Copertina
Autore Dominique Fernandez
Titolo La corsa all'abisso
EdizioneColonnese, Napoli, 2005, Le voci di Ishtar 1 , pag. 480, cop.fle.sov., dim. 145x235x35 mm , Isbn 978-88-87501-65-0
OriginaleLa course à l'abξme
EdizioneGrasset & Fsquelle, Paris, 2003
TraduttoreFabrizio Ascari
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa francese , biografie , storia dell'arte
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Indice


LIBRO I

I.    Morte senza sepoltura                        13
II.   Figlio senza padre                           19
III.  Un decreto misterioso                        25
IV.   La gemma purpurea della Sua carne straziata  31
V.    Glorioso delirio, celeste follia             39
VI.   L'enigma del quadro                          46
VII.  Il visitatore maltese                        55
VIII. Milano                                       62
IX.   Caterina                                     72
X.    La setta dei portoghesi                      79
XI.   La carretta d'infamia                        89
XII.  Il fiore di cardo                            96

LIBRO II

I.    Via Appia Antica                            105
II.   L'Oratorio                                  116
III.  Da Lorenzo Siciliano                        128
IV.   Il giuramento                               141
V.    Primi quadri, primi pericoli                153
VI.   Il cardinale                                164
VII.  Il concerto                                 177
VIII. Crisi                                       190
IX.   Rutilio                                     198
X.    Accuse                                      205
XI.   Rinvio                                      217

LIBRO III

I.    Il verme nella mela                         229
II.   Figlio delle mie opere                      231
III.  Ranuccio                                    241
IV.   La guerra del nudo                          250
V.    La Galleria Farnese                         259
VI.   Fortuna degli uni, sfortuna degli altri     267
VII.  Divino Amore                                276
VIII. Successo                                    286
IX.   L'anno santo                                293
X.    Allarme                                     300
XI.   Firenze                                     309
XII.  Gloria                                      319
XIII. L'Amore vittorioso                          326
XIV.  Colpo di stato                              335
XV.   Scandalo                                    342
XVI.  Avvertimento                                352
XVII. Prigioni                                    362
XVIII.Fuga                                        372

LIBRO IV

I.    Braccato ma circondato di premure           383
II.   Napoli                                      388
III.  Questo, Cristo?                             397
IV.   Il priore di San Martino                    402
V.    Malta                                       411
VI.   Alofino                                     419
VII.  Firma                                       424
VIII. Prestigio e infamia                         432
IX.   Siracusa                                    438
X.    Distruzione del tempio                      447
XI.   Inseguimento                                454
XII.  Attacco                                     462
XIII. Esecuzione                                  472

 

 

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Pagina 13

I
Morte senza sepoltura



                Michelangelo Merisi, nato a Caravaggio nel ducato
          di Lombardia il 29 settembre, giorno dei santi Michele,
     Gabriele, Raffaele Arcangeli, morto il 18 luglio a trentotto
    anni sulla spiaggia di Porto Ercole in Toscana in circostanze
                     non chiarite, Paulo Quinto Pontefice Maximo.



Il mio corpo non è mai stato ritrovato. Gettato in mare? Bruciato sulla spiaggia? Mangiato dalle formiche? Divorato dai lupi? Rapito dalle aquile? Vegliato e portato via da qualche anima pia? Sepolto di nascosto e poi dimenticato come un cane? Le canaglie che ho dipinto così spesso travestite da angeli sono venute a prendermi per sottrarmi al cielo? Un altro, al posto mio, si lamenterebbe. Privato di sepoltura! Abbandonato sulla sabbia, condannato a errare nel limbo, con i bambini morti senza battesimo e i peccatori privi di redenzione! Io, invece, mi ritengo fortunato, di non avere né tomba né pietra sepolcrale, Sono contento di sfuggire ai pellegrinaggi e agli anniversari. Non voglio commemorazioni postume, dopo essere stato vilipeso e perseguitato in vita. Questo guazzabuglio di omaggi tenetelo per coloro che sono stati favoriti dalla fama, dagli onori, dal successo mondano. Dato che la mia morte non è stata meno misteriosa della mia vita, l'enigma del mio destino resta intatto.

Quante inesattezze, fantasie, stupide congetture o menzogne ho letto sul mio conto! La mia morte soprattutto ha scatenato le supposizioni più varie e dato luogo a errori grossolani. Riprendiamo le cose in una parvenza di ordine.

Dopo l'assassinio di Ranuccio e la mia condanna a morte da parte del papa, fuga verso il sud. Da Roma a Paliano, da Paliano a Napoli, da Napoli a Malta. Alla Valletta, la faccenda del cavaliere Wignacourt e del suo paggio che determina una nuova fuga, nuovi vagabondaggi forzati. Siracusa, Messina, Palermo. Secondo soggiorno a Napoli. Infine, dopo quattro anni errabondi, la speranza di ritornare a Roma. Certe persone influenti si adoperano presso Paolo V per ottenere la mia grazia. La feluca sulla quale trasporto i miei due ultimi quadri, prezzo della mia libertà, mi deposita sulla spiaggia di Porto Ercole, in Toscana, a una ventina di leghe a nord della frontiera con lo Stato pontificio. Dato che la Toscana appartiene alla corona di Madrid, Porto Ercole è sede di un presidio spagnolo. Mentre vi attendo il decreto che mi permetterà di rientrare a Roma, Dio dispone di me altrimenti.

Prima ipotesi: la febbre. Sceso a terra il 15 luglio, sarei morto, tre giorni dopo, fulminato dalla malaria. Lunga striscia di sassi grigi ai piedi di dune su cui cresce un'erba stenta, vi è niente di più desolato di tale spiaggia? Curvati dal vento, grattando il suolo con i loro rami, i rari pini inclinano verso il mare il tronco tormentato. Immaginate in piena estate, sotto il solleone, questa riva arida, nuda, sinistra come un deserto. Anche un uomo di costituzione più robusta sarebbe morto in fretta. Se è vero che il mio Bacchino malato, dal volto scavato, dal colorito cereo, dipinto alcuni mesi dopo il mio arrivo a Roma, quando avevo ventun anni, è un autoritratto, il quadro attesta che il paludismo mi ha tormentato fin da quell'epoca lontana.

Seconda ipotesi: l'assassinio su commissione. Dopo la faccenda Wignacourt, Malta ha deciso la mia rovina. Gli sbirri lanciati al mio inseguimento per ordine del Gran Maestro mi ritrovano in una locanda a Napoli ma riescono soltanto a ferirmi. Riprendono la caccia, mi raggiungono in Toscana e, stavolta, contro un uomo indifeso, eseguono l'ordine...

Variante: l'assassinio mascherato. Si può giudicare inverosimile che sia risalito con la mia feluca così a nord di Roma, quando venivo da Napoli. Non sarebbe stato più naturale e più assennato scegliere, per attendervi la grazia, un porto situato a sud di Roma, fra Napoli e Roma, per esempio Gaeta o Terracina? Da qui la terza ipotesi: sarei sbarcato a Civitavecchia, porto di Roma, nello Stato pontificio, sapendo che sarei stato incarcerato, sì, ma per un breve periodo. Il decreto di grazia, già firmato, deve essere reso pubblico da un giorno all'altro. Penso di poter essere al sicuro dai sicari maltesi solo dietro i muri di una prigione. Calcolo errato. Gli sgherri riescono a introdursi nella mia cella. Portano poi via il mio corpo e lo depongono sulla spiaggia di Porto Ercole, per far credere a una morte naturale.

Quarta ipotesi: vendetta ecclesiastica. A Roma, la cerchia del papa si divide in due clan: quello francese, capeggiato dai cardinali Federico Borromeo e Francesco Maria Del Monte, e quello spagnolo. Il solo fatto di aver servito un tempo il cardinale Del Monte mi addita alla disapprovazione dell'altro partito. Scoraggiato dalla mia cattiva condotta, esasperato dalla mia violenza, è da un pezzo che il mio primo protettore mi ha mollato, ma i quadri che mi ha comperato continuano a essere il principale ornamento della sua galleria. L'altro clan, adesso che ha conquistato il potere collocando un Borghese sul trono di san Pietro, vuole la mia testa. A Porto Ercole, feudo spagnolo, niente di più facile dell'assoldare qualche soldato del presidio. Ma allora, conoscendo la ferocia della guerra che si fanno le due fazioni vaticane, perché mi sarei gettato in mezzo ai miei nemici?

Quinta ipotesi: rissa con un ragazzo, che sarebbe finita male. Quale ragazzo? Uno dei marinai della feluca, ovviamente! Sapete come ho vissuto. Confessate che non avete prestato fede a nessuna delle quattro prime ipotesi, e che avete pensato subito all'ultima. Perdiana! Lo sfrontato, secondo il suo solito, si è messo a circuire uno di quei giovani, un ragazzo ben piantato, del genere plebeo e canagliesco, seminudo e abbronzato vista la stagione, uno di quei piccoli bruti che amava. Che scalogna ha avuto! Il tipo in questione ha acconsentito a seguirlo fra le dune per una o due pistole, ma quando ha capito che servizio gli si richiedeva, altolà, si è ribellato! L'onore di ciascuno è sacro! I toni si fanno accesi, si avventano l'uno contro l'altro, sulla sabbia c'è un ramo spezzato, l'impudente viene stordito, cade privo di conoscenza, l'altro lo finisce a calci e a bastonate, poi, spaventato dal proprio delitto, getta il corpo al largo.

Fine spettacolare, al tempo stesso grandiosa e sordida, conforme all'idea che vi siete fatti di un pittore non meno celebre per i suoi scandali che per i suoi quadri. Tragedia dei bassifondi, che ha il vantaggio, per voi, di combinare due miti.

Prima il mito dell'artista maledetto. La posizione di cui godono i miei colleghi non la voglio. Bozzolo, costrizione. Sulle comodità, sulla carriera, sugli onori, io ci sputo sopra! Non ho rotto con la tradizione, messo sottosopra la pittura, reinventato la luce, per imitare Tiziano e morire, come lui, a ottantasei anni, coperto di allori e ricco a palate. Rischiare la pelle in avventure riprovevoli, ecco il genere di colui che maneggia la spada bene quanto il pennello. Uccido e accetto di essere ucciso. Asociale, amorale, pezzo di mascalzone, pendaglio da forca, riconoscete che sono perfetto nella mia categoria. Con la giustizia sempre alle calcagna, i sicari sempre in agguato. Guardate ciò che ho fatto della mia vita! Un precipizio, una cloaca, una corsa verso la morte. Tale carattere è a proprio agio solo nella violenza, nell'eccesso, nella dismisura. Nessuna realizzazione al di fuori del delitto, né altra apoteosi se non nell'abiezione.

Che scenario, che sfondo tragico questa costa, abbandonata dagli uomini, respinta da Dio! Terra di nessuno. Ho trentotto anni, l'età in cui sono morti Pascal, Van Gogh, Rimbaud. Ardiamo dello stesso fuoco. Corro sulla spiaggia, chiedo di essere immolato. Una vita consacrata all'arte non può essere che in guerra con ciò che viene convenzionalmente rispettato. La maggior parte degli artisti scendono a patti con la loro coscienza ed entrano in rivolta contro il mondo solo quel poco che basta per non mettere in pericolo la loro carriera. Solamente pochi, coloro che sono nati sotto maligna stella, rifiutano ogni compromesso e firmano con un atto estremo il loro disgusto radicale per gli accomodamenti.

Che cosa importano l'identità, il nome, i moventi personali di chi mi ha ucciso? E stato soltanto uno strumento. L'agente della società, se adottate la versione del delitto espiatorio, con cui, anche se lo ha tollerato per qualche tempo grazie al privilegio del talento, la collettività finisce con l'espellere l'elemento indesiderabile. Lo strumento della mia volontà personale, se ammettete che l'assassino abbia obbedito soltanto al desiderio della sua vittima.

Ma andiamo! Delitto o suicidio, è sempre il mito romantico. Un po' datato, oggi, no? Da Puskin assassinato in duello a trentotto anni, e Kleist, che a trentaquattro anni si è fatto saltare le cervella, per diventare moderni non si è fatto nulla di più che morire all'età prescritta dagli dei?

Io sono qui proprio per incarnare un secondo mito. Quello del vagabondo senza regola né legge, dell'eretico votato al vizio innominabile, del reietto che attira su di sé l'anatema, del fazioso che rinnega il proprio cuore, infine, per dirla con una parola, del selvaggio che vive nell'anarchia dei suoi istinti, avido di fare sesso quando se ne presenta l'occasione. Fare sesso, poiché fare l'amore sarebbe la reminiscenza di un'epoca superata. Fare sesso con ogni ragazzo che mi piace, sembra che non abbia avuto altro credo. Cazzo e culo, rabbiosamente, pericolosamente. In piena Chiesa cattolica, apostolica e romana, sfidare Mosè e san Paolo, schernire i preti, affrontare il Sant'Offizio, ridersi del rogo!

Certo, non ho avuto il monopolio della violenza e dello scandalo. Gli individui poco raccomandabili in mezzo ai quali ho vissuto abbondavano nel mio secolo: ladri, prostitute, empi, sacrileghi, sodomiti, ubriaconi, effeminati, sediziosi, assassini, tutti coloro cui san Paolo nega il regno di Dio. Di quella che l'apostolo chiama la feccia, confesso di aver fatto spesso la mia compagnia. Fra tale teppaglia e me c'è però una differenza, che aggrava considerevolmente il mio caso. Fra i miei delitti, se vogliamo definirli così, e i loro, non c'è paragone. Essi sono venuti meno soltanto agli occhi della morale; io alla cattiva condotta ho aggiunto la provocazione e la bestemmia. Sapendo restare al loro posto, agendo soltanto nei bassifondi delle città, non hanno mai cercato di innalzarsi fino alla società per bene, né di immischiarsi in ciò che riguarda unicamente gli uomini e le donne ammodo. Della pittura, per esempio, non s'impicciano; un vago rispetto li tiene a distanza da ciò che sanno non essere alla loro portata. Tale confine tacito, accettato dalle due parti, che separa il mondo dell'arte e quello della delinquenza, sono stato il solo a varcarlo. Il solo a unire la ricerca della bellezza e la pratica del vizio. Chi, all'infuori di me, ha osato servirsi di quadri, mezzo nobile fra tutti, per ostentare la propria cattiva condotta e confessare pubblicamente gli episodi più crudi della propria vita? Rappresentare i miei amanti come Bacco, come suonatore di liuto, come Cupido, passi pure! Ma dare il loro volto agli angeli! Far posare l'uno come san Giovanni Battista, dipingere l'altro sotto le sembianze di Isacco! La trasgressione e la sfida, chi le ha spinte così lontano?

Il Sodoma? Dei suoi costumi, confermati dal soprannome, non si vede traccia nella sua opera. Il Botticelli? Passando da madonne soavi a delicati androgini, da angeli asessuati a pallide veneri, come vi ha raggirati, smentendo con l'ideale artistico la sua depravazione quotidiana! Signorelli? Per restare in pace con la propria coscienza e non svuotare il libro delle commissioni, stipava all'inferno, dandogli la figura di dannati, coloro che trattava più teneramente in privato. Leonardo? Sosteneva che l'atto dell'accoppiamento e le parti del corpo che vi sono impegnate hanno una tale bruttezza che, senza la bellezza dei volti, la natura avrebbe perso la specie umana. Michelangelo? Il peggiore di tutti. Preoccupato di conservare il favore dei papi, si sforzava di convincere, con testi platonici a sostegno, che l'amore spirituale era il solo a occuparlo. Se disegno il ratto di Ganimede, diceva, non è che creda che Zeus abbia rapito il giovane principe per godere delle sue grazie. Che cosa immaginate? Si tratta soltanto di una metafora! In Ganimede non vedete che il puro Intelletto, preso dal furore di conoscere, furor cognitionis (un po' di latino si addice all'ipocrisia). Il bell'efebo chiede all'aquila solo di strapparlo alla terra e di innalzarlo all'iperuranio; e l'uccello, che prendevate per un rapace lussurioso, non è che il paredro della Filosofia, munito di ali che trasportano lo scolaro nelle eteree altezze del cosmo, eximiae mundi partes.

Ecco come, a Firenze, il gesuitismo e il portamonete hanno deformato un fatto di cronaca sessuale in favola umanistica.

Furberia degli artisti! Tutti vigliacchi, tutti cortigiani e interessati! Sono l'unico, tra questa folla di sodomiti clandestini, di bardassi velati, di criptofroci, l'unico a essermi dichiarato per quello che sono, dalla testa ai piedi, nelle mie opere come nella vita. Una vera propaganda, come mi presentate ormai, l'emblema della causa, l'angelo dei maledetti, una sorta d'icona, la pia e gloriosa riunione dell'eroe e del martire.

Bisogna solo che mi spieghiate, che spieghiate a voi stessi:

1°. La presenza, sulla spiaggia di Porto Ercole, di un uomo un po' più giovane di me, trentatré anni circa, un uomo maturo a ogni modo. Da un pezzo non è più un ragazzo, si è allontanato dall'età che mi ha ispirato tante follie, eppure è al mio fianco, è sua l'immagine che i miei occhi chiudendosi hanno portato con sé. Conficca il suo pugnale nella sabbia per asciugarne il sangue. Piange. Il suo corpo è scosso da singhiozzi. Eccolo che si lascia andare all'indietro e resta disteso, con il volto al cielo e le braccia aperte. Quale inconsolabile dolore lo tiene inchiodato al suolo fino a sera e a tarda notte?

L'alba lo sorprende in ginocchio accanto a me. Continua a piangere, ma forse, adesso, altre lacrime, non di dolore, scorrono sul suo volto estenuato. Forse piange di felicità, forse piange di gioia. Si ricorda di ciò che ho dipinto per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, quando era il mio apprendista e mi serviva da modello? Man mano che procedeva il lavoro, gli rivelavo il senso nascosto di una scena in apparenza orribile; e lì, su quella spiaggia, avrà capito che non parlavo alla leggera quando gli esponevo il mio punto di vista sul martirio di san Matteo.

Conviene versare lacrime di lutto su un uomo che corre incontro al sacrificio nelle circostanze esatte che lui stesso ha predetto, dieci anni prima? Se ha dipinto, per la parete di una chiesa, la prova generale della propria morte, è perché ci si affligga per ciò che gli capita oggi?

2°. La sparizione dei due quadri che avevo caricato a Napoli per donarli al cardinale Scipione Borghese in cambio della mia grazia, e perché un altro dei miei compagni di viaggio (più giovane di otto o nove anni), in piedi a prua della feluca che dondola a qualche centinaio di metri dalla riva, tenda il braccio e mostri il pugno quando vede ciò che succede sulla spiaggia. Lo avete persino sentito lanciare un grido di vittoria, accompagnato da insulti: «Vaffan... Li mortacci vostri! Per te, il pugnale! E per l'altro, presto, la forca!».

Che ne dite di tutto ciò? I due uomini, chi possono essere? Perché l'uno mi ha vegliato sulla spiaggia e l'altro è fuggito rubando i quadri?

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Pagina 309

XI
Firenze



Scavato da valloni aridi, rialzato da pendii bruni, il territorio etrusco si estende a perdita d'occhio. Una sottile linea di cipressi corona le alture. Secca e incolta, come mi è piaciuta quella campagna! Tanto le pianure coperte di messi e i pascoli opimi della Lombardia indispongono il mio spirito presentandogli l'immagine di una prosperità che rende, tanto la desolazione che regna lì evoca ciò che saranno gli ultimi giorni del mondo, quando una valanga di scorie lo avrà pietrificato trasformandolo in deserto. Gli alberi sembrano dipinti sul cielo piuttosto che nutriti di linfa. Persino i bufali dalle corna ricurve, il cui mantello nero dai riflessi minerali si confonde con il colore della terra, sembrano di una natura diversa da quella delle vacche ingrassate nei prati.

In quella fine di settembre, un caldo soffocante, appena attenuato dalla notte, continuava a pesare sul sud della Toscana. Per lasciar riposare i cavalli, visitavamo necropoli abbandonate da duemila anni e ornate di pitture. Una folla di immagini addormentate spuntava in sagome fantastiche al bagliore delle torce. Affreschi rossi e neri su fondo bianco, rimasti quasi intatti a causa della temperatura glaciale e dell'oscurità di quelle gallerie.

«Si è mai vista una depravazione più sfacciata!» esclamava il cardinale davanti a scene erotiche trattate con estrema indecenza. Sosteneva che era impossibile che fossero mai state destinate a essere viste da molti, anche se i costumi degli antichi erano più liberi dei nostri. Mi ricordo di una sorta di toro che caricava due uomini accoppiati su un letto. Colui che porta un filo di barba possiede more canum un ragazzo imberbe. Il quadrupede furioso soffia dalle narici frementi.

«Che tipi, questi pagani! mi diceva il cardinale ridendo. Purché non si sappia mai nei corridoi del Sant'Offizio ciò che è stato dipinto un tempo in queste grotte! Il papa scoprirebbe che non ha più bisogno d'invocare Mosè o san Paolo per lanciare l'interdetto su ciò che fa andare in collera la natura. Non so se sia un toro o un bisonte. A ogni modo, che alleato potenziale per Sua Santità e per tutti i monsignori del Vaticano! La forza bruta, il puro istinto che si avventa a testa bassa contro un accoppiamento intollerabile per la pruderie ecclesiastica! La pruderie giustificata! L'intransigenza del Levitico approvata da un animale dotato di zoccoli e corna! L'Inquisizione legittimata da quella bestia! Di che dar loro la voglia di rinunciare allo studio della Bibbia per dedicarsi alla zoologia!». Rideva ancora più forte fino a soffocare.

Più a nord, un'umidità malsana stagnava sulle paludi in cui s'impantana la parte occidentale del lago Trasimeno. Fui colto da tremiti. Comparve la febbre. Cercando un albero per farmi distendere all'ombra, Mario non trovò che un cespuglio stento. Malaria, confermò il medico della spedizione. Potei riprendere il cammino solo dopo che Mario mi ebbe legato sul mio cavallo. Avevo il colorito cereo, i tratti scavati, l'occhio giallastro del mio Bacchino malato.

All'inizio del viaggio, il cardinale mi chiamava accanto a sé almeno una volta al giorno per mettermi al corrente degli usi della corte del granduca. Appena informato del mio stato di salute, smise di accordarmi i suoi favori. Fui relegato in fondo al corteo, con il divieto di avvicinarmi a Sua Eminenza. Mario non si era sbagliato: il porporato mi aveva portato con sé solo per servirgli da spalla. Non essendo più presentabile, non ero più niente. Un subalterno, per rimanere nelle grazie del suo padrone, deve divertirlo o essergli utile. Con una capacità di conversazione nulla, non ero neppure più in grado di stare in piedi.

Mi è piaciuta Firenze? Febbricitante, indebolito, ho visto appena la metà delle sue pitture. Mi recai dapprima a Santa Croce, impaziente d'incontrare Giotto. Il ciclo della vita di san Francesco e le scene di san Giovanni Battista e di san Giovanni Evangelista confermarono quanto pensavo di tale pittore, non solo il primo nel tempo, ma il patrono per eccellenza della pittura. Eppure continuavo a ribellarmi all'idea che potessero esserci nel passato dei modelli perfetti, stabiliti una volta per tutte. Ed era proprio la riserva che sentivo crescere in me contro i pittori e gli scultori di Firenze, frenati, a mio avviso, nel loro potere creativo da un rispetto esagerato per gli antichi.

La camera in cui alloggiavamo dava sulla chiesa di Santo Spirito, la cui cupola è stata costruita per rivaleggiare con quella del Pantheon di Agrippa a Roma. La sera, leggevo a Mario le Vite di Vasari, nella riedizione appena uscita; mi irritava parecchio che il grande storico, cui dobbiamo le prime biografie di tanti artisti, avesse classificato gli architetti, i pittori e gli scultori italiani non secondo il loro valore personale, ma secondo la maggiore o minore conformità della loro arte ai modelli canonici. L'antichità, per lui, non è uno dei periodi storici, ma il riferimento assoluto. Colloca Michelangelo al vertice perché si è avvicinato di più all'ideale fissato dai contemporanei di Pericle e di Augusto. Il peccato di essere ancora gotico, invischiato nelle superstizioni del Medio Evo, diminuisce, ai suoi occhi, il merito di Giotto. Il pittore degli Scrovegni drappeggia troppo pesantemente le sue figure e dà agli attori della Storia Sacra delle teste volgari, cioè copiate da quelle degli uomini e delle donne del suo tempo.

La leggenda che Vasari riferisce dell'infanzia e degli inizi artistici di Giotto mi ha aiutato a capire al tempo stesso ciò che mi piace in questo pittore e ciò che non mi piace in Firenze. Giotto, nato da un padre lavoratore di terra e naturale persona, a dodici anni custodiva un gregge sul ciglio di una strada toscana quando Cimabue, autore di crocifissi bizantineggianti e pittore già rinomato, in cammino alla volta di Arezzo, notò il ragazzino che, con l'aiuto di una pietra grossolanamente appuntita, tracciava, sulla parete inclinata di una roccia, il contorno preciso di una pecora. Dodici anni, e già capace, senza aver mai studiato, di riprodurre con esattezza la lana sul dorso di una pecora! Mi piace pensare che l'arte italiana sia cominciata in aperta campagna, lontano dagli studi e dalle accademie, con lo stupore di un pastorello davanti al potere della sua mano abbastanza abile da trasformare un animale familiare in esercizio di stile. Cimabue portò con sé il ragazzo e gli insegnò i rudimenti del mestiere. Giotto andò a scuola, ma senza perdere nulla della sua spontaneità. La natura restava il suo modello. Sul naso di una figura di monaco iniziata da Cimabue fece un giorno una mosca. Così somigliante, così vera, che il pittore, quando riprese il suo lavoro, cercò parecchie volte di scacciarla prima di scoprire l'errore.

Per dirla francamente, il carattere altero e pretenzioso dei fiorentini mi ha messo subito a disagio. Le strade rettilinee, i palazzi austeri che i loro proprietari non abbelliscono per troppo orgoglio, le facciate senza ornamenti, i bugnati regolari, le torri massicce, i masti tozzi, le colline troppo armoniose ai lati del fiume, poiché la natura stessa si è piegata al gusto degli abitanti, i cipressi che sembrano leccati, l'aria che isola ogni forma in una purezza adamantina, l'Arno che scorre fra argini di granito, ben diversi da quelli fangosi del Tevere su cui amo vagabondare, tutto in questa città spira una distinzione e una sicumera che hanno bloccato anche gli artisti.

I migliori di loro conservano qualcosa di compassato, di distante, di freddo, avrei voglia di aggiungere, se l'arte fosse questione di temperatura. Sul naso dei ritratti impeccabili di Lorenzo il Magnifico o di Giuliano de' Medici nessuna mosca oserebbe posarsi. David è il patrono ufficiale di Firenze, ma le statue che lo rappresentano sono troppo lisce, troppo pulite, come se il vincitore di Golia non si fosse lordato di sangue.

In piazza della Signoria, andavamo a piantarci davanti al David di Michelangelo, in mezzo ai bambini che davano da mangiare ai piccioni.

«Hai l'impressione che quel tipo abbia appena commesso un omicidio? chiesi a Mario. Si direbbe piuttosto un tribuno che arringhi tranquillamente la folla.

– Certo, non è così che faresti...

– Io, fare un David...? Sarebbe una bella lezione da dare a questi fiorentini... Potresti servirmi da modello!

– E tu, affibbiare a Golia il muso di Ranuccio!

– La nostra vendetta sarebbe così compiuta! Ma sul serio: avresti l'aria abbastanza feroce da impersonare colui che non solo ha ucciso il gigante, ma lo ha poi decapitato?

– Oh! mi hai insegnato che non è necessario odiare per uccidere. La vittima può amare il suo carnefice e non trovarlo così cattivo».

Accorgendosi troppo tardi di ciò che aveva detto, arrossì fino alle orecchie. Lo trascinai verso le altre statue. Mettendo sul basamento la testa mozzata di Golia, Verrocchio e Donatello si sono mostrati più fedeli di Michelangelo al testo biblico. Ma il buon gusto, lo stile spigliato e disinvolto hanno avuto ancora una volta la meglio. Della tensione morale e dello sforzo fisico che sono stati necessari all'eroe per sopraffare il gigante, non si vede alcuna traccia. Se avesse decapitato una marionetta alla fiera, non sembrerebbe più calmo, più riposato. A Firenze, i colli tagliati restano di marmo, le carotidi sezionate paiono tubi posati dall'idraulico, un martire non ha niente in comune con un macello, sarebbe contrario all'ideale estetico dei toscani che amano solo ciò che è nitido, leggiadro, elegante. Nulla supera ai loro occhi l'andata dei Magi a Betlemme nella cappella di palazzo Medici. Una polvere d'oro sparsa a profusione fa brillare i costumi. Preferisco ancora Rubens, con la sua schiettezza di ventre e il suo prosaicismo fiammingo, a questo Benozzo Gozzoli che usa i colori senza insudiciarsi le mani.

Il popolo fiorentino stesso cerca costantemente di elevarsi all'altezza dell'idea che si fa di una nazione eletta per incarnare ciò che l'umanità ha sempre presentato di più nobile e di più distinto nella storia. La presenza di marciapiedi lungo le strade rivela il carattere della popolazione. L'intelligenza pratica e la prudenza meschina hanno dettato questa misura: persino nell'organizzazione materiale della città non si dimentica che i primi Medici, essendo innanzitutto dei banchieri, disponevano in pile simmetriche sul loro banco zecchini e dobloni. Su tali marciapiedi, le persone camminano in file regolari, invece di riversarsi in mezzo alla strada e di portare lo scompiglio fra i cavalli e le carrozze. Guai a chi posa il piede sulla carreggiata! Viene richiamato all'ordine dall'agente di polizia preposto alla circolazione, un impiego che farebbe ridere i romani. Agli incroci, il pedone attende, per attraversare, il segnale dato da tale agente il cui bastone è dipinto di rosso vivo. Nessuno così può dire di non aver visto il segnale né discutere sulla multa che deve pagare seduta stante, portandosi a casa una ricevuta redatta in debita forma, con l'ora e il luogo dell'infrazione.

Al mercato, il venditore non grida né gesticola, pesa la merce su una bilancia non truccata. Saggio, diligente, scrupoloso, il cliente ripone nella borsa i prodotti acquistati. Paga in contanti, dopo aver verificato sui cartelli se non è stato defraudato di un mezzo ducato, non che pensi che ci siano degli imbroglioni in questa città (purtroppo è vero che non ce ne sono!), ma per obbedire al dovere di essere economo. Ogni suddito del granduca si fa obbligo di badare alle spese. Maria de' Medici sarà un'eccellente regina di Francia. Verrà adulata dai compatrioti di Monsieur de Béthune. Negli stati di suo padre, verificare i conti passa per il segno di una coscienza civica elevata. Quanto ai debiti, nessuno sopporterebbe di averne. Ciò che gonfia di orgoglio un romano, con la consapevolezza che il suo valore individuale è incomparabilmente più alto delle sue entrate, da qui la reputazione di essere una persona disonesta.

Per educazione, ho chiesto al mio affittacamere se a Firenze si vivesse bene. «Perbacco, mi rispose il signor Racchiotto, come potrebbe essere diversamente, quando si discende da Dante e da Petrarca e si hanno sotto gli occhi (mi mostrava, dalle due finestre opposte del suo appartamento, la cupola vicinissima di Santo Spirito e quella più lontana di Santa Maria del Fiore) due capolavori di Brunelleschi!».

Mario borbottò che l'individuo che ci dava alloggio non discendeva da Michelangelo, di questo si poteva star sicuri, né da Leonardo da Vinci. Infatti il signor Racchiotto, da cui avevo preso in affitto una camera con un letto matrimoniale, si era ricreduto vedendomi tornare con Mario. Ci aveva assegnato d'ufficio una stanza dotata di due stretti letti messi a squadra, che la configurazione della stanza impediva di avvicinare.

Tratto più simpatico dei fiorentini: aspirano la c iniziale dicendo hosa invece di cosa, hasa invece di casa. Sonorità gutturali, importate, mi hanno detto, dalle reclute tunisine di Carlo V, e rimaste dopo la partenza delle truppe spagnole. Talvolta sembra che parlino arabo. Che peccato che l'influenza dell'Africa si sia limitata a tale particolare di pronuncia! E che non abbiano attinto dalla vitalità più grossolana del Sud un antidoto alla loro religione del leggiadro!

Ri-nascimento, ri-nascere, che strano ideale, mi dicevo ancora una volta. Calcare le orme altrui, cercare di uguagliare i propri antenati, essere fieri di innalzarsi al loro livello, limitare a questo la propria ambizione, che idea barbina ci si fa della gloria! La gaiezza, il disordine, l'eccitazione di vivere nell'attimo presente, l'arte di godere di ciò che ogni minuto reca, tutto ciò che fa di Roma una città di pericolo e di perdizione manca alla città del giglio. Il giglio! Questo emblema che Firenze porta così in alto, questo fiore che cresce inutilmente nel deserto riassume la sterile e fastidiosa arroganza del suo popolo.

Il governo, bigotto e compassato, del granduca Ferdinando non avrà fatto che accentuare un tratto innato dei toscani. Rigore di stato su uno sfondo di rigidezza naturale. Quanto apprezzavo la mia fortuna di vivere sotto Clemente VIII, i cui principi severi sono pronti a tutti gli accomodamenti!

Impiegavo le poche forze che la malattia mi lasciava a censire gli angeli. Benché senza illusioni, mi costringevo a studiarli, dovunque se ne trovassero: nei corridoi e nelle celle di San Marco, all'interno del duomo, nelle chiese e nelle cappelle, sulle pareti dei chiostri e dei cenacoli, nell'atrio della Santissima Annunziata, sotto il portico dell'Ospedale degli Innocenti, sulla cantoria scolpita. Dipinti, scolpiti o modellati in maiolica, erano sempre figure della massima finezza e distinzione, cui prestare un'emozione sessuale sarebbe stato della massima maleducazione. Persino Filippo Lippi, che aveva rapito una suora, e suo figlio Filippino, frutto colpevole di quel sacrilegio, avevano continuato a dipingere cherubini eterei. Dopo il Beato Angelico, troppo popolare per essere messo in discussione, nessuno avrebbe osato togliere agli angeli la loro aureola di luce né la loro cintura di castità.

[...]

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III
Questo, Cristo?



Uno dei sette fondatori della società della Misericordia, Tommaso Palmieri De Franchis, mi proponeva duecentonovanta ducati per eseguire una Flagellazione. La sua famiglia possedeva una cappella nella chiesa di San Domenico Maggiore. Geloso del mio lavoro, mi obbligava a dipingere il quadro direttamente in tale cappella, davanti all'altare maggiore su cui aveva intenzione di collocarlo. Chiudeva a chiave la cancellata dietro di me, per tenere a distanza i curiosi.

Attorno a San Domenico Maggiore si estende il quartiere di Spaccanapoli, divenuto in fretta il mio preferito. Spaccanapoli, che nome per la principale delle vie che si aprono un varco alla meno peggio nel viluppo delle abitazioni! Essa fende il corpo appiccicoso di Napoli come una spada che trafigge un ventre. Tutto è fisico in questa città, tutto è sensuale e inebriante. Guidato da Gregorio, che aveva mantenuto le relazioni e ripreso le abitudini nei luoghi della sua infanzia (facce buffe e losche che accrescevano il divertimento delle nostre passeggiate), esploravo con piacere quel labirinto. Vicoli scuri e umidi, bassi senza luce, fragore di voci gaie malgrado l'estrema povertà, nitriti di cavalli, odori nauseanti di fritture, botteghe di statuine del presepio, bancarelle di verdura, grida di venditori, pianti di bambini, vociferazioni delle matrone, tutto ciò che veniva considerato riprovevole dal buonsenso legato ad alcune regole elementari in materia di salute pubblica e di educazione si dispiegava lì in una sfrenata esuberanza.

Il libraio di via dei Tribunali, omone gioviale che mi riforniva di libri su Napoli, mi mostrò il resoconto di un viaggiatore svizzero che si scandalizzava perché individui che vivevano con così poche risorse e in condizioni di igiene così deplorevoli osavano essere contenti della loro sorte. «Senza le vessazioni della soldatesca spagnola sarebbero perfettamente felici». L'uomo rideva fragorosamente dell'indignazione dell'autore svizzero.

Persino la trasformazione anarchica della pianta originaria della città forniva a quel cittadino virtuoso una prova che si viveva infinitamente meglio a Ginevra che in quella terra barbara. All'inizio della sua storia, Napoli aveva beneficiato di una planimetria razionale: accampamento militare piantato dai soldati romani, aveva strade diritte che si incrociavano ad angolo retto. Che cosa restava di quel reticolo regolare? La fantasia del popolo aveva preso il sopravvento, reso irriconoscibile il tracciato iniziale e trasformato la fredda simmetria in un intrico caotico. Più niente era rettilineo; persino sui due assi, i famosi cardo, da nord a sud, e decumanus, da est a ovest, ogni sorta di rientranze, di sporgenze, di aggiunte abusive, di escrescenze bizzarre aveva messo a soqquadro l'allineamento impeccabile dell'inizio. Quanto ai vicoli, che si inerpicavano a casaccio, avevano del merito a intrufolarsi fra esposizioni di vettovaglie, mucchi di spazzatura, ingorghi di carri, mobili fuori uso di cui ci si sbarazzava gettandoli dalla finestra. Il piede scivolava sugli escrementi, i cibi andavano a male per il caldo, il vino inacidiva nei recipienti senza coperchio, le mosche stordivano con il loro ronzio, i clamori assordavano. In preda a un'ebbrezza di sensazioni forti, avevo voglia di dissolvermi, di fondermi nella massa vischiosa, corroborante, chiassosa e olezzante dei bassifondi napoletani.

Il complesso di San Domenico Maggiore domina una piazza che, senza essere molto grande, ha la faccia tosta di essere irregolare, all'incrocio di due vie, che si allargano l'una nell'altra più che tagliarsi. La chiesa, invece di aprirsi su tale crocicchio, gli volta le spalle. Si è mai vista una simile insolenza? In qualsiasi altro posto, e soprattutto nei paesi dove si stampano tante gravi considerazioni sulla disgrazia di abitare una città così favorita dal clima ma compromessa dalla pigrizia, dall'incuria e dall'irresponsabilità dei suoi abitanti, sarebbe una bizzarria incomprensibile, una sconvenienza da criticare, un errore che costerebbe caro all'architetto. Lì nessuno si stupisce che una chiesa dia su una piazza non con la facciata ma con l'abside. Una piazza, in un sistema di pensiero logico, serve da vestibolo a un edificio pubblico. Il suo compito è di permettere alla folla che entra o che esce di affluire o di defluire senza difficoltà. Si entra in San Domenico da una porta laterale larga appena tre piedi, chiusa a chiave la notte: è un'entrata decorosa per un edificio così importante? La piazza è utile solo alla felicità filosofica di un popolo che può pensare, nonostante la sua povertà, di conservare il lusso di avere a propria disposizione, in una città in cui ci si disputa aspramente ogni pollice di terreno, uno spazio che non serve a nulla.

Le classi alte della società tradiscono persino nella configurazione dei loro palazzi questo gusto del gratuito che spingono all'assurdo. La magnificenza del portale, l'altezza e la profondità della volta che dà accesso al cortile, lo splendore dello scalone che occupa un'intera ala e, lungi dall'essere ridotto a una funzione, c'è solo per la gloria, tutto attesta un culto stravagante del superfluo.

Un alto palazzo cupo si erge davanti alla porticina da cui si entra a San Domenico Maggiore. Gregorio voleva sapere se non ci fosse un altro accesso alla chiesa, e se dovessimo passare per forza davanti a quel palazzo. Si faceva il segno della croce ogni volta che ne rasentavamo la facciata.

«Chi ci abita? chiesi. – Non parlare così forte! disse spaventato. Il principe di Venosa». Aveva abbassato ancora la voce per pronunciare quel nome. «Il principe di Venosa? – In passato ha ucciso di propria mano la moglie e il duca di Andria, che aveva sorpreso insieme nella camera da letto della principessa». Rinchiuso nel suo palazzo, l'assassino espiava da quindici anni il duplice delitto. «Non esce che a notte fonda. – Mai durante il giorno? – Una volta all'anno soltanto, per la processione al convento di San Martino».

Il mio amico libraio cambiò colore constatando che prendevo alla leggera quella voce. Con un'espressione insolitamente tesa, mi dichiarò nel tono più serio che non era affatto una leggenda. Si trattava soltanto di sapere se il principe avesse ucciso personalmente gli amanti o avesse incaricato un sicario. «Solo a parlarmi di quei due sventurati, mi fai venire la pelle d'oca». Anche lui abbassava la voce e si segnava pronunciando quel nome: Carlo Gesualdo da Venosa.

Il ricordo di un altro delitto aleggiava nel quartiere. Giordano Bruno aveva studiato nel convento attiguo alla chiesa. I bagliori del rogo su cui avevo visto bruciare vivo il monaco per aver scritto in onore dell'amore qualche passo condannato dal papa illuminarono il quadro che stavo dipingendo?

«Questo, Cristo?». Lo stupore del conte Palmieri mi fece capire che il mio sogno, ancora una volta, aveva modificato la mia intenzione iniziale. Il contratto aveva fissato a grandi linee il soggetto: la colonna, Cristo legato con corde, l'agonia del Signore, la ferocia dei carnefici. Soltanto i miei tre carnefici rispondevano al programma. Volti di una potenza ottusa e bestiale, fronti stempiate corrugate dallo sforzo. Muscoli tesi, spalle da seviziatori. Raccolgono le loro energie per colpire. I loro volti trasudano crudeltà e odio, sembrano digrignare i denti.

Ma il Signore come reagisce? Dove sono i segni che sta patendo il martirio? A parte un pezzo di stoffa annodato attorno alle anche, è nudo. Leggermente accasciato sulla sua sinistra, il capo reclinato sulla spalla, offre il corpo alla luce e si lascia andare a... Come dirlo, senza ammettere l'enorme indecenza del quadro? Sì, è al piacere che si concede, al piacere di essere nudo sotto quella colata bionda e in mezzo a quei bruti che faranno sprizzare il suo sangue.

Avvolgente come una carezza, calda come una sera d'estate, sensuale come l'olio con cui si strofinavano gli atleti nel mondo greco e romano, la luce color oro antico scende dalla spalla verso il petto, si spande sul ventre, scivola lungo la gamba, si illanguidisce sulla coscia, ricopre di una calda emulsione il torso e di un balsamo intorpidente le membra abbandonate. I carnefici si spazientiscono. Vorrebbero strappare alla loro vittima lamenti, gemiti, grida di dolore. Ma no, nemmeno una protesta. Nessun guizzo di dignità, nessun gesto di collera.

Θ ancora un martire chi è incantato dai propri tormenti? Se l'estrema voluttà che lo assorbe non divorasse tutte le forze del suo animo e gli lasciasse la libertà di parlare, quali preghiere inaspettate gli sfuggirebbero dalle labbra!

Colpite più forte, che io possa godere più intensamente... Credete di farmi soffrire? Le vostre fruste sono per me più tenere di carezze. Ricevo i vostri colpi più deliziosi di baci... Colpite, straziatemi, accanitevi... Più sarete violenti, più piacere proverò... Se non mi aveste legato a questa colonna, mi lascerei scivolare a terra. O dolce estasi, o sfinimento beato... Vedete, vengo meno, la coscienza sta per mancarmi...

Dite che non sono Dio ma un uomo che ha usurpato l'identità di Dio. Conoscete molte creature nate da un padre e da una madre che sopporterebbero senza ribellarsi né cercare di dibattersi il supplizio che m'infliggete? Θ nella natura morale dell'essere umano insorgere contro l'abuso di potere e nella sua natura fisica difendersi dalle aggressioni. Θ stato così con me? Quando mi avete arrestato, non vi ho seguito docilmente? Siete dovuti ricorrere alla forza per condurmi qui? Adesso vi chiedo forse di stringere meno le corde che mi segano i polsi? Citatemi un solo essere umano che non si sia sottomesso alla relazione di causa ed effetto, che vuole che ogni ferita generi il dolore e che ogni dolore obblighi a gridare. Io ti colpisco, tu gridi. Solo Dio sfugge a questa concatenazione. Tu mi colpisci, io godo... L'uomo resiste, ricalcitra, si ribella, piange, urla, proclama che è ingiusto, si torce per la sofferenza. Dio alla sofferenza si abbandona, Dio la trasforma in voluttà... Colpite, colpite più forte, che il Dio che sono goda più intensamente del male che credete di fargli...

Il conte invitava gli amici a condividere il suo stupore. Questo, Cristo? Dimenticando che voleva tenere il quadro tutto per sé, lasciava aperta la cancellata della cappella e lo mostrava a chiunque varcasse la soglia della chiesa. Erano, ogni volta, un moto di arretramento, volti sconcertati, riflessioni incredule. Il cardinale e i vescovi coadiutori, avvertiti dalle voci che correvano in città, annunciarono la loro visita. Entrarono nella cappella e rimasero muti per lo sbalordimento. Sua Eminenza mi fece l'onore di arrossire. Mi credetti sistemato: avrei dovuto subire di sicuro un nuovo processo. «Questa, una Flagellazione?» mormorava il cardinale. Tuttavia, non sembrava offeso. Lo sguardo che posava sul quadro era più divertito che severo. Quel Cristo in deliquio sotto la luce gli piaceva, come piaceva agli altri prelati e ai visitatori che si susseguivano nel tempio.

Eravamo a Napoli, lo avevo dimenticato. A Napoli, cioè lontano da Roma e dal Vaticano, dal governo del papa e dalla censura pontificia; in una città che la commistione di sacro e profano non può scandalizzare; in piena terra pagana, dove la carne non è oggetto di anatema. Secondo le Scritture, la Flagellazione del Signore è una metafora della punizione meritata dal corpo: articolo del dogma assurdo a Napoli. Insomma, come vivere ai piedi di un vulcano il cui cono s'impennacchia di vapori rosseggianti che danno piacere per la loro bellezza e nello stesso tempo incutono timore, senza ricercare in ogni cosa sensazioni estreme?

Il cardinale era così stregato da quel quadro che mi pregò di fargliene una copia che avrebbe collocato nella sua cappella privata. Il conte Palmieri non poté opporsi a tale richiesta. Quando tentò di protestare, il porporato gli chiuse la bocca porgendogli l'anello da baciare.

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