferi, i Teatini, pachidermici, neri come la pece, immersi in un sonno che rassomigliava al nulla. Qui il presentimento di morte, quel sentore lugubre e funereo che attraversa dall'inizio alla fine il romanzo, investe pure il paesaggio: il lutto è più forte della luce, per dirla con Brancati prima e Bufalino poi. Torniamo ai crolli e alle macerie, con l'ausilio di Chateaubriand, quello del Genio del cristianesimo: «Tutti gli uomini avvertono una segreta attrazione per le rovine». | << | < | > | >> |Pagina 102Sergio Toscano, altro allievo di Gaetano Testa, di mestiere fa il procuratore legale, mantenendo del suo ruolo, nella scrittura creativa, lo stile, il distacco, il grado zero quasi di una scrittura che scivola sulle cose narrate, con la disinvoltura e la tristezza della lingua incolore, buona per compilare un atto o per redigere una sentenza. Come accade in Tempo residuo a Palermo (1999), resoconto delle storture e degli orrori quotidiani che si consumano in una Palermo invasa dalla «merda di animali» e dalle automobili «parcheggiate sopra i marciapiedi», la cui scenografia è costituita essenzialmente da «smog, cemento, sporcizia e lamiere». Una città osservata però da una specola tutta particolare: il Palazzo di Giustizia (C5). Ne viene fuori quasi una cronaca minuta, dettagliata, in cui trovano posto farneticazioni e misfatti, ingiustizie e raggiri, e in cui si registra il chiacchiericcio inconcludente che riempie «gli spazi riservati ai riti di giustizia» e le aule di udienza della pretura. Ben presto, quasi inopinatamente, quel palazzo di «ordinaria ingiustizia» si trasforma in una sorta di turris eburnea, lontana dal «caos acustico» che evapora fuori, dove circolano metalli e uomini immersi in una coltre puzzolente di smog (qui Toscano sembra dare la mano a Rizzo), dove vengono depositati cumuli enormi di immondizie, e dove anche le piante conducono un'esistenza difficile, soggette come sono a inevitabili malattie. Ma quel "mondo di fuori" in cui ci si accorge del prossimo solo grazie alla morte puzzolente, come quella dei tanti vecchi abbandonati, un mondo che fa da teatro a tragedie quotidiane, fa capire l'autore, non differisce alla fine poi tanto dal mondo di dentro; quel microuniverso che il Palazzo di Giustizia preserva, e che è percorso dalla stessa insensatezza, dalle stesse pulsioni irrazionalistiche. Muovendosi su questa falsariga, Toscano ha compilato il suo Diario palermitano (2003), una sorta di mappa topografica urbana ironica e straniante. Continuando a far ricorso a una scrittura notarile, tutta giocata in atonia, ma che sa benissimo cavare i risvolti surreali dalle situazioni apparentemente più banali. Il suo occhio analitico ne fa un infaticabile chiosatore, in grado di protocollare, con inquietante precisione, e sbriciolare gli oggetti, le persone, i luoghi. «I rumori di Palermo sono molteplici e permanenti. Nulla di strano se a mezzanotte si ascolta la penetrazione dell'asfalto di un martello pneumatico» si legge nella prima pagina; penetrazione accompagnata da ululati di cani, clacson, antifurti. Toscano è un "testimone auricolare" che registra i rantoli di una città refrattaria al silenzio, ma nelle cui vie, magari, ci si può imbattere in un cartello del genere: «Il rumore disturba, non abusare del clacson». Si tratta anche del diario di un peripatetico: Toscano narra infatti gli incontri col vecchio di via Marchese di Roccaforte (E11), «la via del caos acustico», che vende caramelle alla cannella, aglio, peperoncini, foglie di alloro, le visite nei mercatini rionali o negli ipermercati. Da questo viaggio prendono corpo le glosse di uno scrittore in seconda battuta civile e politico: «Alle 9,30, in viale Piemonte, colonne di automobili attendono al semaforo con il motore acceso. Nuvole di smog. Poco distante, in una grande terrazza al piano terra di un edificio, un istituto privato ospita bambini». | << | < | > | >> |Pagina 116Ne Il giorno degli orsi volanti (2005) di Evelina Santangelo, c'è qualcosa che rimanda alla gioia saltimbanca, circense di certe tele di Chagall, tanto care al poeta e saggista palermitano Angelo Maria Ripellino. Insieme a una malinconica gitaneria, di ascendenza lorchiana, in cui sogno e realtà si compenetrano: la dimensione onirica, fanciullesca, sostanziata da ricordi ovattati da un parte; dall'altra, la cruda realtà, fatta di violenza, rinunce, memorie che si sfocano. Al centro della storia narrata dall'autrice c'è uno straniero dell'Est europeo, approdato in una Sicilia riconoscibile e mai nominata, in una Palermo facilmente individuabile eppure significativamente metastorica. Si chiama Jon Scripcaru, e nasconde un segreto. Lo custodisce nel ventre di un garage che ha abusivamente occupato. Si tratta di un mistero che alimenta la fantasia dei bambini, ma soprattutto la curiosità morbosa degli adulti, per un fatto semplicissimo eppure bizzarro che ogni sera si ripete. Jon, infatti, è solito attraversare i vicoli di un mercato che fa subito venire in mente quello di Ballarò (C3), trascinandosi dietro una piattaforma di legno che riempie di avanzi di frutta marcia, di torsi di cavolo, gambi di carciofi, rimasugli sfilacciati di carne, strisce di pelle. Si incunea tra i banchi, a fatica avanza evitando ostacoli di ogni sorta. Novello Sisifo, il protagonista di questo romanzo, è costretto a rimorchiare il suo carico, trascinandosi appresso gli interrogativi, gli improperi, tutta la diffidenza e spesso l'intolleranza di chi ha paura del diverso. Mentre sembrano sospingerlo gli sguardi benevoli di chi, come la vecchia del mercato, sdentata e raggrinzita, è quasi incuriosito da quella stramberia. Alle calcagna del Biondo (così Jon viene chiamato dai compagni di lavoro nero al cantiere), ci stanno i ragazzini del quartiere, che lo tallonano sino all'ingresso del garage: «Ve lo dico io - esclama uno di questi - quello ha bestie da sfamare». Saranno topi, maiali, «topi ammaialati»? Jon caccia via tutti, entra nel suo fetido alloggio e, abbassando la saracinesca, si lascia dietro le paure e la diffidenza della gente. Ma la cosa non può andare avanti troppo a lungo: un giorno il Rosso, macellaio in odor di mafia, fa irruzione nel garage, per un sopralluogo chiarificatore. E a prendere corpo davanti ai suoi occhi è qualcosa di inimmaginabile, di straordinario: in un angolo, sotto una coperta troppo stretta, giace niente meno che un gigantesco orso. Una montagna di pelo bruno, incatenata a muro. | << | < | > | >> |Pagina 123Dal quartiere caotico e vociante di Borgo Vecchio (F7), col suo pittoresco e variopinto mercato sempre in movimento, prende le mosse Estate di San Martino (2003), primo romanzo di Valentina Gebbia. L'azione è messa in moto dalla disperazione della signora Provvidenza, la quale nel cuore della notte irrompe nell'appartamento della coinquilina, la signora Mangiaracina, per mettere al corrente i figli Terio e Fana della disgrazia che si è abbattuta su casa sua. [...] Valentina Gebbia è una sorta di anti-Piazzese: per l'ambientazione della storia, con tanto di bancarelle di formaggi, carrettini con lo sfincione, cd e cassette pirata; per la sottrazione di fascino cui sono sottoposti i protagonisti: come dire, ecco l'altra faccia della medaglia di Palermo, città tipicamente meridionale, affollata e caotica all'inverosimile.
A venirne fuori è una specie di godibile lode alla pigrizia e al sovrappeso,
ma anche un atto d'amore per una città che non sfoggia
pub e locali alla moda in cui si suona musica sofisticata, ma che è attraversata
da cortei di manifestanti, animata da vicini di casa che non
si fanno gli affari propri. C'è tanto colore locale, tanta gastronomia
nelle pagine della Gebbia; dagli arancini sino ai capperi di Ustica,
alle olive schiacciate, ai pomodori secchi; come pure una divertita
fenomenologia della vita di quartiere e di conseguenza della "palermitanità",
vituperata con grazia da Litterio, il quale odia visceralmente Palermo. Questa
componente folclorica risulta consustanziale ai personaggi e alla trama.
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