Copertina
Autore Franco Ferrarotti
Titolo Leggere, leggersi
EdizioneDonzelli, Roma, 1998, Interventi 40
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe scienze sociali , sociologia , libri , scrittura-lettura
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al sito dell'editore






 

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Pagina 11

Queste pagine trattano dell'agonia del libro alla fine del XX secolo. Non pretendono di essere considerate proposizioni scientifiche intersoggettivamente vincolanti. Non aspirano a porsi come previsioni oggettivamente fondate. Sono solo l'espressione di principi di preferenza personali, a metà strada tra l'inconfessata nostalgia per un passato ormai lontano e lo sfogo umorale, forse irritato, per un presente sciapo, privo di genio e di sorprese.

Sono nato e cresciuto in mezzo ai libri. Mi hanno cantato la ninnananna. Sono stati la mia nutrice, la mia governante, una compagna discreta, silenziosa e indispensabile. Benedico le molte, noiose e a volte misteriose malattie infantili. Ne ho sofferto. Ma ne valeva la pena. Mi hanno salvato dagli amici, dai compagni di scuola, dagli interminabili giochi dell'infanzia. A letto, fra le lenzuola, scoprivo e conquistavo con i libri mondi inaccessibili. Le malattie infantili mi hanno insegnato la deliziosa compagnia dei libri, così bella da riuscire quasi colpevole, dai Dialoghi platonici a Guerra e pace, alle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, alle decine di Manuali Hoepli, a quei volumi dalla copertina verdognola della Edoardo Sonzogno editore in Milano, stampati malissimo, autentici attentati all'acuità visiva, ma dolcissimi, dentro, come frutti maturi al punto giusto.

Confesso senza pudore di amare i libri di un amore sensuale, fisico. Adoro la loro polvere. Si insinua ovunque. Provoca il prurito alle mucose nasali e scorre come cipria sotto le avidi falangette. Amo accarezzarne lentamente la carta ruvida, quella delle vecchie edizioni, granulosa, come «carta da formaggio». Detesto la carta patinata che sa di rivista di intrattenimento per signori che aspettano rassegnati nell'anticamera del dentista.

Mi avvicino al libro come a un pasto prelibato. Gli giro intorno. Lo annuso. Adoro tagliarne i fogli. E' una sorta di prima, furtiva lettura, uno sbirciare di straforo, qua e là. L'impazienza di un piacere differito. So che è un piacere sospetto agli occhi delle femministe ardenti. Sa di penetrazione, di invasione di un territorio che non è proprio. Ma leggere vuol dire uscire da sé solo per rientrarvi, tornare dentro di sé arricchiti, scossi, forse per sempre strappati al torpore quieto e stagnante, svegliati dal sonnambulismo del quotidiano.

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Pagina 13

Ma so che il libro, oggi, è in pericolo. Un pericolo mortale. Persino il suo silenzio è percepito come troppo orgoglioso. A un mondo dominato dal chiasso inane riesce insopportabile. Marshall McLuhan lo dava per spacciato fin dagli anni sessanta. Anni di polemiche, a proposito della fine o della trasfigurazione del libro, della sua morte definitiva o della sua resurrezione prossima ventura, dovranno forse concludersi con la vittoria del «profeta dell'elettricità» che vedeva nel libro il prodotto residuale di una civiltà veteroumanistica ormai al tramonto.

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Pagina 19

Di questa via d'uscita sono però meno certo oggi di ieri. Si tratta probabilmente di una via molto stretta, se non sbarrata da contraddizioni insanabili. Non passa giorno, posso dire, che il pericolo mortale che da anni ho visto insidiare il destino di questo oggetto paradossale, prodotto ormai di massa di un artigianato divenuto industria di grandi serie eppure sempre pervicacemente, prototipo, non acquisti una sua sempre piu corposa, pesante consistenza. McLuhan è morto, ma ormai anch'io so, dopo le estreme difese tentate nei nostri burrascosi colloqui, che il libro è in pericolo, che le mostre, le famose «fiere del libro» e le sagre ad esso consacrate, hanno già il sapore e l'odore delle commemorazioni funebri. Sta crescendo l'analfabetismo degli alfabetizzati, la grande, irresistibile, a quanto sembra, ondata degli analfabeti di ritorno e degli aficionados di Internet, degli idiots savants che sanno tutto, che sono informati in tempo reale di tutto, ma non capiscono niente, fagocitati dalla stessa ricchezza dei dati non assimilati né assimilabili, storditi dalla rapidità medusizzante delle immagini.

La lettura lenta d'un tempo è ormai considerata un vizio assurdo, quindi imperdonabile, nel caso migliore un lusso inaccettabile nel mondo dell'utilità immediata, uno spreco moralmente deplorevole, un'irresponsabilità civile insopportabile. Neppur più i professori universitari, degradati a funzionari, trascorrono mediamente almeno due ore al giorno in biblioteca.

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Pagina 26

L'ho già detto: sono nato in mezzo ai libri. Morirò baciando la loro polvere. Mio padre non ci credeva. Quest'uomo che conosceva di nome tutti gli alberi e tutti gli uccelli nutriva la stessa diffidenza di Socrate gni verso la carta stampata. Nella nostra famiglia, ad ogni generazione, c'era sempre uno studioso notevole, per lo più di greco e di latino, e qualcuno che conservava la saggezza sapienziale degli analfabeti, quella che va oltre la morta lettera del libro. Ma di libri in casa ce n'erano ovunque, specialmente negli stanzoni dell'ultimo piano del crollante palazzo. Era il mio regno, il mio dominio esclusivo, là dove mi ritiravo per tutto il giorno, dall'alba fino a sera, quando da sotto mia madre mi chiamava per il pasto: «L'è ura» (è ora).

Ero il solitario, indiscusso signore della carta e della polvere. Mio padre, che parlava familiarmente con i cavalli e con le piante, ai libri non credeva. Più si legge e più il mondo va male, pensava. Per non consentirmi di montare in superbia non si stancava di ricordarmi che ero nato brutto, di scarso peso, secondo dopo un fratello grande e grosso, bello, rubicondo. «Se tu fossi nato gatto - mormorava mio padre - saresti finito presto in una chiavica». La mia infanzia è stata solitaria, malaticcia e bellissima. Certi pomeriggi nel fienile, quando la pioggia estiva cominciava a cadere a grossi goccioloni che timbravano la polvere, con un libro in mano maturavo nel silenzio uno strano senso del destino, colmo d'una felicità inesprimibile.

Il libro è radicato. Si lega a una lingua, a una cultura specifica, a un paese, a un quartiere. Parlo della lingua nazionale ma anche dei dialetti. Richiama un complesso preciso di valori in un contesto storico determinato. La televisione cancella la storia. Schiaccia i suoi utenti sul presente. Li appiattisce. Non ha orecchio per l'antefatto. Brucia i ponti col passato. Non può progettare nulla perché promette già tutto, qui e adesso, ogni possibile futuro. E' locale e globale nello stesso tempo. E' ovunque e in nessun luogo.

Un tempo neppur troppo lontano - al più trenta, quarant'anni fa - si poteva parlare e scrivere di «globalizzazione» in senso soprattutto latamente metaforico. Parlavano abbondantemente di «globalità» i marxisti, specialmente i seguaci di György Lukàcs, per intendere l'insieme dei rapporti sociali, da quelli economici a quelli culturali, che si immaginavano stretti in un vincolo dialettico del tutto prevedibile. La storia aveva un senso. E i marxisti ortodossi si erano autonominati «signori della storia»; ne indicavano, come diligenti capistazione, le direttive di marcia, le fermate e la direzione del suo procedere complessivo.

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Pagina 29

La globalizzazione, che oggi è soprattutto economica ed è guidata dalle società multinazionali, stempera, in primo luogo, le caratteristiche specifiche di tempo e di luogo, trasforma radicalmente il concetto di verità: dal significato complessivo di una data situazione umana, caratterizzata da un antefatto preciso e pensato, da un presente vissuto e compreso e da una prospettiva futura, la verità si riduce a casuale sequenza di fatti e fatterelli distaccati, a volte divertenti, altra volta semplicemente insignificanti, che vengono percepiti e accettati, o subiti, come frammenti di un tutto che sfugge e che d'altro canto non è ritenuto degno di considerazione. In questo senso, è fondata la preoccupazione di coloro che temono che la televisione, ma anche gli altri mezzi di comunicazione di massa e le reti comunicative planetarie che la «rivoluzione digitale» ci promette e in parte già oggi ci fornisce, finiscano per «cancellare» la storia. Siamo nella paradossale situazione di persone che sono nello stesso tempo poste in grado di informarsi di ciò che avviene, letteralmente, in tutto il mondo, e che si ritrovano, nella loro quotidiana realtà esistenziale, orfane, figli di nessuno, in balia di forze che non riescono a controllare e che molto spesso neppure conoscono. Essere schiacciati sul presente equivale in definitiva ad essere annullati come soggetti pensanti.

In questa situazione, la prima regola, in apparenza piuttosto di buon senso e alquanto scontata, in realtà fondamentale, è quella che consiglia di diffidare delle parole. Globalizzazione vuol dire estensione dei poteri del soggetto: uno sguardo d'aquila che coglie tutto, i particolari e il senso complessivo di un paesaggio. Nulla di più lontano dall'esperienza effettiva.

Così com'è oggi praticata dalle grandi società multinazionali e vissuta dai singoli appartenenti alle compagini produttive, la globalizzazione significa semplicemente la caduta di qualsiasi garanzia circa il pericolo dello sradicamento e la difesa della stabilità eco-sistemica. Trapezisti dell'intelligenza «loica» sono pronti in proposito a qualsiasi temerarietà, pur di non fare i conti con realtà specifiche, storicamente determinate. Sta di fatto che la crisi odierna delle famose quattro «tigri del Pacifico» (Malesia, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud) è anche legata, se non direttamente determinata, dagli atteggiamenti e dalle decisioni delle società multinazionali che avevano puntato su quei paesi e che oggi, in una situazione monetaria confusa, hanno stabilito di «tirare i remi in barca», lasciando al loro destino, cioè al fallimento, fabbriche, rappresentanti commerciali e operai.

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Pagina 32

Ma quali sono le conseguenze della globalizzazione sui rapporti umani e sulla qualità media della vita sociale?

In primo luogo, va considerata la riduzione, anche drastica, delle unità operative, ossia delle singole aziende. Ciò risponde naturalmente a criteri di efficienza (riduzione dei costi per unità prodotta), ma può avere, e di fatto ha già dimostrato di avere, effetti devastanti sulla sicurezza d'impiego e sull'equilibrio delle varie comunità. Bisognerà tornare a leggere L'enracinement, La prima radice, di Simone Weil. I mistici sono capaci di un realismo che fa impallidire gli uomini d'affari.

In secondo luogo, c'è uno scompenso fondamentale fra la funzione sociale e, al limite, politica, delle grandi società multinazionali, che oggi stanno cambiando la vita del pianeta, e la loro definizione giuridica. Talvolta accade che i bilanci di una singola società multinazionale siano più imponenti di quelli di uno Stato nazionale.

E' un dato di fatto che oggi le società multinazionali travalicano i singoli Stati, di cui sanzionano nel fatti l'obsolescenza. Esercitano un potere di fatto su scala planetaria, ma i codici vigenti le considerano ancora semplici «domicili privati». La «globalizzazione» incontra qui uno squilibrio grave, cui il terzo millennio dovrà provvedere.

Ma chi mai potrà farlo? Dov'è il nuovo «soggetto storico» in grado di riportare l'efficienza al servizio della comunità? E come sarà possibile parlare di «soggetti», ipotizzarne l'avvento, se con la morte del libro si sarà essiccato e sterilizzato l'unico humus storico in cui i soggetti storici possono crescere? In un accesso di dementia praecox abbiamo creduto alla tecnologia, le abbiamo ceduto le nostre anime. Ma la tecnologia è una perfezione priva di scopo. Ci insegna quali sono le istruzioni per l'uso. Ci spiega il come. Non dice assolutamente nulla sul percbé. Per questa ragione, il primato del discorso tecnico è nello stesso tempo privo di senso e pieno di pericoli. Trasforma i valori strumentali in valori finali. Fa convivere progresso materiale e barbarie interiore.

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Pagina 42

L'agonia del libro è stata, ma di poco, rinviata. Per invertire la rotta delle istituzioni culturali occorre ben altro. E' necessario predisporre una vera e propria iniziazione alla bibliofilia fino alla bibliomania. Per quanto mi riguarda, mi considero affetto da una malattia per la quale non vedo rimedio. Sono affetto da bibliofagia.

Che cosa leggo? Di tutto. Non leggo. Divoro. Sono un lavandino. Sbocconcello le parole, mando giù le frasi prima di averle lette, le intuisco, le indovino. Come leggo? Leggo con il cuore in gola. Attuo nella lettura il rapporto problematico fra reale e immaginario. Leggo in stato di vaga ebbrezza, sospeso fra calcolo razionale e ombre allucinatorie. La lettura è la mia droga.

Sono un pessimo correttore di bozze, non solo perché credo alla genialità involontaria dei refusi, i misprints degli inglesi, le coquilles dei francesi. Ma soprattutto perché l'occhio vorace salta interi blocchi sillabici, taglia desinenze arcinote (tutte quelle in -zione), arricchisce con una sua propria fantasia, al di fuori di ogni controllo, la percezione effettiva, ridotta a stimolo iniziale, fremito, palpeggio. Così leggo con la fretta di chi deve prendere un treno di li a poco. Leggo con l'ansia di chi ruba un bacio per le scale. Ma poi torno. Lascio sedimentare un pensiero appena annusato; poi ci torno; mi interrogo, ossessivamente, mi chiamo in causa e poi lo sogno la notte, fino all'alba, come una strana lotta con l'angelo.

Per anni, da giovanissimo, ho fatto il traduttore. E' un mestiere che raccomando. Tradurre è un corpo a corpo su due fronti: con il testo da tradurre e con quello in cui l'originale va tradotto. E' un'impresa rischiosa, affascinante e difficile. Come una scalata di sesto grado. Basta che un appiglio, un chiodo, in questo caso un aggettivo ceda, ed è un crollo. Forse più che il senso letterale, la risonanza, quel clima mentale che i veri scrittori sanno evocare e ricreare con l'uso di certe parole a preferenza di altre, in apparenza perfettamente equivalenti, linguisticamente sinonime, ma prive di aura, andrebbe perduto.

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Pagina 50

Il vero, autentico scrittore non accetta questo gergo quotidiano. Se lo accetta, è solo ad una condizione: che lo possa piegare al suo disegno, che riesca a fargli esprimere ciò che sente in sé, come chiave e strumento e cifra della propria interiore consapevolezza. Il traduttore gli è accanto, lo aiuta nel trovare le parole corrispondenti alle sue in un'altra lingua. Questo travaso è possibile al traduttore solo se si è impadronito dell'intento che va al di là del significato linguistico ingenuo delle parole per affermare il significato nascosto, nuovo, reinventato e in questo senso originale, inedito, sorprendente delle parole.

Il lettore, in questa prospettiva, è il co-inventore dei nuovi significati. Lettore e traduttore danno la mano allo scrittore. Lo riconoscono come loro compagno. Rompono insieme il pane dei nuovi significati. Cos'è allora leggere? Si può parlare del piacere di leggere? Non si dovrebbe invece parlare della fatica di leggere?

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Pagina 52

Tutto questo viene, beninteso, da lontano. Alla cultura alta e a quella bassa si contrappone la «cultura popolare». Suddivisioni scolastiche, sociologizzanti, forse buone per far chiarezza in una situazione di complessità estrema. Ma è una chiarezza illusoria. Cultura vuol dire in primo luogo consapevolezza, quindi capacità di valutazione globale delle situazioni umane specifiche, storicamente determinate. Non si dà né alta né bassa cultura così come non sembra più proponibile l'ingenua dicotomia fra cultura «scientifica», da una parte, e cultura «umanistica», dall'altra, come aveva a suo tempo teorizzato C.P. Snow, romanziere, saggista ma non a caso anche oculato amministratore e impresario culturale. Le due culture possono al più aspirare ad uno statuto provvisorio, ad una sorta di distinzione di comodo, visto che le scienze dette impropriamente «esatte» sono finalmente riuscite ad autoproblematizzarsi e hanno cessato di porsi come l'immagine del rimorso e la meta irraggiungibile per le scienze del vago o del pressappoco. La cultura è insieme speculazione teorica ed esperienza pratica, teoresi e comportamento. E' l'espressione del ritorno critico su di sé di cui sembra che dispongano gli esseri umani a differenza degli animali non umani.

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(...) Il sospetto che per molto tempo continua a circondare il termine e l'idea di «popolo» si collega probabilmente, e magari inconsapevolmente, con l'antico significato latino di «populus», dal verbo infinito passivo populari, «saccheggiare, devastare». Forse solo Antonio Gramsci, con il suo concetto di «nazional-popolare», si salva. Concepisce la cultura popolare al di fuori di ogni accezione paternalistica o mistificatoria. Essa è per Gramsci lo strumento di una presa di coscienza delle classi subalterne, ossia dei gruppi umani fin qui tagliati fuori o lasciati ai margini della storia. Il concetto gramsciano non ha nulla di dolciastro o di pascolianamente romantico, come a suo tempo, in Scrittori e popolo, aveva temuto l'italianista Alberto Asor Rosa.

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Pagina 58

Il mezzo elettronico schiaccia inevitabilmente l'ascoltatore e lo spettatore sul presente, non gli consente il beneficio della prospettiva, lo rende schiavo o, forse, ostaggio dell'immediato. Il libro, in questo senso, degradato oggi ad andante bene di consumo - che lo si trovi nelle grandi, auguste librerie dei centri urbani oppure, soprattutto negli Stati Uniti, nei supermercati ben allineato sugli scaffali accanto ai flaconi dei cosmetici e alla carne scatolata - resta uno strumento essenziale di documentazione e di riflessione, consente e, anzi, richiede il ritorno critico su di sé, su ciò che già si conosce o si crede di conoscere, sulle nozioni apprese ma da aggiornare, sui giudizi da rivedere ad evitare che si trasformino in pregiudizi. E' da questi bisogni interiori profondi che vedo nascere la fame del libro, il piacere della lettura, quel sentimento agrodolce di soddisfazione che già sa, nel momento stesso in cui appare saziato, che la fame ricomincerà, più dura, più esigente di prima.

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Pagina 70

Le parole non sono le cose. Ma le cose stanno dietro le parole e le parole decisive, per tutto un destino, sono le parole della madre, la lingua materna fin nei movimenti, nei meandri e nei rutti prenatali. Tutte le altre lingue sono le lingue e le parole dell'esilio. Scrigni abbandonati per strade polverose o negli anditi bui delle case e della storia, i libri sono i custodi discreti, silenziosi delle parole. Attendono pazienti i loro lettori, attendono coloro che li faranno parlare, che sapranno ascoltarli, raccolti, concentrati, in silenzio, talvolta solo con un quasi impercettibile movimento delle labbra.

Per questo torno ogni anno al greco, al latino, all'ebraico, alle lingue dei padri e delle madri, a quelle che il senso comune, sbagliando in maniera grossolana e masochistica, chiama lingue morte, che sono invece le radici vive delle propaggini linguistiche odierne. Gli uomini del libro sanno che tutto ciò che è profondo ama la maschera e che il morto, apparente, è più vivo del vivo. Certe notti limpide di tardo autunno, certe notti di vento, quando Roma è finalmente deserta e i platani di via Nomentana di malavoglia restituiscono alla terra tutte le loro foglie, e le colonne del Foro resistono, dritte e solitarie, alle rudi carezze della tramontana, certe notti di vento... sono quelle le notti che cerco al buio nel letto accanto al mio letto la compagnia congeniale e discreta. Non c'è più nessuno. Non indovino alcuna forma umana. Non posso più dire, in un bisbiglio a fior di labbra: dolce collina che mi dormi accanto. Mi vegliano solo, in silenzio, i vecchi amici libri, ammucchiati alla rinfusa e occhieggianti dagli interstizi fra mucchio e mucchio con mezzo titolo da completare a tasto. Adesso lo so. Lo so con certezza assoluta. So che morirò con un libro in mano. Sarà la mia estrema unzione.

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