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| << | < | > | >> |IndicePrefazione V Hanno scritto per questo libro XV Radio Popolare XXI I soci fondatori di Radio Popolare XXIII Vedi alla voce Radio Popolare 1 Bibliografia 533 |
| << | < | > | >> |Pagina V«È indispensabile raccontare questa storia? Il paese è pronto a riceverla? Perché la storia di Radio Popolare?» Perché è una storia a parte, anche rispetto alle radio di movimento. Perché esiste ancora dopo trent'anni ed è rimasta sostanzialmente fedele alla Dichiarazione d'intenti del 1976. Perché è sempre stata «solo» una radio d'informazione e mai una radio di movimento. Perché è una radio comunitaria che ha deciso di diventare una società per azioni per non avere il tetto di pubblicità e poter pagare (poco) tutti i giornalisti necessari. Perché è stata la prima radio privata a realizzare un azionariato «popolare» con 12.000 azionisti-ascoltatori. Perché alcuni di quelli che attualmente «comunicano» nel panorama mediatico (e non solo radiofonico) si sono formati e sono passati da questa radio. Perché molti dei format che ascoltiamo diffusamente in FM sono nati o elaborati negli studi di Radio Popolare. Perché 15.000 ascoltatori ogni anno dal 1991 pagano l'abbonamento - per una cifra che corrisponde al 45% circa del bilancio della radio - garantendo un'autonomia editoriale difficile e rara. Perché la storia creativa e organizzativa di Radio Popolare è ricca di racconti ridicoli, curiosi, imprevedibili, e mi sembrava giusto farli narrare direttamente dai protagonisti. Perché tutti questi elementi non si trovano nei libri dedicati alla radiofonia e quando sono segnalati sono a volte carenti e spesso confusi.
Perché prima o poi qualcuno troverà il tempo e il coraggio per scrivere la
storia delle radio comunitarie e d'informazione in Italia e questo vuole essere
un modestissimo contributo, realizzato con uno sforzo di memoria di gruppo,
nello stile di Radio Popolare, che è da sempre un insieme di forti individualità
inserite in un contenitore che è l'espressione di un collettivo.
Movimento e informazione Radio Popolare faceva parte di quelle emittenti che a metà degli anni '70 condividevano con le radio private (molte delle quali in futuro sarebbero diventate commerciali) l'etichetta di radio libere. Tra loro molte erano «radio di movimento» (quelle «libere veramente» della canzone di Eugenio Finardi). Poi, una volta tramontato il movimento, sono diventate «radio d'informazione». Vivevano la precarietà dell'emissione quotidiana, troppo spesso legata alla cronica carenza di soldi ma anche alle scarne e imprecise indicazioni sul funzionamento del mixer, ottenebrate da un prepotente desiderio di propaganda spesso confusa con l'informazione. Quelle radio riuscivano a discutere per giorni, settimane e mesi se accettare o rifiutare la pubblicità, per poi accorgersi molto tempo dopo che era la pubblicità che non voleva loro. Erano spesso sgarrupate, ideologiche, noiose, feroci, stimolanti, «militonte», fragili, inaffondabili, «vendute al PCI», ripetitive, imprevedibili, «vendute al PSI», «parlano troppo!», «solo musica inglese», «hanno messo Battisti», «la voce delle BR», «hanno fatto parlare i fascisti» eccetera eccetera. Quelle radio ispirarono a Fabio Felicetti una descrizione deamicisiana di Radio Popolare: Un libro non scritto racconta le contrarietà e gli imprevisti di un pionieristico scamiciato: la diretta dalla strada, che si interrompe con un clic corsaro, perché il redattore ha finito i gettoni e non ha i denari per procurarsene altri; la trasmissione via telefono soffocata da un improvviso black-out perché non è stata pagata la bolletta, e la Sip non ha il cuore tenero; i tedeschi che pretendono le cassette di archivio e si sentono dire: «Quale archivio? I nastri vengono riciclati e nulla resta». [...] La redazione ha quindici giornalisti fissi, che guadagnano sulle ottocentomila lire, uno stipendio dimezzato e non sempre corrisposto il 27 del mese. Oggi come allora si fa leva sul volontariato e sull'entusiasmo giovanile. Poi qualcuno non ha più l'età, si sposa, magari ha un figlio, ha una famiglia da mantenere. Una mattina annuncia con rammarico: «Non ce la faccio più così, arrivederci». E varca la soglia per l'ultima volta. («Corriere della Sera», 1° dicembre 1985) Sento già aleggiare una facile commozione. Ma quel che risulta evidente nei primi dieci anni è l'intreccio nei lavoratori di Radio Popolare - a vari livelli e con diversa intensità nel tempo - tra politica, professione, militanza e scelte di vita. Altrettanto evidente è l'evoluzione motivazionale nel corso degli anni successivi: il lavoratore della radio ha lentamente lasciato indietro la militanza, abbandonato giustamente la scelta di vita, per concentrarsi politicamente sulla professione. Per comprendere la natura storica di Radio Popolare è utile fissare l'attenzione sul collettivo diretto da Piero Scaramucci che ha impostato la prima Radio Popolare. Un collettivo proveniente in parte da Radio Milano Centrale, la radio fondata da Mario Luzzato Fegiz, e in parte dalle forze politiche e sindacali che aderiscono al progetto di radio d'informazione e compongono il consiglio d'amministrazione in quegli anni. Oggi la definizione di radio d'informazione non crea problemi, ma nel 1975 era considerata quasi una scelta opportunista. Essere una radio d'informazione voleva dire - anche - non essere una radio di movimento. In alcuni casi si veniva accusati di non voler fare la doverosa «controinformazione». È nei primi cinque-sei anni che, con una impostazione fortemente giornalistica, si sperimenta, si realizza e mette radici «l'originale» di Radio Popolare. Negli anni successivi si susseguiranno delle «fotocopie» (a volte anche geniali), sia all'interno della radio sia in altre emittenti. Ma la maggioranza delle scelte radiofoniche realizzate in seguito, anche se tecnicamente aggiornate, richiamano ancora oggi, nel proprio scheletro informativo, l'impostazione della «radio d'informazione» degli esordi. All'epoca non c'erano modelli di radio da imitare: gli unici esempi erano da un lato la RAI, che già nella Dichiarazione d'intenti veniva indicata come «il nemico»; e poi il «non modello» delle altre radio di movimento, nelle quali si poteva trovare spesso la stessa sperimentale approssimazione. Non c'erano riferimenti da seguire in Italia, sia sul piano aziendale sia sul piano comunicativo. Nei molteplici incontri che ho avuto con i redattori del primo nucleo di Radio Popolare, appare evidente dai loro ricordi lo sforzo per tradurre in un linguaggio radio-giornalistico «diverso» le notizie che affluivano e che a volte sommergevano la fragile struttura redazionale. La stragrande maggioranza della redazione si sorreggeva su una impostazione linguistica e comunicativa deformata dal «sindacalese» e dal «sinistrese»: un «linguaggio» già ostico sui giornali ma decisamente ammorbante se ascoltato per radio; una gergalità che però risultava comprensibilissima per l'area politicizzata e sindacalizzata che si sintonizzava sull'emittente; inoltre la stragante maggioranza dei redattori, fino all'avvento delle radio libere, quando si era trovata di fronte a un microfono, era stato solo per cantare (pochissimi) o per fare un comizio (quasi tutti). Il problema comunicativo era evidente. Era invece più complesso riuscire a risolverlo partendo dalle stesse capacità (ora si scrive professionalità) dei redattori. Più si è «efficaci» nella costruzione del messaggio attraverso suoni, ritmi, toni e parole, dicevamo, più si allarga il numero di persone che comprende la nostra comunicazione: quella che oggi viene considerata una semplice regola comunicativa di base, in quegli anni - se collaboravi con una qualsiasi testata di sinistra o di estrema sinistra - poteva diventare fonte di accuse di deviazionismo mediatico frutto «di una borghesia infingarda e satolla». Anche a Radio Popolare girarono accuse simili, ma era presente anche uno sforzo di elaborazione continuo, anche se confuso. Questo lavorio si risolveva semplicemente, ma ostinatamente, con la frase di rito che ho sentito centinaia di volte in mezzo alle interminabili riunioni di redazione: «Tutte queste posizioni come le traduciamo in radio?». Essere, o tentare di essere, solo una radio d'informazione fu sicuramente il segno caratteristico di quegli anni. L'impostazione non era accettata dalle altre radio di «movimento», che spesso non condivisero le scelte editoriali e radiofoniche di Radio Popolare. E fu con grande soddisfazione che accettammo l'invito, vent'anni dopo, di una radio storica dell'autonomia che ci chiese di realizzare «un seminario sulla vostra radiofonia, perché noi siamo convinti di avere ragione dal punto di vista politico, ma nessuno ci ascolta e vorremmo capire cosa fare».
Non bisogna però sottovalutare i rischi di questa impostazione informativa,
che ha portato l'elaborazione radiofonica collettiva a concentrarsi sugli
aspetti giornalistici legati ai notiziari e a trasmissioni come il
Microfono aperto
o
Corrispondenze operaie,
accantonando e limitando una elaborazione più ampia sulla comunicazione generale
della radio.
Una radio comunitaria? Da circa vent'anni le radio simili a Radio Popolare sono state definite, o si sono definite, «radio comunitarie». Le hanno catalogate, leggermente agevolate e inserite in una sorta di riserva indiana, senza distinzione tra radio cattoliche, politiche, dialettali, sulla base di una sola caratteristica in comune: non avere fini di lucro. Radio Popolare editorialmente era ed è una radio comunitaria. Non solo perché, come recita l'anacronistica (ma mai realmente superata) legge Mammì (n. 223/1990), fa parte di quella categoria di emittenti «caratterizzate dall'assenza di scopi di lucro [...] che abbiano come oggetto sociale la realizzazione di un servizio di radiodiffusione sonora a carattere culturale, etnico, politico e religioso». Ma anche perché fece parte della FRED (Federazione radio eminenti democratiche, 1975-78). Perché nei primi anni '80, fu tra i fondatori della LEID-ARCI (Lega emittenti indipendenti democratiche). Perché nel 1983 partecipò al primo convegno mondiale delle Radio Comunitarie a Montreal; e (insaziabile) nel 1998 organizzò direttamente a Milano il convegno mondiale di AMARC (Assemblèe Mondiale des Artisans des Radios Communautaires). Insomma, nei convegni, nei seminari e nelle aule universitarie, Radio Popolare è diventata sinonimo di radio comunitaria. Ma è falso. Radio Popolare non è una radio comunitaria: nel 1990 fu costretta dall'ottusità della legge Mammì a richiedere una concessione come radio commerciale. La scelta non fu ovviamente fatta per fini di lucro, ma solo perché il tetto massimo di pubblicità consentito alle radio comunitarie (pari al 5% orario) avrebbe permesso di pagare lo stipendio solo a circa il 25% dei lavoratori. Il direttore Biagio Longo, in uno dei rari organigrammi di quegli anni (particolarmente dettagliato), in data 12 dicembre 1984 elenca un quadro delle funzioni e mansioni che prevede 29 lavoratori tra tempo pieno e metà tempo, di cui 18 nella redazione giornalistica e oltre 70 collaboratori fissi (nell'elenco non rientrano le decine di collaboratori volontari che offrivano il loro lavoro ogni settimana nelle varie redazioni, dai giovani al sindacale, dai gay alla musica classica). Erano passati solo otto anni dalla nascita e la struttura di Radio Popolare era tra le più corpose nel panorama radiofonico e contemporaneamente la più economicamente instabile. In quegli anni la LEID chiese il riconoscimento delle radio d'informazione come categoria con esigenze e caratteristiche autonome da quelle delle radio commerciali e delle radio comunitarie. Fummo serenamente ignorati. In attesa della legge Mammì, che arrivò solo sei anni dopo. Nel frattempo Radio Popolare era già sulla strada della metamorfosi più importante: proprio nel 1990 era diventata una società per azioni, grazie alla cooperativa dei lavoratori e a oltre 12.000 azionisti-ascoltatori.
Ecco, serve una lente particolare per mettere a fuoco gli ascoltatori di
Radio Popolare, per intuire (capire sarebbe presuntuoso anche per lo stesso
ascoltatore) come Radio Pop sia riuscita a sopravvivere nella prima fase,
consolidarsi nella seconda, svilupparsi nella terza. A una prima lettura si
potrebbe pensare che il contributo economico elargito dai nostri ascoltatori in
trent'anni - prima come soci della cooperativa, poi come tesserati
nell'Associazione di Radio Popolare, successivamente come azionisti e
definitivamente come abbonati - sia il fulcro del rapporto tra la radio e gli
ascoltatori. Ampliando il campo visivo si scopre però che questo intreccio
attraversa tutti i settori, in particolare quello editoriale.
Siamo tutti giornalisti ...siamo molto radiofonici È vero, le dinamiche del microfono aperto tra conduttore, telefono e audience fanno parte della storia della radiofonia, non solo di Radio Popolare. Ma merita ben altra attenzione l'intuizione dell'ascoltatore-inviato creata alla nascita di Radio Popolare dalla redazione di Corrispondenze operaie. Essenziale nella sua complessità, geniale nel suo sviluppo: un ascoltatore in ogni fabbrica, in ogni fabbrica un inviato. Provate a seguire il percorso del lavoratore-ascoltatore-inviato che vive in un paese, in una città, in un quartiere, che spesso è impegnato con associazioni, partiti, istituzioni e movimenti. Immaginate altri inviati in tutte le scuole per la Rubrica Giovani, aggiungete le università, i circoli giovanili (poi diventati centri sociali): ecco che si può intravedere una capillare rete informativa, nella città prima e successivamente nella provincia. Si risolse così alla radice il problema delle fonti e si trasformò la stessa Radio Popolare in fonte d'informazioni per gran parte delle testate milanesi. Dalla grandinata improvvisa all'omicidio delle Brigate Rosse, dall'incidente sulla tangenziale alla rivolta di San Vittore, dallo sciopero selvaggio al morto di overdose, gli ascoltatori sapevano che di fronte a qualunque evento potevano telefonare a Radio Popolare.
Questa impostazione, che a una prima lettura può fare inorridire (e anche a
una seconda non scherza), ha naturalmente qualche controindicazione. La prima è
ovviamente la verifica delle notizie, la loro gerarchia, nonché la personale
definizione di notizia fornita da ogni inviato. Tutte obiezioni legittime, ma
che non hanno mai intaccato la sostanza dell'impostazione redazionale. Ho un
ricordo nitidissimo delle decine di telefonate che ci segnalavano cani
abbattuti, risse tra automobilisti, presunti incendi, blocchi del traffico,
inquietanti dichiarazioni di presidenti di bocciofile. Erano informazioni
soggettivamente allarmanti, che confluivano nel fiume delle notizie drammatiche
che ogni giorno inondavano le redazioni nella seconda metà degli anni '70:
cortei, occupazioni, scontri, dibattiti, Prima Linea, fascisti, morti... Su
quello che è accaduto in quegli anni (che non definirei formidabili, ma
sicuramente interessanti) l'elenco può essere lunghissimo. È così che Radio
Popolare si è imposta come radio d'informazione principale sulle notizie locali:
«Pronto? Non vedo dalla finestra, ma hanno sparato a uno con la scorta!» «Senti, è molto probabile che domani si occupi... No, no, non la radio: la scuola...»
«Pronto, abbiamo deciso di bloccare l'autostrada. È già chiusa, non passa
più una macchina...»
Questo flusso (termine fin troppo usato in radiofonia, ma dieci anni dopo) di notizie interrompeva qualsiasi trasmissione in onda in qualsiasi momento della giornata, creando una delle caratteristiche più marcate dell'emittente: l'imprevedibilità. È vero, il manuale del perfetto radiofonico ci ricorda in più parti che la certezza d'emissione e di appuntamenti fissi nel palinsesto è un punto di partenza per creare audience, ma questa imprevedibilità dava voce a una realtà cittadina che attraverso le telefonate si riversava sulla radio, sollecitandola: inaspettatamente questa impostazione - che coinvolgeva l'ascoltatore in un ruolo attivo di partecipazione - creò un effetto di fidelizzazione all'ascolto che aveva aspetti patologici inquietanti. Ore e ore con la radio accesa in attesa di un aggiornamento, di un collegamento, di una trasmissione straordinaria. Restava però quell'unica certezza: se fosse successo qualcosa, in città o nel mondo, Radio Popolare l'avrebbe detto subito. Non sempre ci riusciva, ma spesso sì. Bisogna anche ricordare che in quegli anni la radio si rivolgeva a un pubblico iperpoliticizzato, militante, pronto alla mobilitazione e convinto - a ragione - che la gerarchia delle notizie dovesse essere totalmente diversa da quella della RAI. La conseguenza era una sorta di presidio acustico continuo e inesorabile da parte degli ascoltatori. In una delle tante cene a casa di ascoltatori in occasione dell'ennesima campagna abbonamenti, a metà serata andai in bagno: quando accesi la luce fui fulminato dalla mia voce che salutava gli ascoltatori, dando appuntamento alla settimana successiva. Accesi e spensi l'interruttore della luce-radio per diversi minuti, totalmente incredulo di fronte al triangolo interruttore-luce-radio (effettivamente a ripensarci all'epoca ci si stupiva con poco) ma in particolare colpito dalla «fidelizzazione» dell'ascoltatore il quale con serenità giustificava il tutto con un semplice: «Al mattino quando c'è il notiziario di solito mi faccio la barba». Ci misi del tempo a riprendermi e le sue motivazioni non mi convinsero del tutto. Probabilmente il rapporto impostato fin dalla nascita della radio dai redattori con i propri ascoltatori è una delle essenziali intuizioni che ha permesso a Radio Popolare di sopravvivere alla moria di decine di radio di movimento e d'informazione nel corso dei tre decenni successivi.
Oltre al contributo economico (anche se prioritario), il supporto degli
ascoltatori si è manifestato e ramificato in più affluenti in apparenza
inesauribili. La radio attingeva continuamente dagli ascoltatori, scovando
esperti musicali, professori universitari, operatori culturali, semplici fan dei
più vari generi musicali o anche solo studenti, universitari e medi (non era
ancora iniziata l'invasione degli «stagisti»), che hanno iniziato come inviati e
ora sono diventati caporedattori e direttori, non necessariamente a Radio Pop.
Scuola di radio Se ci soffermiamo sulle modalità di assunzione, stipendi e forme di compenso, si nota come Radio Popolare solo in rarissimi casi è entrata nel mercato per assumere redattori o collaboratori con una professionalità già acquisita. Normalmente, non potendo intervenire sul mercato, ha da sempre attinto al vivaio di ascoltatori disponibili e volontari, creando una scuola di giornalismo e di radiofonia (in alcuni casi di giornalismo radiofonico). Oggi, grazie al turnover continuo degli stagisti, sembra più facile assolvere questa funzione, ma è evidente che le motivazioni sono cambiate. I limiti di questa esperienza (che in molti casi sono evidenti) hanno spinto il collettivo di Radio Popolare lungo la sua storia a trovare continuamente delle soluzioni. Resta il fatto che per molti anni la radio ha offerto, a vari livelli, la possibilità di verificarsi con il mezzo e provare l'ebbrezza dell'onda. Lo scambio consisteva nel garantire un facile accesso ai microfoni in cambio della gratuità della prestazione. Intere fasce come quelle del notiziario della sera (chiusure) e vari programmi (Rubrica giovani, aperture, Notturnover, L'Altro Martedì) per anni sono esistite anche grazie ai volontari (categoria superiore all'ascoltatore). Il numero di persone passate dalla radio è impressionante: oltre tremila persone hanno lavorato o collaborato a vario titolo (almeno il 60% gratis) con Radio Popolare. Alcuni facevano già parte del mondo della comunicazione, altri vi entravano per la prima volta, la maggioranza (tra cui chi scrive) continua a lavorarci anche grazie a quello che ha vissuto a Radio Popolare. È fin troppo facile elencare i vari «collaboratori eccellenti» che tutti conosciamo (troverete la lista in fondo a questa prefazione); in questo libro, oltre ai vari Scaramucci, Gino e Michele, Lerner, Gialappa's, Cucuzza, si possono incontrare «radiofonici» insospettabili che sono stati disponibili a raccontare in prima persona la loro esperienza e le loro trasmissioni, in particolare la fase più caotica, quella basata solo su sensazioni, confronti, teorie spicciole. | << | < | > | >> |Pagina 354Piovono pietre (1997-2001)Striscia quotidiana di politica e attualità, di Alessandro Robecchi. In onda dal lunedì al venerdì dalle 7.48 alle 8.00. Piovono pietre fu un lento avvicinamento. La direzione della radio (Piero Scaramucci) mi forniva indicazioni sull'orario: la mattina, dalle otto meno un quarto alle otto, l'assoluto prime-time degli ascolti, un pubblico reso fedele dalle abitudini, cui dare un appuntamento quotidiano, una sveglia, una scossa. Nessun'altra indicazione se non l'ovvio: il DNA della radio, del suo pubblico, quello che siamo e che vogliamo dire. Ci aggiungevo il mio: ritmo spedito, cose da ridere, nausea e sarcasmo per quel buonismo che imperava all'epoca. Sono le otto meno un quarto. La gente va a lavorare, è in coda, è incazzata, è immersa in questi anni di marmellata in cui tutti dicono che non ci sono nemici, soltanto avversari. A me sembrava pieno di nemici, invece. Ero incazzato anch'io, ma guardando le cose da sopra, come dalla nave marziana, oddio quant'erano assurde. Un americano usa 500 litri di acqua al giorno, un mozambicano 8. E ogni mozambicano che nasce deve dare 800 dollari all'America. Questo è il mondo, ed è assurdo, bisogna che qualcuno lo dica, non solo quello che succede, ma anche che è assurdo. La politica, la vita, il mondo. L'Ulivo era appena andato al governo, la destra catodico-razzista sembrava tramortita, si sarebbero detti anni grigi, senza passione. Ma erano sempre le otto meno un quarto, la gente era incazzata lo stesso, la vita era grama lo stesso, Piovono pietre era rubato al più poetico dei Ken Loach. Disoccupati che rubano pecore per campare. Eccoci, c'era il titolo. Con Gianmarco Bachi, che credo mai mi perdonerà, costruimmo alcune tonnellate di nastri di numeri zero, prove, controprove. Lui venne anche per qualche settimana (le prime puntate) a tenere il mixer, prima che mi impadronissi dei cursori e facessi da me. Trovai la sigla, una canzone a me carissima ancora oggi che dava al programma quel tono che il programma voleva avere. Simmer Down è stato il primo ska cantato da Bob Marley. È scanzonato e paraculo. Saltella. È mesto con la mestizia di chi ci ride sopra. Un po' amaro, un po' allegro. Contiene il più bell'assolo di trombone che abbia mai sentito. Contiene la più inspiegabile delle cose inspiegabili: come possano stare insieme sofferenza e gioia, come si possa ridere anche piangendo un po'. Era l'unica sigla possibile. Ci respirai sopra, ci parlai, ci entrai in mezzo, mi sovrapposi e la lasciai scorrere a briglia sciolta per quasi ottocento puntate. Era più che una sigla, era l'idea della forma di Piovono Pietre. Strttura elementare. Una battuta «sul bianco», poi la partenza della sigla, i saluti, le battute fresche di giornata sull'attualità. Poi tre-quattro piccoli brani letti (letti veloci, alla garibaldina, come non leggere) su quel che il mondo ci riserva oggi. Stacchi feroci, ska sparato, contrappunti che rimbombavano corale schioppettate, e la voce seguiva. Il commento politico, la satira, la notizia che nessuno dà, i primi echi di quello che dopo, molto più tardi, sarebbe stato noto a tutti come lo scandalo della globalizzazione. Ma già allora si privatizzava l'acqua, già allora c'erano guerre (e nostre, dicevano, e giuste, dicevano), già allora la politica non era il Palazzo e la vita non era solo qua. Era diverso da quello che si sentiva in giro, ecco, questo lo sentivo anch'io. Era diverso da quel tono di captatio benevolentiae che le radio hanno nei confronti di chi le ascolta. Era un'aggressione affettuosa. Su, è tardi, correte, andate a lavorare! A produrre, bastardi. Era una frustata, niente sconti, questo è il vostro mondo di oggi, bella merda. Faceva ridere. Faceva incazzare. Arrivavo in radio alle sei, uscivo alle otto e dieci, e si ricominciava: dieci quotidiani, le agenzie, i siti Internet, tutto per scovare altre notizie, altre assurdità dal mondo, le più grottesche ingiustizie. E poi scrivere, creare i tormentoni, smontarli, indossare la tuta anticazzate davanti alle più strampalate dichiarazioni dei nostri politici, giocare. Un lavoraccio. Che mi parve strabiliante soltanto dopo - qualche mese dopo - constatandone l'impatto sugli ascoltatori. Da avere paura. Cos'era dunque Piovono pietre? Cosa diavolo avevamo messo in piedi: Era un'autocoscienza, anche. Un corsivo politico, anche. Una voce incontrollabile, pure. Controinformazione, certo. Informazione, anche di più. E faceva ridere. Sghignazzare. Incazzare. La gente scriveva per chiedere se era vera la tal notizia, o la tal altra. Era impossibile. Era enorme. Uno chiese indicazioni per comprare parquet equi e solidali. Chiedevano di parlare di più della guerra in Congo, dell'acqua in Bolivia, di quel pirla del sindaco di Milano. Denuncie di ingiustizie, invocazioni di appelli. La casella mail riceveva centinaia di messaggi. Una piccola trasmissione stava diventando una specie di coscienza collettiva, e quindi appuntamento fisso, irrinunciabile. Da qualche parte della Bosnia o della Serbia, o non so, un cronista di un telegiornale Mediaset indicò una immensa montagna di ossa umane, cadaveri estratti da una fossa comune, e disse «Dedichiamo queste immagini a certi commentatori di Radio Popolare». E questo perché Piovono pietre non voleva la guerra, laggiù, come da nessun'altra parte, del resto. Non credevo si potesse arrivare a tanto. La cosa era più grossa di undici minuti. Premeva. Debordava. Produceva lettere d'amore. Mi dedicavano cataste di morti ammazzati. Ricordo un abbonaggio (in gergo, la campagna abbonamenti di RP) in uno degli anni di Piovono pietre (sarà stato il '97, il '98, o anche il '99) in cui sembravo la Madonna Pellegrina. C'era felicità per il successo del programma, gioia per gli ascolti, e un imbarazzo grandissimo, una vergogna profonda per un culto della personalità che era anche affetto vero, ma pesante, presente, di tipo «televisivo». Andava bene anche quello. È la radio. Con la liquidazione di «Cuore» comprai la casa con la mia compagna. Il notaio non mi fece pagare la mia quota: «Perché lei mi fa ridere alla mattina». Qualche politico della sinistra riformista si fece sentire al telefono col direttore. Non mi venne mai passata una telefonata e quando mi si disse: «Questa volta hai esagerato!» non c'era nulla, in quella frase, che dicesse anche: «Non esagerare ancora». Piovono pietre è stato per me soprattutto questo: uno spazio assolutamente, strepitosamente, incredibilmente libero. Io venivo dalla carta, comunque, dalla satira, sì, quindi da una carta particolare, ma pur sempre scritto, mai parlato. Scoprivo che la voce ha la sua punteggiatura e che le sfumature sono infinite. Che si può essere emozionali con molto meno di un punto o di una virgola. Che si seduce e si respinge. Che una chitarra o una tromba che entrano giuste sono un moltiplicatore di senso. Che Billy Wilder diceva: «Se proprio devi dire la verità, falli ridere. I comici saranno risparmiati». Dopo decine di puntate, spingere e tirare i cursori del mixer era come respirare, ma più consapevole: come decidere il respiro. Nel 1999 Piovono pietre vinse un premio, un premio importante, il Premio Viareggio per la satira politica, sezione radio. Feci il bagno al Forte e mi misi una bella giacchetta e andai alla Bussola, alla serata di gala. Volevo fare un discorsetto, ma prima di me premiarono un signore, un buffo e piccolo curdo di Turchia, direttore della rivista satirica «Piné». Incarcerato, picchiato, represso in tutti i modi, e ancora capace di fare la satira, di pensare che fare ridere è meglio di tutto. che la gente capisce meglio. Non mi sembrava aria di discorsetto, lui mi sembrava così grande, e alla line, tutto il resto, anche Piovono Pietre, così piccolo. Ma Piovono Pietre si mangiava da sola. Dopo cinque stagioni, quasi ottocento puntate, il gioco diventava una citazione di sé stesso. Gli stessi che cinque anni prima dicevano mi piace perché fa ridere, ora dicono meno male che c'è almeno quello. È consolatorio, dice ciò che l'ascolto di RP vuole sentirsi dire. Uno di quelli del marketing direbbe che il prodotto fidelizza i clienti (e come!), ma anche che non ne guadagna di nuovi. Io invece ero stanco di dire sempre, tutti i giorni, qualcosa di intelligente (presunto tale, ovvio) su qualunque cosa, battuta, giochetto, freddura passeggera, ragionamento, parodia, comizio, invettiva, paradosso. Le chiavi erano infinite, e solo una era esclusa: quella di non avere per una volta niente da dire, quella di tirarsi un po' fuori dalla corrente. Quello che ho fatto il 14 giugno 2001, salutando con la solita (dis)grazia paracula e strafottente, chiudendo con una puntata standard, veloce, scanzonata e poi: «...è l'ultima puntata di Piovono pietre... come farete senza di me... ma soprattutto, come farò io senza di voi... ehi... ho un'idea, beviamo tutti insieme del cianuro...». Finiva così, come dire, perché è bello lasciarsi. Anche se poi se ne dissero e chiesero di tutti i colori e le telefonate degli «orfani» di Piovono pietre si infilarono in onda e fuori onda più volte. Era così semplice, invece: quasi ottocento puntate, oltre un centinaio di stacchi musicali, testi per quasi tremila cartelle, cinque anni di tutto questo. Ma erano sempre le otto meno un quarto, la gente era in coda, andava a lavorare. Era incazzata come prima e forse di più. Era semplicemente ora di smettere. Dopo di allora ho fatto altre cose e anche le stesse cose. I corsivi di Ballarò (RaiTre, stagione 2001 e 2002) contenevano qualcosa di Piovono pietre. I siparietti politici scritti per Markette (La Sette, stagioni 2004 e 2005) pure. Verba Volant (RaiTre, stagioni 2004 e 2005), il mio programma (con Peter Freeman) ne contiene ancora degli echi. Eppure il senso di assoluta libertà di appartenenza al mezzo che attraversavo per uscire, di famiglia e di tribù che ho trovato intorno facendo Piovono pietre non c'è stato più. Era proprio un incontrollato stupore: primo, che si potesse fare. Secondo, che lo si facesse davvero. (A.R.) | << | < | > | >> |Pagina 406Sansone (1999-2006)Rubrica satirica quotidiana. Tra i conduttori: Gianmarco Bachi, Massimo Rebotti, Claudio Agostoni. Dalle 8.30 alle 9.00. Tutto ebbe inizio nel novembre del '99. Con un imprinting apocalittico. Fin dal nome: Sansone, il famoso arruffapopoli. La scelta fu casuale. Ma era l'autunno del millennio e lo spirito dei tempi, non ancora corroborato dall'era dei condoni, suggeriva stagioni di macerie. C'erano da raccontare la Milano «neo-illuminista» di Albertini, il modello lombardo di Robertino «Bum Bum» Formigoni. C'erano la terra santa di Arcore che muoveva verso la riscossa elettorale e la mistica padana che veniva giù dalle valli come un torrente in piena. C'era soprattutto un pubblico di ascoltatori che aspettava una botta di adrenalina. Gente intrappolata giorno dopo giorno sulle tangenziali, gente che si trascinava al lavoro colle palpebre pesanti quanto una saracinesca, gente alla ricerca di una scintilla vitale per tornare orgogliosamente a incazzarsi. Masticando amaro sulle denunce, sorridendo sulle parafrasi quotidiane di un paese ormai surreale, ghignando a crepapelle di fronte alle malinconiche e improbabili imprese dei cugini Infantozzi. Sì, gli Infantozzi. In studio c'eravamo noi: Gianmarco Bachi, Claudio Agostoni e Massimo Rebotti. Ma in giro, per le strade, nei mercati, nei comuni, negli uffici pubblici o nelle sedi di partito ci andavano loro. Il capostipite fu Ciro (Daniele De Luca), il primo, il più amato. Più che un inviato un mujaheddin dell'indolenza. Lui, lo scopritore dell'energia piumonica, il teorico del calore sviluppato sotto le coperte come fonte energetica alternativa. Uomo dalla pigrizia abissale, come hanno certificato per anni gli agghiaccianti fuori onda proposti agli ascoltatori. Tanto pigro da non essersi quasi mai spinto per un collegamento oltre i confini della terra natale. Quella zona di Milano conosciuta come Città Studi, che sarebbe diventata un microcosmo fiabesco in cui si riflettevano tutte le grandi questioni del pianeta. Fino ad assurgere a «promise land» del pacifismo grazie all'indimenticabile canzone interpretata da Ciro stesso sulle note di San Francisco di Scott McKenzie. Di tutt'altra pasta era Thomas Infantozzi (Thomas Paggini). Tempra teutonica e invidiabile faccia di tolla. Fece centro al primo colpo introducendosi nel «centro di permanenza temporanea» di via Corelli. Si finse un pony express che doveva consegnare una torta di compleanno e raccontò in diretta radiofonica quello che allora era territorio off limits per tutti i giornalisti. Erano i giorni dell'accoglienza negata, della «tolleranza zero» sbandierata con orgoglio dalla giunta milanese. Celebrammo la seconda edizione di Extrafestival, il primo festival della canzone italiana interpretata da cittadini stranieri. E in via Corelli ci tornammo, questa volta con le radioline che gli ascoltatori avevano regalato agli immigrati stipati dietro quei cancelli. Quell'edizione di Extrafestival la ascoltarono anche loro. Nel frattempo si erano aggiunti altri Infantozzi. Dylan (Disma Pestalozza), il più pavido, l'uomo dei consolati, abile tessitore di trattative diplomatiche di fronte alle sconcertate cancellerie di tutto il mondo. E Annibale (Matteo Caccia) che avrebbe poi prestato voce e talento a Wallox, l'alieno venuto sulla terra per apprendere i segreti della politica italiana, nonché a Efisio, l'astuto e spregiudicato costruttore di trappole che ci ha svelato tutti i retroscena dello scandalo Telekom-Serbia. C'erano tutti quella notte di giugno del 2002 quando si celebrò il «Bye Bye Ciro Summer Party». la prima festa della storia di Sansone. C'erano soprattutto le 10.000 persone accorse nel parco dell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini per consegnare il modulo dell'operazione –> Digital Medio che si faceva beffe di chi, allora, voleva prendere le impronte digitali a tutti gli immigrati. Fu in quell'occasione che percepimmo fattivamente il calore, l'affetto di così tanti ascoltatori. Quegli ascoltatori che avevano partecipato spontaneamente al racconto in diretta della pioggia di coperte che cadevano dai cieli della Lombardia. Era un inverno, quello del 2001, in cui moriva un senzatetto al giorno per il gelo. E tutti i media preferivano occuparsi dei blocchi di ghiaccio che precipitavano al suolo misteriosamente. Bastò un cenno di intesa, una suggestione lanciata attraverso i microfoni e partì la cronaca dolce-amara di un malinconico e indimenticabile «miracolo a Milano». Intanto la famiglia sansoniana cresceva e si arricchiva di una ricca galleria di personaggi e collaboratori. Sveva (Marcella Volpe) innanzitutto. L'incarnazione della pasionaria da salotto, la donna che bramava il subcomandante Marcos guardando le rivoluzioni dalla terrazza. Fu lei a portare alla trasmissione quella seducente componente venusiana che fino ad allora alla trasmissione era mancata. Un via di mezzo tra Gloria Swanson, Alice nel paese delle meraviglie e Anna Kuliscioff. Per molti un genio e una donna da sposare. Per altri gramigna da estirpare dal giardino del socialismo reale. Per noi, la migliore compagna di questa avventura. Come Yuki (Yuki Kumagawa), la dolce fanciulla dagli occhi a mandorla, portavoce del comitato Banzai. Arrivò un pomeriggio in redazione portandoci un cd di amici giapponesi. Due giorni dopo era in onda a raccontarci le città dei mondiali di calcio in Giappone. Troppo simpatica perché la sua partecipazione al programma si concludesse con il triplice fischio arbitrale. Le facemmo fare la valigia e la trasferimmo al Quirinale. Da allora ci ha raccontato, settimana per settimana, i retroscena pubblici e privati della vita del presidente Azeglio Ciampi e della signora Franca, come nessun quirinalista ha saputo fare prima. Che dire poi del professor Di Stefano? Fino al suo avvento il linguaggio dell'economia e della finanza erano per noi e per molti ascoltatori il regno delle tenebre, una sorta di neo lingua impenetrabile, oscura quanto un codice cifrato. Gli chiedemmo di provare a tradurre quell'idioma per adepti in una lingua comprensibile. E lui lo fece. Pane e salame. Svelandoci tutti i segreti del Tan e del Taeg, portandoci in gita per paradisi fiscali, vaticinando sventure come il crack della Parmalat e gli scandali bancari. Tanto che oggi, di fronte agli ascoltatori, gode dello stesso carisma di Keynes e Alan Greenspan messi insieme. Nel novero dei «cattedratici» non possiamo dimenticare il professor Amadori. Psicologo della comunicazione, sondaggista ed ex campione di Super-flash. Uno dei pochi esseri umani viventi in grado di maneggiare contemporaneamente sistemi complessi di analisi statistica, sessualità degli invertebrati e profezie di Nostradamus. Dobbiamo a lui la beffa televisiva a Giuliano Ferrara. Quando, ospite di Otto e mezzo, propose una raffinata riflessione sui cicli della politica berlusconiana, articolandola ad arte attorno all'esortazione: «Così tu sei Sansone! Il famoso arruffapopoli!». Se non lo vedrete mai più in televisione, sappiate che la colpa è anche nostra. Non possiamo poi dimenticare lo Stolto e le sue iperboliche interrogazioni sulla storia d'Italia. Paolo Giulini, l'inviato dalla Bulgaria che nella primavera del 2001 - causa par conditio - ci raccontò la contestuale e metaforica campagna elettorale di re Simeone. Marta Bonafoni con la sua «storia capitolina». E infine lui. L'Ambroeus, il robot di Verza, il primo supereroe 100% padano. Un incrocio devastante tra Borghezio e il Mecadon II che per tutti questi anni ha combattuto accanto al fido Belotti per la paradossale difesa dei sacri valori del Nord. Sono trascorsi quasi 7 anni dall'inizio della trasmissione. Fa abbastanza impressione tornare indietro nel tempo. Un po' ti si stringe lo stomaco. Un po' ti resta addosso quella sensazione di... bello. E ancora adesso, per ogni sveglia all'alba, più del caffè, più di quei quattro piegamenti che ti facevano schioccare male le ginocchia, ti rendi conto che a funzionare era la scoperta che là fuori, dall'altra parte, c'era qualcuno che si svegliava con te, ti ascoltava e sorrideva. Mentre partiva la sigla. Con i colpi di rullante a crescere e quella fanfara balcanica che si apre e si gonfiava fine a infiammarsi. Quando aprivi il microfono per tornare a dire: «Buongiorno, sono le 8.30 del mattino. Questo è Sansone. Il famoso arruffapopoli». (G.B.) | << | < | > | >> |Pagina 408Una delle cose che sicuramente è poco conosciuta di Sansone è che la riunione di redazione era telefonica e si svolgeva tra le 23 e la una di notte del giorno che precedeva la trasmissione. Mi chiamava Gianmarco Bachi e si stava al telefono un bel po' a stabilire tema e inviati del giorno, con l'effetto collaterale che spesso tra le 6 e mezza e le 8 e un quarto le cose venivano stravolte. Sansone ha vissuto stagioni differenti. C'è stata in particolare una stagione e mezza che abbiamo dedicato al territorio: a questioni legate alla vita in regione Lombardia, a Milano e ai paesi della provincia. Ci sono state anche alcune campagne mirate per coprire il più capillarmente possibile determinati argomenti come Formigoni per la Regione o la Colli per la Provincia quando la soprannominammo «Ombretta ruspetta» per la privatizzazione dell'Idroscalo. Poi cercavamo storie specifiche: da via Corelli, alla qualità dell'aria piuttosto che al taglio degli alberi. Per «coprire» il territorio facevamo molti collegamenti con gli inviati, i famigerati Infantozzi. Era fondamentale essere visibili anche con gli inviati e ci sono state puntate che hanno riscosso un discreto successo. C'è stato un famoso spogliarello di Thomas Infantozzi con decine e decine di spettatori su un ponticello in un paese della periferia di Milano. Negli anni successivi, visto che erano cambiate un po' le situazioni, abbiamo deciso che Sansone dovesse allargare il suo raggio d'azione ai fatti nazionali e internazionali, in particolare dopo 1'11 settembre che aveva anche modificato la percezione degli ascoltatori.
Uno dei miei compiti nella trasmissione era anche quello di intervenire
sugli inviati nei casi limite quando Gianmarco non riusciva a convincerli a fare
un servizio e usava l'arma da fine del mondo «ti faccio chiamare da Massimo». È
successo con Daniele De Luca diverse volte (sortendo per altro risultati
relativi) e con Thomas Paggini in qualche occasione.
Ciro Infantozzi L'idea di una trasmissione «diversa», di intrattenimento e informazione insieme, girava nella testa di Gianmarco Bachi da un po' di tempo e la si condivideva con Rebotti, Agostoni e il direttore Piero Scaramucci. Io ero nella redazione giornalistica e il fatto di mischiarmi a «quelli dei programmi» non era ancora socialmente accettato... anzi... c'era una discreta difficolta a proposito e poi io proprio non mi sentivo tagliato (e non lo ero). Di fatto sono stato cooptato. Giro Infantozzi è nato davvero per caso. Vivevo in una casa in Città Studi (off corse) e una sera ho invitato a cena Agostoni, Bachi e Rebotti anche per fare il punto su Sansone. Il precedente inquilino si chiamava, appunto, Ciro Infantozzi (Infantozzi tutto attaccato). Ricordo ancora le risate di Bachi quando comunicai il citofono che dovevano premere per entrare. E così nacque Ciro. Tengo a precisare che l'originale Giro Infantozzi non ne seppe mai nulla e mi auguro non lo scopra da queste righe... non si sa mai... Nella prima puntata dovevo fare la «cavia-umana» per testare l'inquinamento di una trafficatissima via di Milano. Poi ho continuato a fare la cavia ma per mille altre «imprese». L'allergia di Ciro al risveglio mattutino è cosa nota; in effetti in molti casi sono andato in onda in un totale stato di «trance-comatosa» che a volte sortiva gli effetti più comici (involontari) altre quelli più radiofonicamente disastrosi (volontari). Con Sansone ne sono successe di tutti i colori e devo dire che mi sono divertito parecchio. Resta per me indimenticabile il «vaffa» lanciato al vicesindaco De Corato direttamente dal balcone di Palazzo Marino, le espressioni sconcertate dei vari funzionari di ambasciata, degli impiegati comunali, dei pensionati per strada, dei negozianti, la dolcezza delle venditrici ambulanti dei vari mercati rionali (ormai li conoscevo tutti, uno per uno) e, ovviamente, le gnokke strepitose di architettura dove tentavo SEMPRE di farmi mandare. Aggiungo che Ciro non è mai stato utile per il kukko... perlomeno mai in «servizio». Ammetto in un paio di casi di avere barato (ma non più di un paio!). Ricordo una volta in cui dovevo essere davanti alla Borsa per intervistare degli operatori finanziari (non ricordo l'argomento), invece mi ero alzato tardi ed ero in Piazza Ferravilla. Disperato e in panico decisi di fingere spudoratamente. Quando dovetti avvicinare qualcuno mi capitò per caso di imbattermi in un paio di testimoni di Geova che erano in giro a vendere «La Torre di Guardia». Il risultato dell'intervista «finanziaria» con loro fu notevole. Devo dire che grandi soddisfazioni mi diede anche l'interpretazione della «medium» bergamasca Amndla De Hoera; meno soddisfatti erano i miei vicini di casa che non capivano da dove venissero quelle urla e quegli stridolii allucinanti alle 9 del mattino... E poi le canzoni, i concerti al Pini (dove mi vergognavo come un ladro), l'incontro con gli ascoltatori. Grazie Ciro e grazie RP... Ci siam fatti un culo a capanna in tanti anni ma ci siamo divertiti assai, riuscendo sempre a sorprenderci.
E questo, davvero, rimane. (D.D.L.)
Sveva MARCELLA: «Sveva nasce una sera di giugno del 2000 durante l'addio alla vecchia sede di via Stradella. Quella sera la chiusurista Marcella Volpe finisce nel cestino della carta straccia. Tra i motivi: la scarsa stima di me stessa e soprattutto l'ebbrezza alcolica (come tanti quella sera, devo dire). A pescarmi fu l'astemio Gianmarco Bachi, cui cominciai a raccontare (suo malgrado) la storia della mia vita e la mia visione del mondo. Cose che capitano quando si è in stato di ebbrezza. Diventammo amici. E qualche mese dopo arrivò la sua proposta più o meno in questi termini: "Ma perché le stronzate che racconti a me non le dici a Sansone?". Mi ha fornito un nom de plume e tutto è cominciato. Io avevo sperato in una proposta di nozze, ma forse diventare Sveva mi è convenuto di più. Ho fatto uscire quella radical stronza intrappolata dentro di me senza diventare schizofrenica».
SVEVA: «Rradical Strronza? Ma come ti perrmetti...
guarrda carra che sono stata IO, nel 2001, a moderrnizzare la sinistrra
consigliandole il trragitto migliore perr passare dalla sezione al salotto senza
farre la fine dei furrbetti che finiscono in prrigione. Eppoi ho
dirretto un foglio corrsaro
Vanity Blair,
che ha reinterrpretato i fatti della politica e della crronaca deformandoli e
rrielaborrandoli tutto in chiave gauche glamourr. Il primo foglio situazionista
dirretto dallo studio 2. Peccato solo che Gianmarco fosse sempre così
morralista e pretendesse addirittura di scrrivermi le
battute... E
Gli uomini preferriscono le Fionde?
Ce li siamo dimenticati? (M.Vo.)
Yuki
Sono arrivata a Milano in tardo autunno 1999 da Bologna, dove un
collaboratore di Radio città del Capo mi
aveva indicato che la radio del network a Milano era RP.
Cosi ho cominciato ad ascoltare RP... In un certo punto,
mi sono accorta che tra le vari trasmissioni i miei orecchi stavano prestando
particolare attenzione a un programma pieno di battute e nonsense che mi faceva
ridere troppo...
Sansone.
Era primavera 2000. Poco dopo, durante la campagna del —> mattonaggio, dopo
avere ascoltato l'appello «pieno di entusiasmo» di Gianmarco (...non conoscevo
ancora il suo nome, mi sono detta solo «Ah, lui è quello di
Sansone!»),
sono corsa a via Stradelli e ho comprato un mattone da Ezio De Gradi. Ecco il
mio primo contatto diretto con RP. In Natale 2001, mentre ero a Tokyo dai miei
amici giapponesi, con l'effetto di vino fermentato dall'emozione di riunione, mi
è venuta voglia di raccontargli del
Sansone.
Isaji che suona col suo band di ukulele mi fa: «Perché non
mandi il nostro disco a
Sansone?».
Quindi l'ho fatto appena sono rientrata in Italia. E inaspettatamente Claudio mi
ha chiamato e mi chiedeva se ho voglia di fare quattro chiacchiere con lui e
Gianmarco. Ho voglia? CERTO CHE SIIIIIIIII'!!!!!! Per me loro due insieme a
Massimo erano ormai un mito. Quando sono andata a
trovarli, mi hanno proposto di presentare delle città
giapponesi che ospitavano le partite per il Mondiale
2002 Corea-Giappone. Così che è cominciata la mia
avventura con Famoso Arruffapopoli. Nella stagione
successiva, mi toccava a sfidare Sig. Aldo Grasso: mi
hanno dato l'incarico di fare, dal principio di «par condicio»,
critico/osservatore per i programmi tv italiani,
fondendo così Comitato Banzai. Qui poi è stata accolta
come presidente onorario sig.ra Franca Ciampi con la
sua parola leggendaria: «Tv Italiano è deficiente». Sotto Natale 2003, quando
legge Gasparri stava per essere varato, sig.ra Franca ha nascosto la penna di
Azeglio al Quirinale...! Da lì che Comitato Banzai ha cominciato a seguire le
vicende presidenziali per raccontare al popolo di
Sansone
tutta la retroscena. Dopo quattro anni, incredibilmente ero ancora dentro la
trasmissione e ciò mi faceva immenso piacere. Ormai non riuscivo più
a uscire dal mondo surreale del Quirinale. Mi sentivo
davvero di conoscere bene Azeglio e sig.ra Franca.
Quando poi la gente mi riconosce e mi saluta con tale
spontaneità e simpatia come se io fossi la sua vecchia
amica, mi commuove... Dall'altra parte, ormai nessuno
mi corregge più il mio italiano... Dicono: «Va bene così!» (Y.K.)
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