Copertina
Autore Marco Albino Ferrari
CoautoreTuckett, Stephen, Mummery, De Amicis, Rey, Solleder, Pietrasanta, Benuzzi, Comici, Gervasutti, Cassin, Mila, Bhul, Livanos, Simpson, Seigneur, Scott, Messner, Boivin, Bonatti, Maestri, Bridwell, Higgins, Karl, Krakauer, Twight
Titolo Racconti di pareti e scalatori
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Supercoralli , pag. 356, cop.ril.sov., dim. 14x22x2,7 cm , Isbn 978-88-06-20966-7
CuratoreMarco Albino Ferrari
LettoreGiorgio Crepe, 2012
Classe montagna , sport
PrimaPagina


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Indice


  V La conquista dell'invisibile di Marco Albino Ferrari


    Racconti di pareti e scalatori


    Il Club: tweed, abissi e punture di spillo

  5 FRANCIS FOX TUCKETT
    Notte sulla vetta del Monviso

 15 LESLIE STEPHEN
    Le cime di Primiero

 38 ALBERT FREDERICK MUMMERY
    Il Cervino - la cresta di Zmutt


    Il linguaggio dei silenzi

 55 UGO DE AMICIS
    Bivacco mistico

 69 GUIDO REY
    La parete sud della Marmolada

 81 EMIL SOLLEDER
    La parete nordovest della Civetta

 92 NINÍ PIETRASANTA
    La parete ovest dell'Aiguille Noire

111 FELICE BENUZZI
    Cinquant'anni fa con Emilio Comici sul Zuc dal Boor d'inverno

124 EMILIO COMICI
    Torre Dario Mazzeni (m 22I2 - Alpi Giulie)

130 GIUSTO GERVASUTTI
    Perché

137 RICCARDO CASSIN
    Cima Ovest di Lavaredo, parete nord

150 MASSIMO MILA
    Semibivacco ai Drus

162 HERMANN BHUL
    Parete nordest del Badile

171 GEORGES LIVANOS
    Cronoscalata

179 JOE SIMPSON
    Pareti nord


    Bombole: o le hai, o non ne hai bisogno

191 YANNICK SEIGNEUR
    Makalu pilastro ovest ultimo assalto

202 DOUG SCOTT
    Discesa dall'Ogre

212 REINHOLD MESSNER
    Ai miei limiti. Prima ascensione solitaria all'Everest

224 JEAN-MARC BOIVIN
    Un tuffo col deltaplano da 7600 metri


    Col vento azul

245 WALTER BONATTI
    Cerro Torre, un sogno svanito

252 CESARE e FERNANDA MAESTRI
    Duemila metri della nostra vita

261 JIM BRIDWELL
    Cerro Torre in stile alpino


    Nei binocoli dei ranger

273 MOLLY HIGGINS
    La prima volta

281 REINHARD KARL
    El Capitan è infinito. The Shield e Zodiac

292 JON KRAKAUER
    Il silenzio del vento

314 MARK TWIGHT
    Spiegazione di un atteggiamento elitario:
    la consapevolezza di sé sulla Diretta ceca del Denali


333 Nota biobibliografica


 

 

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Pagina 38

Albert Frederick Mummery [1855-1895]

Il Cervino - la cresta di Zmutt


Quando avevo quindici anni, i dirupi della via Mala e le nevi del Teodulo m'ispirarono una passione che è cresciuta negli anni e ha influito non poco nel plasmare la mia vita e il mio pensiero. Mi ha condotto in regioni di tale magica bellezza che persino le meraviglie della mitica Xanadu, al confronto, sembrano ordinarie; mi ha procurato amici su cui contare nel bello e nel cattivo tempo; e ha stivato nella mia mente tesori di ricordi che né tarme o ruggine, né malattia o senilità potranno intaccare. Il diletto di fanciullo alla vista delle maestose, bianche vette torreggianti sull'oscurità dei pini torna ancora a destarsi quando la diligenza rotola greve lungo la gola del Diosaz, o quando il Cervino sorge tra la vegetazione della Val Tournanche. Ricordo come fosse ieri la prima volta che vidi la grande montagna. Scintillava nella placida maestà d'una luna settembrina e pareva, nell'immobilità della notte autunnale, l'incarnazione stessa del mistero, la dimora ideale per gli spiriti di cui, stando alle antiche leggende, pullulano le pendici sferzate da massi. Da quell'istante fui uno dei piú reverenti adoratori della grande vetta, e ogni qualvolta la roccia possente appare sull'orizzonte lontano, ne saluto l'avvento con devotissima gioia. Finanche l'involgarimento di Zermatt, gli escursionisti da quattro soldi con le loro mode dozzinali, non riesce a distogliermi del tutto dalle pendici piú basse; amo ancora ammirarla dai pini del Riffelberg, o guardarne la mole enorme ergersi sui prati in fiore dello Staffel Alp. In quei giorni lontani (1871), comunque, era ancora circonfusa da un alone di inaccessibilità solo in parte sfatato, e quando la guardavo tra il groviglio dei pini o dagli alpeggi ventosi, a stento osavo sperare che un giorno sarei stato fra i pochi gloriosi a scalarne i pendii ghiacciati. Tre anni dopo, però, l'alpinismo era diventato di moda, il diluvio era iniziato, e con le prime ondate fui sospinto verso quella cima a lungo agognata.

Mi rendo conto che, da quell'istante, il mio interesse per il picco avrebbe dovuto svanire, che uno scalatore che si rispetti non ripete mai un'ascesa; che il suo obiettivo è conquistare la vetta e, una volta raggiuntolo, il suo compito è assolto e dovrebbe soltanto riposare, in spudorato ozio. Il vero atto di fede sul tema è fulgidamente cristallizzato in un parere regalatomi l'anno scorso da un azzimato ospite dell'Hotel Monte Rosa: «Sono dovuto andare fino a Grindelwald per la scalata dell'Eiger. Che dannata seccatura, ma volevo finire con l'Oberland: non ci andrò una seconda volta!»

Quanto a me, confesso senza remore una deplorevole debolezza di carattere. Non appena termino di scalare una vetta, la sento amica, e per quanto possa essere delizioso andare in cerca, per dirla con Milton, di «fresche foreste e nuovi pascoli», in fondo al cuore anelo le scarpate di cui conosco ogni crepa, su cui ogni roccia ridesta ricordi di gaiezza e risate e gli amici del tempo andato. A motivo di questo tremendo difetto, sono stato sulla cima del Cervino almeno sette volte. Mi sono seduto sulla vetta con mia moglie quando, nell'aria senza vento, neppure un fiammifero acceso dava un fremito, e son fuggito dalla cresta frastagliata, giú per il crinale italiano, incalzato dalla furia folle di tuoni, saette e turbini di neve. Pure, ogni ricordo ha un fascino particolare, e la musica sfrenata della tormenta non dà meno piacere della gloria di un giorno perfetto. L'idea cui resta fedele l'alpinista ortodosso, secondo cui una sola scalata, in un dato giorno, in un dato anno, lo mette in grado di prevedere come quella vetta appaia tutti gli altri giorni, tutti gli altri anni, rivela che costui sguazza ancora nelle piú basse paludi del filisteismo. È vero: rocce e pinnacoli sono gli stessi, ma il loro fascino e la bellezza risiedono nell'incessante cangiare di luci e ombre, nelle brume che fanno loro da corona, nelle immense cornici e ghiaccioli pendenti, in tutte le mutevoli condizioni di tempo, stagione e ora. Inoltre, non solo l'immagine impressa di fatto sulla retina riflette ogni volubile instabilità del temporale o del sole estivo, ma l'osservatore stesso non è meno volubile. Un giorno è posseduto dall'elettrizzante orrore del precipizio, dalla scarna nudità delle stupende rupi, dalla corsa letale delle rocce quando qualche masso enorme rompe gli ormeggi e fende l'aria - emblema perfetto d'irrefrenabile collera. Un altro giorno non nota niente di tutto ciò, cullato da delicati toni d'opale e d'azzurro, si gode la mollezza vaporosa delle vallate italiane, l'aggraziato turbinio della neve portata dal vento, o anche dagli esili fiori incuneati nelle fenditure del granito. Se a volte la montagna imprime il suo umore allo spettatore, è altrettanto vero che costui vede soltanto ciò che si armonizza col proprio animo. Un uomo può, non c'è dubbio, essere fatto in modo tale che, nelle parole di Wordsworth:

    Una primula sulla sponda del fiume
    Per lui non è che una primula gialla.

E in nessun'altra circostanza o tempo potrebbe mai essere che gialla; ma altri, d'indole piú serena, che sanno gioire della bellezza del mondo, sono poco propensi a sentire l'«impronta della banalità» non importa quanto a fondo conoscano l'intima natura di roccia e ghiaccio su cui sole, nembi, brume, aria e cielo incessantemente tramano la gloria del paesaggio.

È stato, quindi, con interesse per la grande montagna, solo intensificato dalla prima salita, che ho attraversato il Tiefenmatten Joch nel 1879. Nel discendere il ghiacciaio, ho osservato a lungo, scrupolosamente, la grande cresta di Zmutt che sovrasta le lunghe scarpate di roccia e i sassosi canaloni del versante ovest. Certo non ero il primo ad averla osservata; tra gli altri, Mr Whymper, con le guide Michel Croz e Christian Aimer, l'aveva studiata attentamente dai dirupi della Dent Blanche. Le conclusioni cui erano giunti sono sintetizzate nel seguente brano: «Il mio vecchio nemico, il Cervino, visto dal bacino dello Zmuttgletscher, sembrava del tutto inattaccabile. - Crede, - mi chiesero gli uomini, - che lei, o chiunque altro riuscirà mai a scalare quella montagna? - E quando, imperturbabile di fronte al loro scherno, risposi risoluto: - Sí, ma non da quel versante, - scoppiarono in ghigni di derisione. Devo confessare che le mie speranze crollarono; giacché niente sembra, o è, piú inaccessibile del Cervino sul versante nord e nordovest». Non sembra, a ogni modo, che questo giudizio fosse del tutto attendibile. La cresta innevata e le rocce frastagliate con cui prosegue per un tratto, offrivano un percorso evidentemente facile sino a circa 4000 metri, e sull'ultima cresta, da circa 4200 metri fino alla vetta, lo scalatore aveva ben poco da temere. Le difficoltà vere si limitavano al breve tratto che doveva collegare le due vie maestre. Da questa come da precedenti osservazioni, era evidente che nel punto in cui la cresta di Zmutt si fa ripida, fino a divenire quasi perpendicolare, sarebbe necessario portarsi a sinistra nella fenditura profonda di un canalone che ricade in spaventosi precipizi sul Ghiacciaio del Cervino. La parte superiore del canalone, con cui avremmo dovuto confrontarci, non pareva però del tutto inespugnabile, e a patto che fosse possibile scalarla, saremmo tornati sulla cresta sopra il primo livello inaccessibile. Un poco oltre, dove si dispone di nuovo a perpendicolo, o piuttosto strapiomba, era possibile a prima vista sterzare a destra sulle lunghe pendici del versante ovest, e dopo una salita notevole, riguadagnare la cresta di Zmutt superando tutte le maggiori difficoltà. Avendo optato per questo piano, certo un po' ambizioso, scesi a Zermatt al fine di trovare la guida adatta per portarlo a termine.

Davanti all'Hotel Monte Rosa incontrai un vecchio amico, Alois Burgener, che mi diede una bella notizia: suo fratello Alexander avrebbe potuto unirsi a me per qualche giorno. Alexander, spalle larghe, faccia semi-nascosta dalla barba, fu interpellato e disse schiettamente che affrontare una simile spedizione con un Herr di cui nulla sapeva sarebbe stata una verfluchte Dummheit, una «maledetta stupidaggine». Fui assai colpito da tale spavalda sincerità d'opinione, che per me denotava non solo una saggia sfiducia verso uno scalatore non collaudato, ma anche fermezza nel portare a compimento un attacco, una volta iniziato, fino ai limiti estremi delle possibilità. Le mie previe esperienze erano state fatte, per lo piú se non unicamente, con uomini bramosi di intraprendere qualsiasi impresa, non importa quanto folle, e troppo ben educati per appurare se il cliente fosse esperto nell'arte della scalata. Già a uno stadio iniziale dell'azione, però, costoro sviluppavano, invariabilmente, la piú toccante, e la piú inopportuna, nostalgia per mogli e famiglie, sentimento nobilissimo che li costringeva ad abbandonare l'ascesa. I modi sicuri di Alexander, la schiettezza del suo linguaggio, mi lasciavano presagire che non fosse fatto di quella pasta, e ciò prometteva bene per i nostri futuri rapporti. Accolsi con gioia i suoi suggerimenti, e accettai di fare con lui qualche escursione preliminare.

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Pagina 69

Guido Rey [1860-1935]

La parete sud della Marmolada


Quella di Vajolet fu una scaramuccia bizzarra, un primo scontro vivacissimo con le Dolomiti.

Ma battaglia vera e grande si ebbe alla Marmolada due giorni di poi: una giornata campale, una pugna lunga, ostinata, durata dall'alba infino a sera.

La Marmolada è la vetta piú alta di tutto il Trentino e ne vien detta la Regina. La sua faccia sud, la sola che non porti ghiacciaio, è celebre nei fasti alpini; non fu scalata che una ventina di volte ed una sola volta, prima di noi, da alpinisti italiani. Essa si trova, per un caso fortunato, tutta al di qua del confine politico; il Regno d'Italia può adunque gloriarsi di possedere questo mirabile monumento di architettura alpina, che non gli fu tolto.

È un taglio formidabile del monte che, dalla vetta ove s'addensan le nubi, cade a picco per ottocento metri sui verdi pascoli del vallone di Ombretta; una muraglia immane, luminosa, di color di marmo antico, coronata in sul vertice da una cornice di ghiacci e spartita in tutta l'altezza da solchi paralleli, cosí che appare da lunge, nel gioco dell'ombre e delle luci, un portico solenne sulla fronte di un tempio colossale; e le nevi che scintillano in alto ne fanno il tetto di argento.

Entro quelle scannellature, attorno all'enormi colonne si aggira la via misteriosa per giungere al sommo.

Era ancor notte quando partimmo dal rifugio di Contrin; nel buio rimasi attonito al vedere quanta gente veniva con noi. Contai, e invece di quattro che si doveva essere, oltre i portatori, trovai sei. Cosí certamente aveva disposto il signor Piaz, ma non spiegavo il perché consentisse ad accrescere di tanto le lentezze e i pericoli di un'impresa già di per se stessa cosí ardua ed alta.

Non cercai di conoscere le vie imperscrutabili del mio signore, ma Ugo brontolava sommesso contro le nuove reclute ignote. Erano una guida tedesca ed una signorina, pure tedesca, di Berlino, giovanissima, che nel succinto abito maschile appariva diritta e snella e, nell'ombra, mi parve anche bellina.

Noi avevamo preso, come aiuto, il maestro di scuola di Alba, l'ultimo villaggio della valle, Iori, un simpatico giovine di vent'anni, ottimo arrampicatore.

Albeggiava quando giungemmo al colle dell'Ombretta; densi vapori luminosi salivano dal lato d'Italia, ma di sopra il cielo era limpidissimo. Ancora avvolti nell'ombra fredda, scendemmo breve tratto dal colle e ci accostammo al piede dell'immensa muraglia che già in alto s'illuminava dei riflessi dell'aurora.

Io avevo l'animo sospeso e curioso come di chi s'appressi ad un luogo tragico di cui ha udito a raccontare.

A piè della ripa ci fermammo per calzare le scarpette. Smesse le scarpe ferrate le consegnammo ai portatori che per altra via piú facile ce le avrebbero recate in vetta; tenemmo con noi solo le corde, un sacco leggero con un po' di cibo e la mia fedele Kodak.

Si fece una sola cordata tutti insieme: Piaz in testa, io subito dopo, la signorina ultima, e si partí.

Non credo ch'io abbia mai fatto un atto di volontà cosí fervido e cosí lungo come in quel giorno, in quel primo tratto di salita.

Le sponde del canale entro cui si saliva erano rivestite di ghiaccio e cosí pericolose che a tutta prima credetti che avremmo rinunciato; ma Piaz si cacciò su risoluto e compresi che a qualunque costo in quel giorno egli ci avrebbe condotto alla vetta.

Poco piú su il ghiaccio scomparve, ma non scemarono le difficoltà. Dopo un passo che mi era sembrato estremamente scabroso, speravo in un breve respiro, ma il tratto che seguiva era peggiore; metro per metro, palmo per palmo, tutto era un ostacolo solo, e le pietre si movevano sotto i piedi e minacciavano ad ogni istante il capo dei seguenti.

La vecchia Marmolada non era salda come le Torri di Vajolet.

Ero deluso, e sí ch'io sapeva che quel primo tratto viene considerato come uno dei piú difficili di tutte le Alpi.

Ma a dire difficile non si dice nulla. Nel racconto alpino viene a tedio il continuo ripetersi di questa parola. Chi ascolta è disposto a crederla un'esagerazione dettata dalla vanità o dalla paura; chi narra sente che la parola è lontana dal vero, che non raffigura i luoghi, che non esprime neppur debolmente i pensieri.

Forse solo l'impronta della camera oscura potrebbe fornire un'immagine suggestiva, ma chi ha cuore di fotografare in sull'abisso, afferrato con le mani e con i piedi alla rupe, là ove un moto impensato mette a repentaglio la propria e l'altrui vita?

E poi, la mia macchina era chiusa entro il sacco, stava sulle spalle di Piaz, e Piaz era trenta metri a picco sopra di me e non avrebbe consentito la pericolosa manovra. Credo che se in questi luoghi avessi solo pronunciato il nome di fotografia, egli mi avrebbe fulminato.

Talora lo udivo, Piaz, mormorare forte, col volto accosto al macigno; sembrava che parlasse alla montagna, alla sua montagna. Le diceva forse, a denti stretti, lo sdegno nel trovarla ribelle o la voluttà nello stringerla e nel vincerne le repulse? Forse le confidava il suo pensiero su qualcuno di quei cinque che venivano dietro di lui e dei quali si udivano tratto tratto a distanza le voci con lo strepito di qualche sasso smosso dai piedi.

Laggiú doveva essere uno strano dialogo fra Ugo e il Tedesco che eran vicini e non si comprendevano; Ugo ricorreva all'interprete Iori che abitava il piano superiore, ma quelle traduzioni fatte cosí per aria e trasmesse a distanza non dovevano riuscire modelli di chiarezza né giovare ai buoni rapporti fra le due nazioni alleate.

La comitiva si svolgeva lenta su pel monte in cosí lunga fila che quasi cento metri separavano il primo dall'ultimo. Si lottava bravamente, ciascuno per sé, parlando poco e dicendo solo parole essenziali. In fondo, dietro a tutti, veniva su ignorata e silenziosa la signorina tedesca.

Curiosa vita d'un giorno! Essere legati alla medesima corda, ripetere per ore ed ore l'un dopo l'altro gli stessi moti, gli stessi sforzi, quasi sempre nascosti, divisi, vivendo ciascuno dei proprii pensieri! Al termine di un simile giorno ciascuno ha una propria storia da raccontare che riesce nuova al compagno, cosí che sembra che ciascuno abbia fatto una diversa salita. Quale storia avrebbe da narrare la signorina?

Ormai si procedeva da tre ore e forse un dugento metri erano già superati quando d'un tratto s'udí al di sotto il triste scroscio di pietre che si staccano e subito il fragore dei colpi di un masso che precipita e voci d'allarme e un grido acuto, indimenticabile, un grido di donna, lungo che non voleva finire. Era un urlo di terrore e di dolore, uno di quegli ululati umani che s'odono fra le mura degli spedali...

Fra' colpi già lontani dei sassi rovinanti, il grido declinava in un lamento che si affievolí e si spense nello strepito delle ultime scheggie che battevan sul fondo.

Non si udí piú nulla; per un attimo, tutto su della cordata, fu un silenzio altissimo. Che cos'era avvenuto?

Sospeso ad una rupe, con uno sforzo mi trassi in luogo piú sicuro ed ascoltai; mi parve lungo il tempo.

Ruppe il silenzio un altro suono terribile, una voce piena d'ira, una valanga d'imprecazione e di bestemmie. Era la furia di Tita; non mai i nomi del diavolo e dei santi proruppero cosí violenti in luogo cosí spaventoso. Malediceva tutti, la povera signora e le guide e uno piú di tutti gli altri che non nominava e che egli credeva colpevole di aver smosso la pietra; per quello erano gli insulti piú atroci: - Assassino! - gli diceva; ma Ugo, innocente, a cui eran rivolti, non li poteva udire, ché la voce non discende.

Là di sotto gli uomini invisibili discutevano, ma non comprendevo ciò che dicessero.

Ritrovo sul mio taccuino segnate fedelmente le bestemmie di Piaz che raccolsi e scrissi lassú; in quel momento non v'era per me proprio null'altro da fare. Né s'imprechi all'insensibilità del cuore d'un vecchio alpinista; io era freddo e calmo come giova di essere in simili frangenti; di fronte alle evenienze piú traffiche, l'animo sorpreso in piena lotta si mantiene forte e sereno. Non ero inconscio, giacché ricordo che, in quei lunghi minuti passati nel dubbio, affrontavo con straordinaria lucidezza dello spirito e rapidità di pensiero il problema assai difficile del soccorso, qualora vi fosse un ferito e quello piú dolente, ma assai piú facile, di un abbandono, qualora fosse accaduto... di peggio. E l'amico Ugo mi disse di poi che alle stesse cose egli aveva pensato.

Ricordo che, quando Piaz ebbe sfogato la piena del suo sdegno, io raccolsi tutta la mia dignità di seniore e gli dissi con fermezza: - Piaz, se perdete la testa voi, chi di noi ha da conservarla?

E questo bastò; tacque, con mirabile coraggio si slegò, scese da solo rapidamente nel precipizio, e, avvicinatosi al margine d'un salto, interrogò: - Fraülein, wie geht's ?

E, come la signorina era muta e nessuno di sotto rispondeva, discese ancora e interrogò piú forte: - Ugo! Come sta la signorina?

- Pare che vada meglio! - rispose la voce lontana dell'amico e quanto mi fu caro l'udirla! Allora vidi Piaz risalire in fretta come ripreso dal suo sdegno e allacciarsi nervosamente la corda; m'ingiunse di sciogliere il nodo che mi legava a quelli di sotto e disse: - Andiamo! - E, malgrado ch'io protestassi, partimmo soli. Non molto dopo giungevamo al primo luogo di riposo, uno spiazzo ove il monte sosta per un istante nella sua pazza ascesa.

Sedemmo l'uno accanto all'altro e si prese un po' di cibo. Oh! come furono calmi quei momenti passati sotto il buon sole, sulla vasta terrazza dorata! Non una sola parola degli eventi passati! Si discorreva pacatamente di monti; Piaz consentiva che questa fosse la salita piú difficile in tutte le Dolomiti, ma soggiungeva: per chi non abbia fatto le salite eccezionali; ed ormai io sapevo che cosa egli intendesse per salite eccezionali.

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Riccardo Cassin [1909-2009]

Cima Ovest di Lavaredo, parete nord


Siamo rientrati a Lecco da otto giorni quando leggiamo su un giornale un articolo che parla della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, definendola uno degli ultimi problemi insoluti delle Alpi. L'assedio dura da qualche anno, ma la bella non intende capitolare. Moltissimi alpinisti hanno ammirato quei formidabili strapiombi ritenuti inaccessibili. Qualcuno ha osato cimentarsi, né gli insuccessi sono valsi a farlo desistere.

È una partita aperta e ora l'ambiente alpinistico di Misurina e Cortina è in orgasmo perché due giovani rocciatori bavaresi - Hintermeier e Meindl - sono attendati ai piedi dell'immane muraglia, dove il ghiaione finisce. Sono fra i migliori campioni del Kaisergebirge, hanno già esplorato il terreno e attendono la giornata propizia per muovere all'attacco.

Il giusto orgoglio di italiani scatta in noi come una molla, cosicché, aiutati dal Gruppo Rocciatori che ci paga il viaggio, Ratti e io partiamo senza indugio, accompagnati da Nino Rossi. La vittoria della Torre Trieste ci ha trasfuso un entusiasmo senza limiti e speriamo di farci onore.

Non ditemi che sentimenti del genere contrastano con lo spirito dell'alpinismo: chi non spera di gustare l'indicibile gioia di una prima ascensione? Chi non se la sente di buttarsi a capofitto in una competizione, specie quando la posta in palio è di altissimo valore morale e i concorrenti sono i piú valenti rocciatori? Ogni periodo ha tendenze e gusti propri, un suo stile e una sua mentalità, e la nostra era l'epoca del sesto grado: l'audacia e la decisione erano le note dominanti della nostra gioventú.

Il treno ci porta a Carbonin. Da Misurina saliamo a piedi al rifugio, carichi come muli. Il tempo è uggioso, l'aria satura d'acquerugiola impalpabile. Abeti, mughi e ciuffi di rododendri stillano gocce.

Un giovane spinone ci segue, ce ne siamo accorti dopo un centinaio di metri: Ratti gli ha fatto delle feste e quello non ci vuole piú abbandonare. Temendo che perda la strada, gli buttiamo dei sassi, ma lui entusiasta, credendo si giochi, li rincorre e trafelato li riporta per mostrare la sua bravura. Solo quando tutti e tre lo inseguiamo urlando, si decide a malincuore a imboccare la via del ritorno: di tanto in tanto si volta a guardarci scornato, non riuscendo a comprendere quale guaio possa aver combinato per essere cacciato in cosí malo modo. Egli ignora che non possiamo perdere del tempo prezioso per riportare un cane al padrone: il sesto grado ci aspetta.

- Quello è piú di un sesto grado, - osservano il custode del rifugio e le guide presenti alla Forcella di Longeres quando, visto il pesante armamentario e udite le nostre domande, hanno avuto conferma del progetto.

- Che cosa conoscete della Nord di Cima Ovest?

Nulla conosciamo: avevo contemplato l'illogica muraglia strapiombante lo scorso anno, quando ero andato a ripetere la via Comici-Dimai sulla Nord della Grande... Sulla Ovest avevo fatto anche un pensierino - forse piú un presentimento che un progetto definito - e ora sono qui perché quel vago desiderio diventi realtà.

- Ventisette cordate ha respinto, - dice il custode del rifugio, e non pensa che la precisazione, anziché farci ammainare le vele della nostra bramosia, le gonfia: vedo gli occhi di Ratti brillare. - Nel 1933 Comici, la Varale e Zanutti non hanno sortito risultato alcuno... - l'identica formazione che vinse lo Spigolo Giallo! - Dimai, Carlesso, Demetz... - sento il sangue scorrere pieno e un bisogno d'azione urge in me. - E Comici ha ripreso i tentativi quest'anno, con Zanutti e Del Pianto. Ancora due giorni fa hanno salito un primo tratto, - raccontano le guide. Mentre la storia della parete si chiarisce, fuori il nebbioso crepuscolo imbrunisce senza ombre. Una cameriera entra in sala e accende le luci. - Nessuno è riuscito a giungere all'altezza del traversone, - spiega il custode, - perché le difficoltà sono al limite estremo e, notate, non sono nulla se confrontate con quelle che seguono -. L'indice segna su una cartolina i punti nominati dal discorso.

- Chi si accinge ad affrontare il traversone, deve sapere che indietro non si torna. Se arriva fino alla base del gran colatoio ha la vittoria in pugno ed è la salvezza. Altrimenti...

- Fin dove si è spinto il tentativo piú fortunato? - chiede Ratti.

- Il limite Comici è qui. Dalla base alla gran cengia del traversone sono duecento metri, e per metà è un'incombente fascia gialla che viene in fuori.

- Hintermeier e Meindl montano la guardia. Hanno rizzato la tenda a ridosso del ghiaione, e già diverse volte si sono cimentati con il primo tratto. Conoscono il terreno...

Piove da tre giorni, e meno male: cosí i rivali non sono saliti. Il giorno dopo il nostro arrivo - è il 27 d'agosto - nebbia e acquerugiola si susseguono. Io e Ratti, accompagnati da Nino Rossi, usciamo dal rifugio, giriamo intorno alla Croda del Rifugio, passiamo per la Forcella di Col di Mezzo, ci portiamo sul ghiaione e raggiungiamo l'attacco.

Fitte cortine brumose ci avvolgono: nell'ultimo trato parliamo sottovoce, guardinghi come contrabbandieri. Un colpo di vento apre uno spiraglio: vediamo Hintermeier e Meindl fuori della tenda intenti a scrutare donde vengano quel martellar di chiodi e quei secchi comandi. I loro occhi corrono alla parete, ma siamo defilati nel camino del primo tratto e non ci vedono. Chiamano, e noi facciamo finta di nulla. La nebbia si ricompone e, presa ormai visione del terreno, ci ricaliamo alla base, dove Rossi è rimasto ad attenderci. Nascondiamo parte degli attrezzi tra massi e lastroni e, zitti zitti, scendiamo sul sentiero e rientriamo al rifugio. I due rocciatori del Kaisergebirge si sono tranquillizzati: non hanno indovinato da dove venivano le martellate e, data l'ora e le condizioni atmosferiche, non hanno pensato che provenissero dalla Nord di Cima Ovest. La nostra è stata soltanto una prova, ma siamo decisi a far seguire subito un attacco a fondo, tentando il tutto per tutto. I pensieri si avvolgono come una spirale intorno alla meta. Risoluti a rompere ogni indugio, fissiamo di partire il giorno seguente, il 28 agosto.

La sera al rifugio ricucio le pedule che si sono sfondate. Il custode osserva un po', scrolla la testa, esce e ritorna con le sue quasi nuove. - Sono della stessa misura, - dice. Lo ringrazio, commosso di tanta solidarietà alpinistica. - Andranno certamente meglio, - aggiungo mentre do loro un'occhiata.

La sveglia è di buon'ora. Senza nemmeno vestirmi apro la finestra e guardo fuori.

- Com'è?

- Sempre brutto -. Banchi di nebbia si susseguono. In uno sguarcio momentaneo si scorge qualche cosa, e sono cime aggrondate sotto un cielo carico di nubi pesanti, d'attesa. Indugiamo un po' facendo colazione, e a turno usciamo sul piazzale del rifugio a interrogare il cielo. Sembra che il tempo volga leggermente al bello e ci decidiamo per la partenza.

- Andate? - chiede il custode.

- Quando saremo sotto decideremo -. La nebbia ci favorisce perché ancora una volta Hintermeier e Meindl non ci scorgono né ci sentono. Ci riportiamo all'attacco, disseppelliamo il materiale spostando cautamente le lastre di pietra, ci leghiamo. Abbiamo due corde di cinquanta metri, una staffa e la consueta dotazione di chiodi, moschettoni e martelli. Salutiamo Rossi e alle sette e mezza iniziamo la scalata. Si parte con una fessura superficiale, e dopo pochi metri c'è una cengia che porta obliquamente a destra, nel camino risalito ieri. Il camino si restringe, e pieghiamo a destra in un colatoio poco inciso, ma poi vi ritorniamo. Le difficoltà sono sempre sostenute e proseguendo giungiamo a un potente strapiombo a tetto: aggirandolo a destra si arriva a un posto di sosta.

Una schiarita permette a noi di scoprire i bavaresi e a loro di scoprire noi in parete. Li vediamo entrare e uscire dalla tenda e poi salire di corsa verso l'attacco, ma siamo già sotto al punto massimo raggiunto da Comici. È quasi mezzogiorno.

I due tedeschi, anziché entrare nel camino come abbiamo fatto noi salgono a destra dello spigolo e, alzatisi di qualche centinaio di metri, tentano con pendoli di spostarsi in diagonale per superarci. La scalata si tramuterà in gara a chi arriva primo?

Con espostissima traversata di circa quindici metri verso sinistra, giungo a una fessura strapiombante di una decina di metri, superata la quale attraversiamo a sinistra per un tratto di uguale lunghezza. Da qui una parete sale per circa trenta metri e sporge nettamente in fuori, con difficoltà esasperanti, priva di cenge per riposare. Ardui sono gli ostacoli per raggiungere il limite massimo toccato da Comici, eppure scompaiono di fronte ai quaranta metri successivi.

Intanto i rivali per un po' insistono, poi ridiscendono. Dal limite raggiunto da Comici alla cengia che sta sopra, sono quaranta metri di dislivello.

Abbiamo appetito.

- Mangiamo qui?

- Se rimandassimo al prossimo tiro di corda?

Sette ore ci abbiamo messo a superare il tratto successivo: sette ore senza tregua, tirando il fiato appesi ai chiodi, lottando a denti stretti con la montagna che si difendeva accanitamente. Quattro ore ho impiegato per fissare un chiodo su quella muraglia che mi buttava indietro, inesorabilmente. Alla fine ci sono riuscito. Il ferro è sicuro ma sono giunto al termine delle corde: fra me e Ratti non ci sono punti dove egli possa sostare, e allora sale per circa dieci metri fino al primo chiodo saldo che incontra, fa due staffe con il cordino, si appende alla parete stando nel vuoto e manovra le mie corde affinché io possa procedere. Lo avverto di fare attenzione, mi alzo di circa un metro al di sopra di quel chiodo che mi è costato tanta fatica e cerco di metterne un altro. Capisco però che il nuovo chiodo non dà affidamento e mentre tasto per fissarne uno piú sicuro, quello parte e faccio un volo di circa un metro. Per fortuna il chiodo sotto tiene. Risalgo, riprovo, torno a volare, e ogni volta è uno sforzo estremo. Devo fare pause per rilassare i muscoli quel tanto che la posizione lo consente, e per scaricare la tensione nervosa. Tre volte volo, ma sono piú testardo di questo cocciuto lastrone che mi sovrasta. E finalmente il chiodo entra.

La parete prosegue sempre, sporgendo in fuori. Lotto costantemente con difficoltà di grado superiore e infine giungo alla sospirata fessura orizzontale che solca la muraglia fino al grande colatoio. Qui è una cengia. Da sotto sembrava un comodo pianerottolo, invece è stretta e un po' inclinata. In gara con l'oscurità piantiamo i chiodi laterali e con le corde tendiamo delle staffe per sostenere i piedi. Finalmente possiamo sederci e mangiare: sono due pasti riuniti in uno, che consumiamo con voracità proporzionata alla nostra giovinezza.

L'agosto sta per finire e la notte subentra rapida dopo il tramonto. Quest'oggi il sole non lo abbiamo visto, e stanotte non ci coricheremo. Piantiamo alcuni chiodi alle nostre spalle e ci ancoriamo alla montagna per non scivolare giú nel sonno. Abbiamo la sensazione di volare: il grigiore delle nebbie che s'avvicendano sotto di noi dà la misura esatta dello strapiombo. La parete scompare oltre la corda sulla quale si appoggiano i nostri piedi. Siamo nel vuoto, come chi sta seduto sul parapetto di un balcone. Sono duecento metri dalla base, e il balcone sporge di circa trenta metri rispetto al punto di partenza.

Tutto ciò che è consueto qui è capovolto. Sopra di noi l'inverosimile edificio della Cima Ovest viene fuori con un altro tetto, un baldacchino enorme, ed è una fortuna: quando dopo mezzanotte si scatena la sarabanda di un violentissimo temporale, solo qualche spruzzo portato dal vento riesce a raggiungerci. Ma prima della mezzanotte accadono ancora molte cose...

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Reinhold Messner [1944]

Ai miei limiti. Prima ascensione solitaria all'Everest


Improvvisamente la neve sotto di me cedette. La pila frontale si spense. Caddi, picchiando una volta di spalle e una volta col petto, rimbalzando sulle pareti di ghiaccio: come al rallentatore, cosí vissi quel momento. Svanito il senso del tempo. Stavo cadendo da frazioni di secondo... o già da minuti? D'un tratto sentii di nuovo un sostegno sotto i piedi. Però anche la consapevolezza di essere prigioniero. Forse per sempre!

Avrei fatto bene a portare con me una radio ricetrasmittente. Me ne sarei servito per chiamare Nena che avevo lasciato cinquecento metri piú in basso, al nostro campo base avanzato, a 6500 metri di altitudine. Erano le 5 del mattino quando mi ero avviato. Nena era una provetta alpinista. Forse sarebbe riuscita a salire fino a lí, a calarmi una corda e a liberarmi da quella pericolosa prigione. Però la radio pesava quanto tre bombolette di gas, e un po' di combustibile in piú per il fornello mi era apparso piú importante della possibilità di chiedere aiuto.

Manipolai al buio la torcia che avevo sul casco e improvvisamente tornò la luce. La testa rovesciata all'indietro, vidi otto metri piú in su un buco del diametro di un tronco d'albero, e piú in alto ancora qualche stella. Le pareti di ghiaccio attorno a me, distanti un paio di metri fra di loro, brillavano d'un colore verde-azzurro e confluivano verso l'alto. Di lí non c'era modo di uscire. Con la torcia cercai di esplorare il fondo del crepaccio. Non se ne scorgeva la fine. Il ponte di neve che aveva fermato la mia caduta aveva le dimensioni d'un metro quadrato scarso. Fortuna, pensai, il corpo scosso da un tremito. Avevo paura. Tentai di riflettere: era il caso di indossare i ramponi, in equilibrio su quella piattaforma di neve marcia? Ci provai, ma a ogni movimento mi sentivo paralizzare dal terrore di scivolare piú in fondo. Poi, guardando meglio e con piú calma, scoprii una rampa che portava obliquamente verso l'alto. Ecco la via d'uscita. In pochi minuti raggiunsi la superficie: però mi trovai di nuovo sul versante a valle del crepaccio, esattamente come prima della caduta.

Come in trance, mi accostai alla voragine che mi aveva ingoiato dieci minuti prima. La prima luce dell'alba rischiarava il colle nord dell'Everest. Guardai l'ora: mancava poco alle 7. La caduta nel crepaccio del ghiacciaio mi aveva svegliato del tutto. Sapevo che c'era quel solo punto in cui potevo riuscire a varcare, forse, il crepaccio che fendeva tutti i trecento metri della parete di ghiaccio sotto il colle nord. Avevo scoperto quel ponte di neve, largo appena due metri, quattro settimane prima, durante la prima puntata esplorativa al colle nord, a quota 7000. In quella circostanza il ponte aveva retto il mio peso. Doveva reggermi anche adesso, sia pure per pochi attimi, perché - essendo solo - non disponevo né delle scale d'alluminio né delle corde coll'ausilio delle quali le spedizioni composte di piú persone usavano superare simili ostacoli. Due bastoncini da sci e una piccozza da ghiaccio in lega leggera erano i miei unici attrezzi. Mi imposi di agire con la massima cautela possibile. Al di là del crepaccio si levava una ripida paretina di neve. Mi piegai in avanti e piantai i bastoncini, con l'impugnatura in avanti, fino alle rondelle sul bordo della paretina. Poi, sorreggendomi con le braccia, mi lanciai dall'altra parte. Lo feci pur ricordando assai bene che piú di dieci alpinisti avevano già perso la vita sui pendii sotto il colle nord.

Si fece giorno. In lontananza, a oriente, su un mare di nebbie grigio-azzurre, si levava il Kanchenjunga.

Avevo fatto bene a interrompere il tentativo di luglio. La neve, resa molle dal calore del monsone, non offriva alcuna resistenza: si sprofondava e il pericolo di valanghe era altissimo. Ora - il 18 agosto - la neve era gelata e stabile, e ci potevo camminare bene senza affondare.

L'alba - un vago chiarore rossastro - disegnava la vetta dell'Everest. Si stagliava cosí nettamente contro il cielo di un blu profondo che riuscii a distinguere bene il salto di roccia che si leva sulla cresta nordest. Lí erano stati visti l'ultima volta, nel 1924, George Mallory e Andrew Irwine, in occasione della loro audace quanto tragica puntata verso la vetta. Nessuno seppe mai dire se i due avessero perso la vita durante la salita oppure durante la discesa. Forse avevano raggiunto la vetta già allora. In tal caso erano stati loro i primi a scalare la piú alta montagna del mondo, quella che i tibetani chiamano Chiomolungma, la «dea della madre terra».

Gli inglesi erano stati i primi a mettersi in testa di conquistare l'Everest. Dopo una spedizione esplorativa in grande stile, nel 1921, era seguito, l'anno dopo, il primo attacco vero e proprio, lungo l'itinerario che ora stavo seguendo anch'io. Avevano un equipaggiamento assai rozzo, a giudicarlo col metro odierno. Io, con quei materiali, non affronterei oggi nemmeno il Cervino. Mallory e i suoi amici Norton e Somervell avevano invece superato, per la prima volta nella storia dell'alpinismo, la quota di 8000 metri. George Mallory, uno spirito intraprendente, aveva capito già allora che l'Everest poteva essere attaccato e vinto in sei giorni, a patto di fare una buona preparazione e sei settimane di acclimatazione: partendo dal campo base, situato nei pressi del monastero di Rongbuk (5100 metri). Due anni dopo Mallory ci aveva lasciato la pelle, sull'Everest. Solo nel 1953, e lungo il versante meridionale nepalese - poiché nel frattempo i cinesi avevano invaso il Tibet e interdetto agli stranieri l'accesso al versante settentrionale -, Edmund Hillary e lo sherpa Tensing Norgay avevano finalmente raggiunto la vetta.

I cinesi avevano riaperto la frontiera nella primavera del 1980. I primi stranieri che ne avevano approfittato erano stati i giapponesi. Con una grande spedizione erano stati i primi, dopo i cinesi, a raggiungere la vetta dell'Everest dal versante settentrionale. Poco dopo io ero arrivato al campo base, passando per Lhasa e Shigatse. Ci avevo messo sette settimane. Un viaggio nel corso del quale avevo accumulato tante e varie impressioni sul Tibet, paese d'una estensione che sembrava infinita. Ero stato stregato dai colori pastello delle catene di montagne. Ecco, quello era un paese che fino ad allora avevo solo sognato. Ma contemporaneamente mi aveva anche depresso. Davanti alle capanne, fatte di fango e ripassate poi con la calce, non sventolavano piú le bandiere della preghiera tibetane: ormai c'erano solo bandiere rosse. Il monastero di Rongbuk, un tempo popolato da quattrocento monaci, era vuoto. Saccheggiato. Migliaia di affreschi si stavano sfaldando dalle pareti marce. I tetti dei templi erano crollati. Nei villaggi di montagna avevo visto tante facce misere e rassegnate. Lí la gente non sorrideva come fra i monti del Nepal. E che fine aveva fatto la cultura tibetana, cosí varia, cosí ricca? Il Potala di Lhasa, quello che era stato un tempo il palazzo del Dalai Lama, era ancora in piedi, ma non c'era piú vita nell'edificio. I pochi monaci fungevano da comparse. Un popolo aveva perduto il suo dio.

L'altimetro indicava 7360 metri. Erano le 9 circa. Ora salivo piú lentamente. Avevo impiegato due ore a percorrere il tratto fino al colle sud. A tratti affondavo nella neve fino alle caviglie, e i punti in cui la neve era stata accumulata dal vento mi costavano un'enormità di energie. Però non dovevo esaurirmi. Domani e dopodomani sarebbe stato anche piú difficile e faticoso. I due bastoncini da sci, estensibili, erano di grande aiuto. Mi consentivano di distribuire il peso su gambe e braccia.

Il versante nord, alla mia destra, era una immensa superficie di neve dove affioravano scure isole di roccia. Si vedevano chiaramente le tracce lasciate dalle valanghe. Mi attenni per il momento alla tondeggiante cresta nord. Era la via piú sicura. Nessuna traccia di quanti erano già passati di lí. Tutto era sepolto sotto uno spesso manto di neve. Solo una volta, a 7500 metri circa, scorsi nella neve una corda rossa: «rifiuti» della spedizione che mi aveva preceduto. Era ancorata a un isolotto di roccia. Lungo corde come quella gli alpinisti si erano calati velocemente fino al campo base nei momenti in cui il tempo si era fatto brutto; e a quelle stesse corde si erano potuti aggrappare per preparare ulteriormente, gradino dopo gradino, la via alla vetta.

Con questa tattica ero salito anch'io, nel 1979, sull'Everest: lungo il versante meridionale. Stavolta non avevo nessuno che mi aiutasse a portare il materiale, che mi preparasse i bivacchi. Nessun compagno che mi aiutasse a tracciare il cammino nella neve fonda, nessuno sherpa cui affidare l'equipaggiamento da trasportare.

Esattamente come la lumaca che si porta la casa sulle spalle, mi portavo la tenda nel sacco. L'avrei rizzata, ci avrei dormito e poi l'avrei smontata e portata via per la notte successiva. Una seconda tenda mi avrebbe appesantito troppo, per non parlare delle apparecchiature per l'ossigeno che avrebbero raddoppiato il peso che portavo sulle spalle. A quell'altitudine già i 15 chili che avevo con me erano cosí pesanti che dovevo fermarmi ogni dozzina di passi, per respirare, dimentico di tutto quello che avevo attorno.

I tratti che percorrevo fra una sosta e l'altra divennero sempre piú brevi. Spesso, molto spesso dovetti sedermi per tirare il fiato. E rialzarmi mi costava ogni volta uno sforzo di volontà maggiore. Passo dopo passo, salii faticosamente fino a 7800 metri. Ebbi la costante impressione di avere qualcuno alle spalle che mi incoraggiasse.

Il primo posto dove pestai e compressi la neve coi piedi, per il bivacco, non mi piacque. Dovevo accamparmi a ridosso d'una roccia alla quale ancorare la tenda. Trovai il posto ideale pochi metri piú sotto, ma poi mi mancò la forza per disfare il sacco e piantare la tenda. Mi sedetti e guardai giú, verso il campo base avanzato, dal quale mi ero mosso alle 5 del mattino. Ora erano le 3 del pomeriggio. Intravvidi una macchiolina rossa. Nena aveva evidentemente disteso il sacco a pelo sulla tenda per ripararsi dal calore. Il caldo era stato finora peggiore del freddo. Di notte, al campo base, la temperatura era scesa solo fino ai 10 gradi sotto lo zero. Lassú, dove ero ora, calava a meno 20. Ma di giorno il sole mi prosciugava. L'aria povera d'ossigeno delle alte quote mi scorticava letteralmente la gola. Mi ricordai d'avere una bottiglietta con me, con dell'olio giapponese fatto con piante medicinali: me ne misi due gocce sulla lingua. Per un po' mi diede sollievo, dilatandomi le vie respiratorie. Quel prodotto vegetale fu, assieme all'aspirina, l'unico farmaco che presi.

Nena doveva riuscire a vedermi col binocolo. Sperai che questo la tranquillizzasse. Quando mi ero avviato le avevo spiegato che non ci sarebbero stati problemi se fossi riuscito a superare, il primo giorno, milleduecento metri di dislivello. In occasione dell'ascensione solitaria al Nanga Parbat, due anni prima - l'impresa che mi aveva dato la sicurezza psicologica necessaria a tentare l'ascensione solitaria all'Everest -, ero riuscito a fare il primo giorno milleseicento metri di dislivello. Ma in quella circostanza ero partito da quota 4800. E fra il procedere a 6000 o a 7000 metri di altitudine c'è una differenza. enorme. Lí dov'ero ogni movimento costava uno sforzo di volontà.

La mia tenda - neanche due chili di peso, però costruita in modo tale da poter sopportare anche folate di vento a cento all'ora - non richiedeva molto posto. Era grande giusto quel tanto da consentirmi di starci disteso con le ginocchia piegate. Faticai nel rizzarla, perché raffiche di vento continuarono a infilarsi fra i teli e a sollevarla. La fissai coi bastoncini da sci, la piccozza da ghiaccio e l'unico chiodo da roccia che avevo con me. Distesi a terra materassino di gommapiuma, spesso un dito, e mi ci stesi. Per un po' non riuscii a fare altro che star disteso e ascoltare il vento che scaraventava cristalli di ghiaccio contro le pareti della tenda. Soffiava da nordovest. Buon segno: il tempo si sarebbe mantenuto favorevole.

Dovevo cucinarmi qualcosa. Ma tutti i numerosi anche se di per sé banali e semplici movimenti fatti per preparare il giaciglio per la notte mi avevano stancato tanto che non riuscii a impormi di accendere il fornello: benché non avessi piú mangiato niente dal mattino.

Pensai con ammirazione a Maurice Wilson, un fanatico religioso che aveva osato intraprendere già nel 1934 un tentativo di ascesa solitaria all'Everest: e occorre aggiungere che non era nemmeno un alpinista. Era fermamente convinto che Dio lo avrebbe condotto in vetta. Non si era arreso nemmeno dopo tremende tormente di neve e ripetute cadute. Al primo assalto era riuscito a percorrere in quattro giorni il tragitto dal campo base avanzato fino al colle nord, a 7000 metri di quota. Esausto, era rientrato trascinandosi fino all'ultimo campo, dove due portatori lo stavano attendendo. Sapevano che Wilson non poteva farcela, avevano anche tentato di convincerlo ad arrendersi. Ma non appena era stato di nuovo in grado di reggersi sulle gambe, quell'ossesso era partito di nuovo. Un anno dopo avevano trovato il suo cadavere ai piedi del colle nord. Le ultime parole del suo diario dicevano: «Tempo splendido, muoviamoci».

Che fossi pazzo anch'io, come Wilson, ossessionato da un'idea che nessuno capiva, nemmeno gli alpinisti? Io ero già salito una volta in cima all'Everest. Perché dunque addossarmi ancora una volta il rischio, quella dannata fatica? Ma stavolta ero solo, ero su un'altra montagna, su un altro versante, anche se la vetta era la stessa.

«Preparati da mangiare», disse qualcuno accanto a me, in italiano. Mi rendevo ben conto di dover cucinare qualcosa. Parlavo a mezza voce con me stesso. E cosí la precisa sensazione d'avere un invisibile compagno mi fece sperare che provvedesse lui ad accendere il fuoco. Mi chiesi come saremmo riusciti a starci in due, in quella tenda minuscola. Fui sul punto di tagliare in due il primo pezzo di carne secca che prelevai dal sacco, per darne uno a quell'altro. Parlavo in italiano con lui: benché, essendo sudtirolese, la mia madrelingua sia il tedesco, e benché ormai, da tre mesi, non parlassi altro che l'inglese con la mia amica canadese Nena.

Il vento si era accentuato tanto da far vibrare la tenda e, ogni volta che aprivo d'una spanna l'ingresso per prelevare un po' di neve col coperchio del pentolino, le folate mi spegnevano la fiamma del fornello a gas. «Questa sarà una brutta notte», pensai.

Mi ci volle una grande quantità di neve per riuscire a ricavare un litro d'acqua. Prima mi scaldai una minestra a base di pomodoro. Poi due pentolini di tè salato tibetano. Dei nomadi mi avevano insegnato a prepararlo. Una manciata di foglie per un litro d'acqua, con due prese di sale in aggiunta. Dovevo bere molto: quattro litri al giorno, se non volevo correre il rischio di disidratarmi. Il sangue mi si sarebbe rappreso se non avessi ingoiato liquidi a sufficienza.

Impiegai un paio d'ore per far bollire quella roba. Stavo disteso, reggendo la pentola sul fuoco e infilandomi di tanto in tanto un pezzo di carne secca o di formaggio parmigiano in bocca. Masticavo anche pane secco sudtirolese: pane da contadini. Ma tutti quei miei gesti, sommandosi, diventavano una tortura fisica.

Mi infilai nel sacco a pelo con gli indumenti addosso e mi assopii. Quando aprivo gli occhi, non sapevo se era sera o mattina. Non volevo guardare l'orologio. Profonda, dentro di me, stava affiorando la paura. Non il timore di qualcosa di preciso, di specifico: era l'esperienza di tutta la mia vita d'alpinista, gli sforzi di trent'anni di ascensioni che si ridestavano in me. Le valanghe, le condizioni di prostrazione che avevo vissuto e affrontato, si sommarono in una paura globale, indifferenziata e profonda. Sapevo tutto quello che mi poteva capitare lassú. Sapevo bene fino a che punto sarebbe stata esasperante la fatica quando fossi arrivato a ridosso della vetta. Se non l'avessi saputo, non sarei riuscito a convincermi, piú tardi, a proseguire, ora dopo ora, passo dopo passo.

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Quando il sole dell'alba illuminò la tenda e sciolse la brina dalla parete interna, ricomposi il sacco. Lasciai li, di riserva, due scatole di sardine, una bomboletta di gas, la metà delle minestre e del tè. Durante la salita mi sarei arrangiato con il resto dei viveri. Il tempo era buono, il giorno dopo dovevo arrivare in cima.

Per i primi cinquanta metri fui lento. Poi ritrovai il mio ritmo, e procedetti abbastanza bene. Ora procedevo un po' a destra della cresta nord, col terreno che si faceva sempre piú ripido. Mi arenavo nella neve. Avanzavo con una lentezza esasperante. Finché arrivai a un punto dal quale si era staccata una valanga. Piú a destra, sulla parete nord, mi parve d'intravvedere un itinerario migliore. L'intero pendio era stato eroso da una valanga. Lí sarei riuscito a progredire piú rapidamente. Cercai di convincermi che, dopo due settimane di bel tempo, non doveva piú esserci pericolo di altre valanghe, che la neve piú in alto si era consolidata. Il tempo doveva conservarsi buono, per due giorni almeno.

Cominciai cosí una lunga traversata, leggermente in salita, con molte soste, però a cadenza regolare. Tuttavia gli sforzi e la concentrazione mi distrassero e non mi accorsi che il tempo stava peggiorando. Tutt'attorno c'era nebbia, ora.

I monti sotto di me s'erano come appiattiti. Andavo con la sensazione di non far piú parte del mondo di laggiú. Quando - alle 3 del pomeriggio, nei pressi del canalone Norton - guardai l'altimetro, ne fui deluso. Indicava solo 8220 metri. Avrei voluto salire ancora. Ma piú in alto non c'erano posti per allestire un bivacco. E poi ero anche troppo stanco. E cosí mi fermai.

Un'ora dopo avevo eretto la tenda su una sporgenza rocciosa. Avevo smesso di fotografare. Mi costava troppa fatica avvitare la macchina sull'impugnatura della piccozza, premere il pulsante, allontanarmi di dieci passi e aspettare il clic dell'autoscatto. Era molto piú importante prepararmi qualcosa da bere.

Sul bordo della roccia, la neve si era trasformata in ghiaccio. Ero sicuro che, in piena estate, nei momenti di bonaccia e di nebbia, la neve si scioglieva perfino sulla vetta dell'Everest.

Eppure dovevo stare attento, non permettermi alcuna leggerezza, perché a quella quota anche pochi gradi sotto lo zero potevano causarmi dei congelamenti. Che cosa sarebbe successo se l'indomani non si fossero diradate le nebbie? Che fosse il caso di aspettare, di fare una sosta piú prolungata? No, sarebbe stato insensato. A quelle altitudini non c'è modo di recuperare energie fisiche. Dopo 48 ore mi sarei trovato cosí infiacchito da non avere piú le energie sufficienti per attaccare la vetta. Non potevo indugiare. Dovevo o salire o scendere: non avevo altra scelta.

Due volte, mentre scioglievo la neve, misurai la frequenza del polso. Ben oltre i 100 battiti al minuto.

Quella fu una notte lunga. Tenni addosso i miei ingombranti scarponi di plastica e le scarpette interne, perché non si raffreddassero.

La mattina del 20 agosto lasciai tutto al bivacco. Stipai nella tenda anche lo zaino, anche se poco dopo ne sentii la mancanza, come di un amico. Era diventato il mio interlocutore, parlavo con lui, mi aveva incoraggiato a proseguire nei momenti di totale sfinimento.

La scarsità d'ossigeno e l'insufficiente irrorazione sanguigna del cervello furono evidentemente le cause di queste sensazioni, non spiegabili razionalmente: sensazioni che avevo provato anche quando ero salito da solo sul Nanga Parbat. Lassú, già nel 1933, anche l'inglese Smythe aveva spartito le sue gallette con un partner immaginario.

Il sacco era stato il mio accompagnatore. Ma senza di lui era piú facile proseguire. E poi con me c'era l'altro amico, la piccozza.

Il tratto per entrare nel canalone Norton non fu troppo difficile. Mi convinsi, non so perché, di esserci già stato, e quest'illusione mi aiutò a trovare l'unica via possibile: una fenditura innevata che portava a un gradone ripido, segnato da tratti di roccia piú chiara. Proprio al centro c'era una banda di neve, stretta ma continua, a favorire la salita. Di li era caduta, non molto tempo prima, una valanga, e quindi la neve compressa reggeva il mio peso. Però andando avanti si faceva sempre piú molle, e il cammino divenne sempre piú lento. Salivo aiutandomi con mani e piedi, come un quadrumane, totalmente apatico, lungo quel tratto senza fine. Quando mi ritrovai su una sporgenza sotto la vetta, la nebbia era cosí fitta che riuscivo a orientarmi solo a stento. C'era un muro di roccia scura e verticale a sbarrarmi la strada verso l'alto. Qualcosa dentro di me mi spinse a sinistra, e cosí aggirai l'ostacolo per uno stretto scivolo innevato.

Durante le successive tre ore perdetti il senso del tempo. Ogni volta che il cielo si affacciava azzurro fra le nuvole, credevo di vedere la vetta. Eppure mi meravigliai quando poi mi trovai all'improvviso dinanzi al trespolo d'alluminio, appena sporgente dalla neve, che stava a indicare la punta dell'Everest. I cinesi l'avevano piantato lassú nel 1975, nel punto di massima elevazione, per poter eseguire delle misurazioni precise. Ora però, nella stagione dei monsoni, la conformazione del terreno era completamente diversa. C'erano delle barriere di neve accumulate verso sud, che mi parvero piú alte del luogo dove stavo.

Mi accucciai, mi sentivo pesante come un sasso. Un brandello di stoffa, avvolto attorno al trespolo, era diventato di ghiaccio. Devi scattare alcune foto: me lo dissi, me lo ripetei come una formula. Ma a lungo non riuscii a trovare la forza per farlo.

Mi mancò perfino la forza per sentirmi deluso dalla mancanza di visuale. Era la seconda volta che raggiungevo il punto piú elevato della terra e di nuovo non riuscii a vedere niente. In compenso non c'era vento. Le nuvole ribollivano tutt'attorno, come se la terra, sotto, pulsasse. Non sapevo come ce l'avevo fatta, però sapevo che piú di cosí non potevo fare. Di lí, ormai, non potevo che scendere.

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Walter Bonatti [1930-2011]

Cerro Torre, un sogno svanito


Il vero intento del nostro viaggio in Patagonia, mio e di Carlo Mauri, era la scalata dell'ancora inesplorato Cerro Torre. Il Torre è una guglia granitica straordinaria, per buona parte incrostata di bianco ghiaccio spugnoso che si eleva a 3128 metri sul margine orientale del vasto Hielo Patagonico a circa 49 gradi di latitudine sud. Per prima cosa avremmo cercato una possibilità di scalata sul suo lato est, accessibile dalla pampa. Questo per diverse ragioni. Perché è prevalentemente roccioso, protetto dai venti, piú rapido da raggiungere, e perché le sue forme e il loro stato di glaciazione ci erano già noti, almeno in fotografia.

Potevamo sperare anche sul misterioso versante ovest, quello che dà sul turbolento Hielo. Ma su quel lato saremmo saliti, semmai, in extremis.

In tal caso, dato il carattere alpino della nostra spedizione - che non prevedeva quindi l'impiego di portatori - l'organizzazione argentina che ci ospitava aveva già ventilato la possibilità di effettuare un lancio aereo dei materiali sul grande Hielo, al di là dell'enigmatica catena divisoria. Nell'emergenza, questo lancio sarebbe stato dunque determinante per poter azzardare un tentativo sull'altro lato del Cerro Torre, altrimenti irraggiungibile dovendovi trasportare a spalle i necessari rifornimenti. Va tenuto conto che viveri ed equipaggiamento a quel tempo erano ancora assai poco specializzati, e anche molto pesanti; il che avrebbe limitato l'autonomia individuale, richiedendo un notevole sforzo per il trasporto appunto a spalle verso e sulla montagna.

Fu l'italo-argentino Folco Doro Altan a invitarmi e a farsi promotore dell'impresa. Da parte mia la scelta del compagno cadde su Carlo Mauri, grande scalatore e fidato compagno in tante imprese alpine.

Il gruppo risultò composto da sei andinisti e due alpinisti: Folco Doro Altan, suo fratello Vittorio, Oracio Solari, Ector Edmundo Forte, Miguel Angel Garcia, René Eggmann, Carlo Mauri e Walter Bonatti.

Il 4 gennaio 1958 Vittorio Doro Altan, Carlo Mauri e io partimmo da Buenos Aires con qualche giorno di anticipo sul resto del gruppo per compiere una preliminare esplorazione sul vergine versante orientale del Torre. Arrivammo al lago Viedma con un piccolo aereo da turismo, ma trascorsero tre giorni prima che potessimo vedere la nostra montagna.

Il 9 gennaio finalmente il Torre usci per la prima volta dalle nubi e, seppur fugacemente, si lasciò ammirare in tutta la sua imponenza. Eravamo ancora troppo lontani per studiare una via d'accesso, il Cerro svettava comunque superbo e orlato di candido ghiaccio. L'osservavamo da un intricatissimo faggeto nei pressi della laguna Torre e per contrasto appariva ancora piú irraggiungibile. Ugualmente imponente e distaccato si presentava il vicino Cerro Fitz Roy.

Avevamo collocato la nostra base presso il casolare di un indio, all'imbocco della Valle Fitz Roy. Poco dopo apprendemmo che, per un contrattempo, il nostro gruppo ci avrebbe raggiunti il 13 gennaio anziché il 9. Ma la sorpresa peggiore fu che un'altra spedizione, composta da alpinisti trentini capeggiati da Cesare Maestri, stava arrivando ed era diretta al Cerro Torre.

Quando incontrammo i trentini purtroppo non ci fu verso di instaurare un'intesa, malgrado sembrasse a tutti evidente che ogni gruppo era arrivato ignaro l'uno dell'altro. Questo almeno potevamo garantirlo Mauri e io per noi stessi.

Il nostro gruppo, finalmente riunito, decise allora di evitare la competizione e di ripiegare sul lato opposto della montagna, ossia sul misterioso versante glaciale. Ma ciò non bastò a risolvere la grave situazione venutasi a creare, poiché a causa degli atteggiamenti polemici assunti dagli organizzatori di ambedue le parti (anche i trentini, come noi, dipendevano da un coordinatore italo-argentino), vennero meno i fondi promessi dai relativi sostenitori. Ci mancarono dunque i mezzi per realizzare il previsto rifornimento aereo sullo Hielo, al di là della catena divisoria. Questo sconvolgeva totalmente le nostre prospettive e lo spettro del fallimento apparve ancor prima di muovere il primo passo sul monte.

Seguí l'inevitabile sconforto, superato soltanto dalla nostra volontà di agire, anche contro ogni logica. Decidemmo infatti di volgerci all'altro lato del Cerro, ben consci di ciò che ci aspettava. A conti fatti, la parete occidentale del Torre avrebbe richiesto un avvicinamento di circa sessanta chilometri di cammino, dal punto in cui eravamo. E chiaramente avrebbe comportato anche lo scavalcamento di una elevata catena di montagne ghiacciate.

Non fu facile. Ci dovemmo trascinare appresso tutto il necessario. Solo in parte a dorso di animale, nel fondovalle. L'inclemenza del tempo per giunta ci perseguitò, riducendo di molto le giornate utilizzabili.

Per compiere questo pesante spostamento fu necessario raggiungere e percorrere la lunga Valle del Rio Tunel, dopo averne guadato il fiume impetuoso. La natura era aspra. Impressionava il vasto grigiore di ciò che rimaneva delle antiche foreste incendiate dai pionieri. In fondo a questa valle selvaggia, a quota 580, fissammo la nostra base. Poi guadagnammo il Passo del Viento, a 1530 metri, oltre il quale piantammo una piccola tenda. Il secondo campo, composto da due tende, lo ponemmo invece sulle morene dello Hielo ai piedi del Cerro Adela, a una quota approssimativa di 1350 metri. Ci trovavamo al margine di un avvallamento glaciale che battezzammo «Valle della Fame». Avevamo cominciato a patire la fame a causa delle difficoltà di rifornimento. Infine il 25 gennaio, dopo quindici giorni di vita grama, fissammo il terzo campo, con altre due tende, su uno sperone roccioso che fa da basamento al Torre, a quota 1700 circa. Avevamo cosí concluso la marcia di avvicinamento lungo quei tremendi sessanta chilometri di valichi e ghiacciai, portando con noi il minimo per la sopravvivenza. Quello stesso giorno vedemmo per la prima volta, in tutta la sua completezza, la parete occidentale del Cerro Torre. Appariva come una candida lancia dritta nel cielo e orlata di rigonfiamenti di ghiaccio. Dava il capogiro osservare le nubi vorticate dal vento che si sbrindellavano contro le sue creste.

Come già avevamo intuito, l'unica possibilità di scalata sembrava quella di raggiungere e percorrere la successione di salti e rigonfiamenti che portano alla cima, sul lato destro del Torre. Naturalmente dopo aver guadagnato il colle che lo separa dal Cerro Adela, un preliminare già di per sé problematico, con quei mille metri di rocce e ghiacci sbalzanti dall'alta giogaia. Non v'era altra ragionevole alternativa. Da quel giorno si può dire che ebbe inizio la vera e propria scalata al Cerro Torre. Per me e Mauri non restò quindi che occupare stabilmente il terzo campo, che costituiva il punto base per l'assalto alla cima.

Seguirono giornate scabrose, per ragioni totalmente estranee alle difficoltà vere e proprie del Torre. Lungo i quaranta chilometri che ci separavano dal nostro campo posto in fondo alla Valle del Rio Tunel, i nostri compagni compivano sforzi lodevoli per rifornirci di viveri, carburante e materiale vario. Ciò nonostante ben poca roba arrivava fino a noi, venendo in gran parte consumata proprio per compiere il viaggio di trasferimento. A quell'epoca, come ho già detto, il vettovagliamento argentino, il solo di cui disponevamo, era assai rudimentale, pesante da trasportare, e il suo rendimento risultava assai scarso. Il maltempo inoltre bloccava ogni nostra azione e teneva celata la montagna. Il fragore delle valanghe si alternava a quello delle raffiche di vento, che in alcuni momenti sembravano volersi portare via le nostre tende. Vivevamo giorno dopo giorno in un'atmosfera piuttosto desolante, in cui le ansie e le paure prendevano spesso il sopravvento sull'ottimismo. Ma la partita con il Torre era ormai aperta ed eravamo ben determinati a raggiungere la vetta.

Nonostante il perdurare del maltempo, in tre riprese Mauri e io riuscimmo ad arrivare a quota 2300 e ad attrezzare con corde e chiodi i passaggi piú difficili.

Il bel tempo arrivò il 1° febbraio e il 2 finalmente partimmo, decisi a continuare verso l'alto. Con noi c'erano anche Folco Doro e René Eggmann i quali si sarebbero installati il piú in alto possibile, in nostro appoggio.

Erano le tre di una splendida notte di luna piena che illuminava quasi a giorno il nostro cammino. I sacchi pesantissimi ci obbligavano a salire lentamente. I ramponi mordevano sicuri sui ripidi pendii di neve gelata. Portavamo con noi praticamente tutto ciò che ancora possedevamo: viveri per due giorni, 500 metri di corda, 30 chiodi da ghiaccio e 30 da roccia, 25 moschettoni, staffe, martelli, piccozze, l'equipaggiamento personale al completo, l'apparecchio fotografico, la cinepresa e una tenda che avrebbe ospitato Doro ed Eggmann nel luogo dove avrebbero atteso il nostro ritorno.

Alle 6,45 raggiungemmo il termine delle corde fissate precedentemente e continuammo a salire su pendii ertissimi, ponendo per il ritorno altre corde fisse lungo le traversate piú difficili. Per un gioco di prospettiva ora il Torre appariva piú accessibile che nei giorni scorsi. Fantastico per quanto orrido. Eravamo comunque ottimisti. Al punto da non renderci conto che soltanto per raggiungere il colle già stavamo superando notevoli difficoltà, paragonabili a quelle di alcune scalate di primissimo ordine sulle Alpi occidentali.

Alle 12,30 raggiungemmo il colle e restammo schiacciati dalla realtà. Eravamo i primi uomini a guardare il Torre da quel lato e ci rendemmo subito conto che per quanto ci fossimo impegnati, nelle condizioni in cui ci trovavamo non avremmo mai potuto raggiungere la vetta. Da lassú l'aspetto della nostra montagna si rivelava completamente diverso. Difficoltà del genere non si sarebbero potute superare né d'impeto né in un sol giorno, bensí in piú riprese ponendo come base di attacco il colle. Questo era già nei nostri piani e l'avremmo senz'altro attuato se, dopo il promesso lancio aereo, avessimo potuto disporre di una attrezzatura completa.

Quel 2 di febbraio, nello spazio di poche ore soltanto, passammo dunque dalla sensazione di vittoria a quella di sconfitta. Tuttavia la nostra reazione fu curiosa, quasi incomprensibile. Senza parlare, ci legammo a una corda di 120 metri e cominciammo a salire puntando alla vetta del Torre. Il ghiaccio era durissimo da gradinare e a tratti tanto ripido da sporgere al di là della verticale. Allora ricorrevamo ai chiodi e, metro dopo metro, continuavamo a salire.

Doro ed Eggmann, ormai piccini sul colle, si erano messi a scavare nel ghiaccio una grotta protetta dai venti in cui avrebbero poi collocato la tenda. Credo che nessuno di noi quattro fosse convinto. Ma ci impegnammo a fondo, pur sapendo che a nulla sarebbe servito. Alle 16,30, quando Mauri mi gridò dal punto di sosta che i centoventi metri di corda erano esauriti, dovetti fermarmi. Ripiombammo nella realtà, come risvegliati da un sogno. Non avevamo piú nulla, né corda né chiodi, e ancora ci dividevano dalla vetta centinaia di metri di rigonfiamenti ghiacciati. Eravamo sconfitti.

Discendemmo sul colle e li restammo seduti a lungo, in silenzio. Poi finalmente parlammo, e soltanto allora ci sentimmo meglio perché ci eravamo promessi di ritornare quassú l'anno prossimo, e questa volta con tutto il necessario. Ora si conosceva tutto del Torre e già la nostra immaginazione ci riportava su questo «Colle della Speranza», cosí l'avevamo chiamato, su queste stesse corde fisse lasciate come pegno li dov'erano state poste.

Ancora una volta ci avrebbero sorretti verso l'emblematica cima appena mancata.

Il sole calava all'orizzonte e anche noi cominciammo a discendere dal Colle della Speranza. Il bel sogno del Torre restò in noi, e ce lo portammo dentro per quasi un anno.

Ma poi, a pochi giorni dalla seconda spedizione - quando già tutto era pronto e organizzato - apprendemmo da un giornale che la cordata Maestri-Egger era giunta laggiú e stava per attaccare il Cerro Torre. Non partimmo piú.

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