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| << | < | > | >> |IndiceNOTA DEL CURATORE 9 PARTE PRIMA - SAN DONATO Il mondo alla rovescia 17 Chi ero? 21 Il suo piccolo, femminile orecchio 27 Una strada è una strada 33 Il coltello e il pane 41 Nuovo disordine a San Donato 46 Una scoperta archeologica 53 Prime profezie e loro esattezza 61 Sangue sotto la luna 65 PARTE SECONDA - I POVERI DI GESÙ CRISTO Un bianco cortile, una palma 75 Fiamme e fuoco 87 Golosità 95 Il piccolo cavaliere 108 Devozione, derisione 117 Complotto, crepuscolo 128 Una svista piuttosto strana 142 Un debutto fallito 153 Il segreto delle parrucche grigie 160 Una passione 172 PARTE TERZA - NAPOLI Castrapolis 191 Achille in Sciro 222 Gli spaghetti del re 238 Un uomo alla sua finestra 244 Orfeo 258 Il secondo piccione 270 Tutto o niente 276 Dio o bue 291 EPILOGO 299 |
| << | < | > | >> |Pagina 17Avevo dieci anni, undici forse? quando presero quella decisione. Io o uno dei miei fratelli accompagnavamo nostro padre nei campi. Il paese, allungato su una cresta, dominava due profonde vallate. Salivo in groppa dietro a mio padre. L'asino, traballando sul pietrame, cercava il cammino lungo la china. Lo legavamo al tronco di un grosso ulivo che si levava nel campo deserto. Mio padre mi rimproverava spesso, evitavo di poco lo scapaccione. Non sempre. Sudava sangue e acqua dal mattino alla sera, la polvere lo accecava, e poi quell'arida terra ripagava malamente i suoi sforzi. Ma chi è quel viaggiatore così privo di scrupoli da scrivere che, dopo avere superato Salerno e volgendo lo sguardo alle ripe montagnose della Calabria, osservò con stupore un paese celebre per la sua fertilità dove, nonostante la generosità della natura, vi erano soltanto pendici sassose lasciate incolte dall'indolenza degli abitanti? Ebbene, signore di Venezia, voi che trovandovi nel centro della Magna Grecia non riusciste ad assaporare un vivo godimento come avreste sperato, sappiate che il luogo comune più ingiusto e più sciocco ingannò il vostro spirito. (Tanto peggio per questa tirata. Uffa! un po' di eloquenza fa bene). Dopo l'insediamento dei primi coloni greci che infatti la fertilizzarono, la nostra regione ha subito, caro signore, non soltanto venticinque secoli di invasioni straniere e di piraterie barbaresche ma sconvolgimenti naturali, terremoti e incendi di foreste di tale violenza selvaggia che i fiumi si prosciugarono, le sorgenti inaridirono, le piogge cessarono, le coltivazioni vennero distrutte e la popolazione asservita a un lavoro estenuante per rendere i sassi meno sterili. E voi che ci accusate di detestare il lavoro e che, da quanto dite, foste costretto ad ammettere che i romani non ebbero tutti i torti chiamandoci Bruti invece di Bruttii, possiate un giorno rimangiarvi il vostro infame gioco di parole dopo avermi letto. Posso già ritenermi soddisfatto di non avere mai trovato nessuna opera di argomento romano interpretata da me in cui qualche poeta di corte ben nutrito, ben vestito, fiero come voi della propria superiorità di uomo del nord, si sia sentito in dovere di divertire il pubblico dei grandi teatri, ostentando questo pregiudizio e costringendomi a ripetere una menzogna che farebbe inorridire un cuore onesto e a diffondere una calunnia smentita da tutti i miei ricordi d'infanzia. Tutte le terre appartenevano al principe di Sansevero che arrivava da Napoli soltanto una volta all'anno. Rimaneva un giorno solo, il tempo di ricevere l'omaggio dei vassalli, verificare i loro conti e intascarne i redditi. A mezzogiorno si metteva a capo della processione che percorreva l'unica strada del paese. La sera, dal balcone, guardava i fuochi di artificio fatti in suo onore. Quindi ripartiva sulla carrozza stemmata. L'aurora stava appena sorgendo. Uomini, donne e bambini, ammassati sul terrapieno davanti al precipizio, seguivano con gli occhi la pericolosa discesa del tiro. Poi, all'improvviso, le bestie iniziavano il galoppo e, in lontananza, fra una nuvola di polvere, non rimaneva che lo scintillio delle dorature nel pallido sole. Per capire l'impressione lasciata in me da quel ricordo è necessario descrivere l'estrema povertà della vita quotidiana a San Donato. Nessun contadino possedeva oggetti di valore; la moneta sonante, per così dire, non circolava, e anche l'acqua era talmente preziosa che ai bambini era proibito affacciarsi ai pozzi e contemplare nel profondo lo scintillio della cupa superficie. Secondo le nostre antiche credenze un semplice sguardo di desiderio avrebbe potuto inaridire la sorgente. Oh, scintillii misteriosi nascosti negli abissi della terra! Avete esercitato su di me un fascino maggiore dei più sontuosi gioielli che abbiano mai sfavillato al San Carlo durante una serata di gala! Il principe che, durante la processione, avevo visto poggiare con indifferenza nello sterco il piede calzato da scarpini con fibbia d'argento, il principe di cui, essendo un cantore della cappella, avevo potuto osservare durante la cerimonia in chiesa il viso grave e lungo sorridere devotamente alle immagini sacre, lasciava in sua vece dei crudeli intendenti che si scagliavano su di noi urlando di affrettarci verso i campi appena le carrozze erano scomparse. Costoro percorrevano la campagna a cavallo e avevano un fiuto demoniaco. Guai a colui che, credendo di approfittare della solitudine e restare impunito in quel deserto, deponeva gli attrezzi per fare un pisolino all'ombra. Prima che il disgraziato avesse il tempo di riprendersi, veniva sferzato a sangue sulle mani e su qualsiasi altra parte del corpo, e anche sul viso con un colpo di cinghia. Io non potevo per la mia età dare un valido aiuto nei campi. «Buono a nulla», era davvero il più dolce dei rimproveri paterni che fioccavano senza pietà sulla mia docile testa. Il mio ruolo consisteva soprattutto nello spiare il galoppo del cavallo o il turbinio polveroso che lo annunciava di lontano, e avvertire mio padre ogni volta che il sole, l'arsura, lo sfinimento, la sete o l'orrore di dover contemplare davanti a sé quell'arida distesa, privandolo all'improvviso della sua forte vitalità, lo gettavano al suolo, vicino all'asino, stremato dalla coscienza della propria miseria e vinto da uno sconforto senza nome. Quante volte ho vegliato a quel modo il riposo di mio padre, allontanando dal suo viso sudato lo sciame delle mosche voraci, l'orecchio teso al minimo rumore, gli occhi arsi dal biancore delle torride colline a perdita d'occhio, senza lamentarmi né per la sua consueta brutalità né per la sua debolezza momentanea, ma travolto d'amore, e di pietà, vergognandomi di non poterlo aiutare in modo più degno, pensando fosse preferibile ricevere botte e ingiurie quando era ritto che contemplare ai miei piedi il suo corpo avvilito. Era il mondo alla rovescia! Pensavo al dipinto che ornava la parete della nostra stanza, attaccato a un chiodo sopra il letto, opera di un vagabondo che correva la campagna e predicava nei paesi le profezie di una setta di illuminati. La tela era divisa in dodici piccoli riquadri, uno più assurdo dell'altro, affinché lo spirito meno incline a dubitare della solidità delle apparenze meditasse sulla rapidità con cui le cose più stabili e i rapporti consacrati da una gerarchia immutabile possono trasformarsi nel loro contrario, e la vita possa ribaltarsi. Vi erano per esempio tre maiali intenti a sgozzare un macellaio e a rimestare in una scodella il sangue fresco di uomo, un mulo che cavalcava un elegante signore con in capo un tricorno guarnito di nastri, alcune oche intente ad arrostire il cuoco, un corteo di lepri, caprioli e lupi che in pompa magna accompagnavano al cimitero la bara del cacciatore, un intero albero appeso per le radici alle mele scarlatte, un guerriero con sottana che filava la conocchia vicino a una donna vestita da soldato, un sacco di grano che conduceva l'asino al mulino, un leone divorato da una lumaca, un carro davanti ai buoi e così via. Eppure, mi dicevo cercando di rinfrescarmi gli occhi con il ricordo dei colori sgargianti messi sulla tela con furba ingenuità – il vermiglio del sangue del macellaio, il giallo girasole del fuoco attizzato dalle oche, lo scarlatto delle mele –, eppure, se è vero che quaggiù tutto va male e le cose procedono secondo un ordine inverso alla loro originaria destinazione, il pittore non avrebbe avuto bisogno di immaginare situazioni tanto stravaganti! Avrebbe dovuto soltanto rappresentare un ragazzo intento a proteggere il padre forte e prepotente contro la canicola e le mosche, contro la crudeltà degli uomini, per suggerire che in un mondo in cui i bambini danno invece di ricevere e vegliano invece di essere vegliati c'è da aspettarsi qualunque eccesso o violenza criminale. Devo però aggiungere di non avere mai avuto la minima idea della sorte che mi sarebbe toccata di lì a poco. Fra tutte le cose impossibili che esistono in natura e che il disordine dell'universo, la collera di Dio o la follia degli uomini rendono, ahimè! possibili, neppure per un attimo mi soffermavo su quella che, com'era scritto, avrei dovuto sperimentare su me stesso. A dire il vero, una delle scenette alle quali ho alluso avrebbe dovuto incuriosirmi più delle altre, se fossi stato meno cieco e avessi avuto qualche presentimento. Ma non era così, e la vendetta degli animali contro i padroni mi sembrava l'esempio più spettacolare dell'inversione delle funzioni e della confusione dei ruoli. Felice, rivedevo nella mia mente il sangue colare dalla gola del macellaio, uno dei porci rimestare nella ciotola la pozza cremisi per farne sanguinaccio. Eppure alla mia gioia si mescolava una segreta angoscia, come se non fosse del tutto impossibile che il nostro asino, disteso placidamente accanto a noi, con un increspare di nari per così dire naturale, si apprestasse a inforcare il dorso di mio padre per farsi condurre al trotto umano fino al proprio riparo. Temevo e speravo quell'attimo per un motivo che oso appena confessare. Ben lontano dal volermi vendicare per le botte e le umiliazioni che, nei miei confronti, avevano sostituito la tenerezza e l'amore che un bambino si aspetta dal padre, sarei accorso accanto al mio per alleviargli la fatica e dirgli che non lo avrei abbandonato. Peccato davvero che mio padre non abbia potuto misurare dalla ribellione dell'asino la docilità del figlio! In lontananza, appollaiata all'estremità di San Donato, su un picco che dominava il villaggio, scorgevo il profilo della fortezza del principe. Quando, sul finire del pomeriggio, risalivamo verso San Donato sotto i raggi ancora cocenti dell'interminabile crepuscolo, c'era un momento in cui l'ombra proiettata dalla fortezza dalla parte opposta del picco ci raggiungeva sul sentiero. Mio padre sospirava di sollievo come se si immergesse in una tinozza di acqua fresca. Ma io, Dio sa perché, guardando il castello dalle ali nere, superando gli ultimi scoscendimenti del burrone all'improvviso oscurato, talvolta ringraziavo il cielo di averci fatto nascere sotto la protezione di un signore che ci assicurava il lavoro e i mezzi per vivere che altrimenti ci sarebbero mancati; talvolta invece mi si stringeva il cuore al presagio di una minaccia invisibile, invisibile e inspiegabile, perché l'asino era bello e solido sulle zampe, nonostante il doppio carico umano che portava sul dorso, e mio padre, liberato dal torpore che lo coglieva nei campi, era ridiventato mio padre, cocciuto, amaro, dispotico, era così che lo amavo. | << | < | > | >> |Pagina 33«Le visitatrici», le chiamavamo soltanto così. Nessuno sapeva il loro nome, restavano troppo poco e cambiavano troppo spesso perché si avesse voglia di saperlo. Da quando avevano incluso San Donato nei loro giri? Percorrevano il Regno di città in città, con la carrozza di posta, e poiché questa non saliva fino al paese, si facevano venire a prendere da un mulattiere alla fermata più vicina. Costui le portava direttamente a una casupola abbandonata, proprio di fronte alla canonica, dall'altro lato della piazza. Arrivavano all'imbrunire, cavalcando all'amazzone sulla rustica cavalcatura, un velo di crespo sulle spalle, la testa avvolta in uno scialle di seta giallo a frange, una rosa su ogni orecchio, ai piedi sandali con tacco di legno, un rametto di ruta fra le dita, una mano infilata nella cintura. Si fermavano da noi una o due notti senza mettere il naso fuori, poi ripartivano alla stessa ora, abbigliate nello stesso modo, una rosa in meno se un uomo le aveva conquistate. Almeno così diceva la leggenda, perché il trofeo non era mai rimasto nelle mani di un abitante di San Donato. Gli uomini entravano nella casupola a notte fatta, giovani e meno giovani, anche mio padre aveva l'abitudine di andarci, e più di un capofamiglia si avviava con lui verso la casupola, senza assentarsi da casa più di mezz'ora, andata e ritorno compresi, e senza essere costretti a portare in cambio altro che un tozzo di pane o un bulbo di scalogno. Don Sallusto non si era opposto a quell'usanza precedente alla sua venuta a San Donato. Aveva messo una sola condizione, strana quanto categorica. Nessuna luce doveva filtrare dalla casa e, viste le condizioni in cui questa si trovava, con le assi della porta sconnesse e parecchie tegole del tetto mancanti, voleva dire non accendere all'interno nessuna lampada o candela. Soltanto i lettori che non avranno indovinato ancora nulla sul mio insegnante di musica e sui segreti motivi che ispiravano il suo comportamento in questa e in altre occasioni potranno credere agli argomenti che sosteneva quando giustificava il provvedimento con la necessità di evitare lo scandalo, proteggere la reputazione di San Donato, non attirare la curiosità dei bambini, rispettare la santità della piazza dove dall'altro lato c'era la chiesa. Ad ogni modo noi bambini, a cui lo scopo di quegli incontri non offriva alcun motivo di mistero, eravamo eccitati dalla curiosità di sapere perché tali incontri dovessero avvenire nel buio più assoluto. Adesso ho capito. Don Sallusto proibiva alle visitatrici di mostrare il viso per impedire agli uomini di vederle, di dare lineamenti precisi al piacere che procuravano loro. Vietato a tutti interessarsi a una di loro in particolare, e amarla separatamente! L'istinto sessuale, di cui conosceva la forza, doveva restare qualcosa di oscuro e anonimo, senza nome e senza volto, come un'aspirazione confusa da sciogliersi nella grandezza dell'universo, escludendo ogni scelta e qualsiasi volontà selettiva. Insomma, la sua concezione dei rapporti erotici escludeva quasi completamente quello che spinge un uomo e una donna a guardarsi e a fronteggiarsi. Concepiva l'amore come l'occasione che permette a due esseri opposti per natura di abolire le differenze e riformare insieme una totalità indivisa; e così facendo era perfettamente coerente con il suo modo di gettare la pasta nella pentola delle partorienti, confondendo con quello stratagemma la distinzione fra maschio e femmina nell'animo delle comari.
Per mezzo di un prete dalla struttura ipogenitale l'antico mito
platonico dell'androgino riviveva in uno sperduto villaggio del
Mezzogiorno d'Italia. Tutti avevano il loro tornaconto, le visitatrici
che ripartivano con le due rose alle orecchie e i clienti. Essi approfittavano
dell'oscurità di quegli incontri per dimenticare le miserie
della vita in un gran vortice di nebulosa.
Dire che le donne, le spose, le madri di San Donato tollerassero l'antica usanza delle visitatrici sarebbe dire poco: esse addirittura proteggevano quelle donne, come si poté constatare quando arrivò da Napoli il giovane abate. Abate, ma non per sempre! Egli disse che un popolo scostumato non solo perdeva la protezione divina ma soprattutto diminuiva la stima che aveva di sé. Chi tuonò a quel modo non era altri che il futuro, grande Perocades, allora fuori strada essendo prete e incredibilmente ingenuo, come mi raccontò lui stesso ridendo del lontano infortunio, molti anni dopo il fiasco della predica. Dall'alto del pulpito, una domenica, ci spiegò con foga il dovere che, secondo Dio, ogni uomo aveva di custodire in sé l'unione dell'anima e del corpo. Ogni trasgressione alla regola morale doveva essere considerata come un attentato alla integrità primordiale, essenziale, della persona umana, gridò fissando corrucciato il lato della chiesa dove stavano gli uomini. Lo strano è che accennò appena ai sacri legami del matrimonio. La parola «Dio», in bocca sua, sembrava una semplice concessione all'abito che portava, e per «fedeltà» coniugale egli intendeva in realtà il «contratto laico» degli scozzesi. Sollevò concetti per noi incomprensibili, totalmente sconosciuti nel Regno prima della comparsa delle Logge nella capitale: i diritti, i doveri dell'uomo, l'uguaglianza, la dignità individuale, la coscienza di sé, con il candore e l'arroganza di un giovane teorico di vent'anni, degno emulo, come si rivelò poi a Napoli, di James Anderson e di Friedrich Münter. L'abito ecclesiastico si adattava male alla sua persona, intendo la veste sacerdotale perché, per quel che riguarda l'eleganza, indossava una sottana attillata e polsini di pizzo di un candore abbagliante in evidente contrasto, come anch'io fui in grado di notare, con la trasandatezza dell'abito di don Sallusto, per non parlare della miseria dei nostri. Il suo aspetto era particolarmente pulito e curato, ma se credeva di attirarsi per questo la simpatia dell'uditorio, ottenne invece l'effetto opposto. Colpiva per il suo modo di vestire e per il suo tono risoluto e senza sfumature. A ogni modo bisognava essere particolarmente male informati sulle cose della nostra provincia per chiedere a uomini che non avevano ancora una chiara idea della propria identità di comportarsi secondo le regole della responsabilità individuale. Il peccato, secondo lui, non consisteva nell'ingannare la propria moglie ma nell'ingannarla fiaccamente, alla cieca, con la prima venuta, casualmente, senza un vero desiderio né l'intenzione né il coraggio di impegnarsi in un nuovo legame. «Sappiate almeno ciò che fate quando peccate! Se venite meno all'impegno fatelo in piena coscienza!». I contadini di San Donato che vivevano in dimestichezza con le bestie e le piante, che a malapena si distinguevano gli uni dagli altri attraverso il nome, che si sposavano senza scegliere la moglie, che non facevano una grande differenza tra se stessi e il mondo, erano certamente le persone meno adatte a restare colpite da simili parole. Quanto poi alle cose che capitavano nella casupola di fronte alla chiesa, perché di questo in fondo si trattava, don Sallusto non aveva fatto altro che prevenire i loro desideri invitandoli a trovare la felicità con una qualsiasi delle visitatrici senza distinzioni. Poco importava loro sapere con chi avessero a che fare dopo avere chiuso la porta alle spalle! Del resto mal chiusa e spesso lasciata socchiusa! Niente poteva essere più goffo, o semplicemente più inopportuno e inutile di quel continuo ripetere in tutti i toni: «Un uomo è un uomo!», e predicare il dovere di agire in ogni occasione con l'esatta coscienza dei propri atti. | << | < | > | >> |Pagina 75I giovani garzoni che attraversavano la piazza dei Gerolomini per consegnare il pane nei vicoli fischiavano sotto certi balconi di loro conoscenza. Nelle pause di lavoro, mentre bevevo acqua di melissa per riposare la laringe affaticata dai gorgheggi, udivo benissimo quei fischi. Cominciavo a dirmi, disperato, guardando la palma dalla finestra: tu non conoscerai mai l'amore. Avevo quindici anni quando quelle crisi di malinconia cominciarono ad avvelenare le piccole vanità che, fino ad allora, avevo ricavate dai privilegi legati alla mia condizione. Il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, il cui bianco cortile è ornato da quest'unica palma, dà sulla piazza dei Gerolomini, di fronte alla chiesa che porta lo stesso nome. Per cinque anni mi era bastato pensare ai vantaggi che mi ponevano al di sopra dei compagni di collegio per sentirmi completamente appagato. C'erano due specie di allievi, i maschi, futuri compositori, e i castrati, futuri sopranisti. Le giornate erano faticose per tutti. Sveglia alle sei e mezzo, subito un'ora di studio o di ripasso degli esercizi fatti il giorno prima. Sette e mezzo: funzione in cappella. Ore otto: prima colazione con pane inzuppato nel latte. Otto e mezzo: lezione di contrappunto con il maestro. Nove e mezzo: lezione di letteratura. Dieci e mezzo: vocalizzi alla presenza del maestro e davanti allo specchio. Undici e mezzo: esercizi strumentali e corali. Mezzogiorno e mezzo: ricreazione. Colazione all'una. Poi, fino a sera: un'ora di letteratura e di storia, un'ora di ginnastica vocale, un'ora di studio musicale, un'ora di composizione. Alle sei funzione in cappella. I corsi di fisica acustica, di calligrafia, di contegno, di buone maniere occupavano la serata. Cena alle nove. Ricreazione. A letto alle dieci e mezzo. C'era un maestro per il canto e un altro per il contrappunto. Il portiere suonava la campana quando entravano nel cortile. Al suono della campana dovevamo precipitarci ad accoglierli in fondo alla scala baciando loro la mano. Antonio Sacchini insegnava contrappunto, Giuseppe Aprile, primo sopranista del San Carlo, il canto. Un giorno su due uno degli allievi più anziani, chiamato maestrino, doveva fare lezione. Gli allievi destinati alla composizione registravano i loro esercizi su una lavagna che presentavano ogni due giorni al maestro di contrappunto. Lavoravano in mezzo a un baccano spaventoso. Lo studio veniva fatto in comune, benché nessuno si applicasse alla stessa cosa. Ai quattro angoli della sala, che serviva anche da dormitorio, ognuno si esercitava con il proprio strumento. I violini suonavano in un angolo, i clavicembali in un altro, una cacofonia! Ben presto mi ero fatto un amico, si chiamava Cimarosa. Domenico, detto Mimmo. Avevamo esattamente la stessa età. Benché non fosse castrato era già pingue, grassoccio. Il rumore non lo disturbava. Compose le sue prime arie coricato sul letto, senza far caso al baccano. Anche noi, piccoli sopranisti educati soltanto al canto, dormivamo in una camerata che però veniva riscaldata. Ma essendo le nostre voci delicate, ci esercitavamo in stanzette appositamente adattate. A quattordici anni, il principe di Sansevero ottenne per me una delle due camere indipendenti. Feliciano, che era protetto del duca di Stigliano, occupava l'altra. Feliciano ed io fummo vicini per sette anni. Insalata, tonno e sardine costituivano il normale menù degli allievi. I castrati avevano diritto alle uova, al pollo e al vino. Cimarosa mi supplicava di tenergli in serbo un pezzo di pollo o un goccio di vino. Gli portavo di nascosto le provviste ma lui le disponeva in bella mostra sul letto, fra le partiture che volavano nelle correnti d'aria. Mangiava e beveva senza imbarazzo. Mangiando continuava a scrivere. Un giorno, cercando il calamaio, si accorse che per prenderlo avrebbe dovuto chinarsi verso i piedi del letto. Gli avevo tenuto in serbo una fetta di budino. Intinse la penna nel liquido zuccherato, impiastricciò tutto il foglio; ma riuscì a terminare il motivo senza staccare la schiena dai cuscini. Oltre alle lezioni e agli esercizi dovevamo servire messa nella chiesa dei Gerolomini e partecipare a certe feste e processioni. La nostra partecipazione era compensata, i soldi che portavamo al Conservatoriò contribuivano in parte alle spese per il nostro mantenimento. Ci vestivano da angioletti per vegliare i cadaveri dei bambini. Formavamo due gruppi di quattro che si davano il cambio ogni mezz'ora. Dovevamo restare in ginocchio vicino alla bara aperta e pregare in quella posizione durante tutta la notte che precedeva la cerimonia funebre in chiesa. Ali di vere penne pendevano alle nostre spalle. Una fascia ornata di lustrini brillava fra i nostri capelli. Una volta Feliciano venne scelto per quell'incarico. Non so come si accorse che alla luce dei ceri avevamo un aspetto pallido e lugubre. Trovò il modo di colorarsi delicatamente le labbra e le guance con uno strato di belletto rosa, né troppo né troppo poco. Dio solo sa con quale sotterfugio se lo fosse procurato e chi gli avesse insegnato a truccarsi con tanto gusto. I suoi compagni erano inginocchiati sul tappeto del salone. Feliciano riuscì a farsi portare un inginocchiatoio. Passò tutta la notte in preghiera, sulla imbottitura di velluto, la testa ritta e il corpo immobile, senza farsi sostituire quando venne il suo turno di riposo. Durante la notte il duca di Stigliano, il cui nipote era morto in giovane età, entrò nel salone parecchie volte. Rimase talmente colpito dalla bellezza e dal portamento disinvolto di quel ragazzo di dodici anni che decise di prenderlo sotto la sua protezione. I capelli biondi di Feliciano, ai due lati della fascia scintillante, sfuggivano in riccioli folli. Il suo viso risplendeva alla fiamma delle candele. L'indomani era sistemato in una delle due camere indipendenti, pagata a caro prezzo dal duca. | << | < | > | >> |Pagina 117L'abate Ferdinando Galiani, che ha trascorso dieci anni a Parigi e non si consola di essere ritornato a Napoli, si lamenta ad alta voce per la mancanza di distrazioni. È piccolino, l'abate, mulinella le corte braccine e grida con voce acuta che ha bisogno di un aneddoto. Un aneddoto, un aneddoto per Madame d'Epinay? Cosa diranno a Parigi se non trova qualcosa di piccante per la sua prossima lettera a Madame d'Epinay? Datemi un aneddoto! «Che figura farei se le raccontassi la storia capitata l'altro giorno al nostro luogotenente di polizia? Invitato a un gran pranzo di gala a Palazzo Reale, pensava fosse necessaria una parrucca nuova. La ordina. Il giorno stabilito, niente parrucca. Un cameriere va a cercarla. Il parruccaio si profonde in scuse. Sua moglie ha partorito due giorni prima; il bambino è morto alla vigilia; la madre stava ancora molto male. Non c'è da stupirsi se in simili momenti si sono scordati di portare la parrucca a monsignore. Ma eccola, è in questa scatola. Vedrete, egli dice, l'ho fatta con molta cura. La scatola viene aperta con precauzione per non rovinare la parrucca: dentro c'è il bambino morto il giorno prima. O Dio! grida il parruccaio, i preti si sono sbagliati, hanno seppellito la parrucca! C'è voluto un ordine dell'arcivescovo, un verbale, un decreto del consiglio e chissà cos'altro ancora per seppellire il bambino e dissotterrare la parrucca». Si fa circolo attorno all'abate. Il barone di Breteuil, nuovo ambasciatore di Francia, si informa dai vicini se può considerare l'aneddoto tipicamente napoletano. «Perché non ritornate a Parigi, se vi annoiate tanto con noi?», domanda con la sua solita aria presuntuosa e stupida il principe di Caramanico. «Perché, se lasciassi Napoli, a Parigi dovrei chiedere l'elemosina. Perderei infatti i miei emolumenti che sono la metà delle mie rendite». «Ma vi rimarrebbero i seimila franchi della vostra abbazia di Amalfi». «Nient'affatto, perderei anche quelli. Per dire la verità, non è che mi toglierebbero l'abbazia di Amalfi, ma nessuno dei contadini si ricorderebbe di pagarmi». «Com'è possibile? Spiegatemi, vi prego». «Lo stato di anarchia in cui viviamo è tale che nessuno teme le leggi della giustizia. Ma si ha invece paura dell'ingiustizia. Essendo magistrato, posso esercitarla. Mi temono, mi pagano». Il rappresentante di Luigi XV, stupito di sentire parlare a quel modo in un salotto, si soffia il naso con cura ostentata. «Signor abate, raccontate a Sua Eccellenza come avete ottenuto l'abbazia di Amalfi». «Che volete, ho sempre avuto la mania di raccogliere sassi sulle pendici del Vesuvio. Ne avevo fatto una piccola collezione che inviai al Papa con questa richiesta: Beatissime Pater, fac ut lapides isti panem fiant, fate che queste pietre si tramutino in pane. Non si sa mai, mi dicevo. Conoscete l'aneddoto del "lazzarone?" Un pover'uomo, un pezzente, vide un giorno un contadino che entrava in Napoli tirandosi appresso due vacche. "Mi regali le tue vacche?", chiese. L'altro strinse la cavezza e si allontanò in fretta. Un secondo lazzarone, amico del primo, disse allora: "Sei pazzo! Perché volevi che te le regalasse?". "Non si sa mai", fu la risposta. Sublime risposta! Non si sa mai. Sua Santità Benedetto XIV ebbe la bontà di accogliere la mia richiesta e di accordarmi, in cambio dei ciottoli, l'abbazia di Amalfi che ha una rendita di quattrocento ducati». «Ho visto migliaia di questi lazzaroni mendicare e dormire per le strade», dice il barone di Breteuil. «Signor abate, voi che siete un eminente economista, spiegatemi di cosa vivono e se è bene per uno stato lasciarli vivere così». «Decine di migliaia, signor ambasciatore, la metà della popolazione. Il Re non potrebbe avere amici migliori, né la monarchia sostenitori più validi». «Mi inchino davanti a una simile risposta ricordando ciò che diceva di voi Marmontel a Parigi, signor abate: il più brillante Arlecchino che l'Italia abbia mai generato, ma con la testa di Machiavelli sulle spalle». «Pare», dice il barone di Roccazzurra, «che fra poco la proibizione dei balli mascherati venga soppressa». «È stata la parola "Arlecchino" a farvi pensare al carnevale?», domanda allegramente Galiani. L'ambasciatore arrossisce fino alla radice dei capelli. «Rassicuratevi», prosegue l'abate. «Più abbiamo l'occasione di prenderci in giro, più siamo contenti, noi napoletani. Vero, Roccazzurra?». «Il nostro re Ferdinando è giunto a maggiore età», dice il principe di San Nicandro. «E per festeggiare l'avvenimento ha intenzione di riprendere il carnevale». Galiani solleva gli occhi al cielo e giunge le piccole mani. «Che Dio benedica la nostra graziosa Maestà! L'ultimo carnevale di Napoli è stato nel 1748. Avevo esattamente vent'anni. Che allegria, che follia per le strade! Spero molto per la mia patria nella ripresa di queste feste! Sono più di vent'anni che i napoletani non hanno avuto l'occasione di celare i visi. La galanteria è la pietra pomice che dà lustro alle nazioni». Lord Hamilton, l'ambasciatore d'Inghilterra, un uomo alto e magro, dalla pelle scura e il naso aquilino, domanda allora: «È stato dunque Sua Maestà il re Carlo a proibire il carnevale? Ma perché?». «Già, perché?», ripete l'abate Galiani. E, per aumentare la confusione del barone di Breteuil, aggiunge guardando da sotto in su: «Non siamo forse il paese di Arlecchino e di Pulcinella?». | << | < | > | >> |Pagina 191Non abbiamo ancora fatto cento passi in via dei Tribunali quando una vecchia completamente sconosciuta, vestita con un lungo abito nero e il capo coperto da uno scialle nero, si precipita verso di me. Si inginocchia, mi prende le mani tra le sue e comincia a coprirle di baci: cerco invano di liberarmi. Non bacia il dorso delle mani, ma cerca con frenesia febbrile e insieme cauta le parti carnose nell'incavo delle palme, i cuscinetti di carne all'inizio del pollice, sotto l'attaccatura delle dita. Vi depone baci precisi, rumorosi, con lo stesso slancio puerile che ho notato nelle beghine quando infilano sugli steli di ferro una fila di ceri davanti a un'immagine sacra. Il suo viso, da quel che posso osservare quando stacca le labbra dalle mie mani, mi sembra stanco, logorato dagli anni, dalle preoccupazioni, o da che cos'altro?, mi dico paragonando il suo gesto alla sollecitudine delle matrone di San Donato ogni volta che correvano dietro a don Sallusto per tentare di toccargli l'orecchio.
Antonio Perocades, che stamane è venuto a cercarmi in parlatorio, ha un
bell'abito blu. Ha saputo che sono di San Donato.
Sogni Via dei Tribunali, via San Pietro a Majella, la chiesa di San Pietro con la sua improvvisa frescura e gli affreschi di Mattia Preti che brillano nella penombra come acqua ghiacciata. Il pittore ha fissato sulle pareti il ricordo delle grandi pestilenze di Napoli. Perocades mi strappa alla contemplazione di quelle file di cadaveri coricati sotto la luna verde fra colonnati maestosi. Mi sospinge tra la folla in via Toledo. «A Parigi o a Londra», mi dice mentre tentiamo di farci strada nella ressa, «la gente avanza, va da qualche parte. Ha uno scopo. A Napoli sciama in strada soltanto perché non sopporta di rimanere rinchiusa tra quattro mura. Da qui nasce la sventura di questa città che avrebbe tutte le qualità per essere un grande centro d'affari, una capitale del commercio e dell'industria e invece vegeta, si adagia. È troppo facile accusare le pestilenze. La peste, la portiamo in noi stessi. Non sappiamo crescere. Che vuoi, non sanno neppure insegnare agli scolari a restate seduti davanti a un banco. Guarda i palazzi: neppure loro sono riusciti a diventare adulti». Adoro questi palazzi napoletani, la facciata che si sgretola o non è mai stata terminata, i balconi appesi nel vuoto davanti a false finestre, il cortile sconnesso, roso dalla muffa, le famiglie accampate nelle cantine e nei magazzini del pianterreno, gli enormi letti dai pomi d'ottone che si intravedono dalle finestrelle, la carrozza ferma tra mucchi di detriti, la scala gigantesca che porta al piano nobile. Che malinconia in questo immenso edificio, in basso c'è la miseria ma in alto, spesso, non è molto più divertente: una fuga di saloni gelidi, magnifici, che vengono aperti due volte all'anno e in fondo ai quali, in una stanzetta dov'è accesa l'unica stufa, abita la famiglia del duca, del principe. Due secoli di ozio e di fasti hanno dilapidato ogni loro ricchezza. Ciò che rimane serve per l'acquisto di porcellane, per rinnovare gli abiti di corte, per la manutenzione della carrozza e l'affitto del palco al San Carlo. Si accontentano di un solo pasto al giorno, servito da un domestico con i galloni sdruciti, un piatto di maccheroni che ingoiano in silenzio a metà pomeriggio. Le pesanti tende di broccato sono accostate davanti alle finestre. I fili di oro vecchio brillano mescolati alla seta. Tengono le tende accostate per avere l'illusione del lusso pur mangiando al buio per economizzare sull'illuminazione. Napoli splendida e decrepita: decrepita o non ancora costruita completamente? Quanto mi commuovono queste belle dimore alle quali manca sempre qualcosa, un particolare, un ornamento sulla facciata che forse è caduto, il balcone che forse è crollato; nessuno avrà pensato a ricostruirlo oppure non hanno avuto il tempo di risistemarlo o sono venuti a mancare i danari. È impossibile dire se questo disordine, questa incuria, quest'aria di sconfitta sia dovuta alla vecchiaia, all'abbandono o se il progetto iniziale fosse troppo vasto, troppo ambizioso, troppo folle. Perocades, freddo e preciso, critica: questi scaloni da megalomani non servono a niente, le loro pietre avrebbero potuto servire per erigere case per le famiglie sistemate nelle cantine, scuole per istruire i bambini che giocano nelle immondizie. Perché costruire abitazioni di sei piani che non si riescono mai a terminare, che intercettano il sole, l'aria? Alcune donne cantano alle finestre, resterei volentieri ad ascoltare le loro vosi meravigliose, ma Perocades alza le spalle: "il popolo napoletano, quando si sveglierà ai lumi che si diffondono nel resto dell'Europa, sarà stanco di canzoni come degli scherzi e delle farse che lo distraggono vergognosamente dalla propria miseria. Vorrà esprimersi in opere civiche, in scuole, ospedali, alloggi salubri, cooperative del latte, strade, manifatture, progresso sociale e umano".
Non dico niente, arriviamo sotto le finestre del principe di San
Nicandro, uno dei dodici o quindici il cui patrimonio è ancora valutato in
milioni. La folla che ha risalito via Toledo si ferma davanti
al suo palazzo. Guardano, si mostrano a dito lo stemma dipinto in
color porpora nel cartiglio di marmo, sopra il portale la cui cornice
si stacca a pezzetti. Ma cosa esattamente ammirano? La facciata malconcia con il
rivestimento che si scrosta? Il porticato laterale che
hanno dovuto chiudere con assi per impedire il crollo dell'ala? Oppure il danaro
del principe, la sua ricchezza considerata colossale?
Caro Perocades, forse qui potreste cogliere un tratto essenziale di
Napoli se per un attimo rinunciaste a credere che tutti necessariamente
condividono la vostra fede nel progresso, il vostro amore per
le cose ben fatte. Il principe di San Nicandro è ricchissimo ma sceglie
volontariamente, per sfida, per follia, o per qualche altro motivo che
bisognerebbe tentare di capire, di vivere in questo palazzo
decaduto. La povera gente di Napoli marcisce in bassi malsani ma
sceglie questo palazzo come meta della sua passeggiata perché l'idea
che si fa della bellezza è inseparabilmente legata a quest'aria di abbandono,
l'idea che si fa della ricchezza è indissolubilmente legata
a questa impronta di miseria. Prospero o squattrinato, Creso o
Giobbe, quale napoletano potrebbe riconoscersi in un edificio completamente
terminato? I loro sogni si limitano a questo miscuglio di
grandezza chimerica e realtà meschina, venerando San Nicandro
perché, nonostante l'enorme ricchezza, rimane solidale con l'oscura
sconfitta inflitta alla loro città.
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