Copertina
Autore Joshua Ferris
Titolo E poi siamo arrivati alla fine
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2006, Bloom 1 , pag. 400, cop.fle., dim. 13x21,5x2,4 cm , Isbn 978-88-545-0141-6
OriginaleThen We Came to the End [2006]
TraduttoreKatia Bagnoli
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa statunitense
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Pagina 7

Voi non sapete che cosa c'è nel mio cuore


Eravamo irritabili e strapagati. Le nostre giornate non promettevano nulla. Quelli di noi che fumavano potevano almeno aspettare con ansia le dieci e un quarto. La maggioranza voleva bene quasi a tutti, pochi odiavano qualcuno in particolare e un paio di noi amava tutto e tutti. Quelli che amavano tutti venivano ingiuriati all'unanimità. Ci piacevano i bagel gratuiti al mattino, ma capitava fin troppo di rado. I benefit erano incredibili per numero e livello di accuratezza. A volte ci domandavamo se ne valesse la pena. Pensavamo che magari sarebbe stato meglio trasferirci in India o tornare alla scuola per infermieri. A lavorare con i disabili o a svolgere un'attività manuale. Non c'era mai nessuno che seguisse questi impulsi, nonostante si agitassero dentro di noi ogni giorno, a volte ogni ora. Viceversa, ci si incontrava nelle sale riunioni per discutere l'ordine del giorno.

Di solito ci venivano affidati incarichi che assolvevamo in maniera adeguata e professionale. Certo, cazzate ne facevamo. Errori di stampa, cifre spostate. Ci occupavamo di pubblicità e i dettagli erano importanti. Se la terza cifra dopo il secondo trattino nel numero verde di un cliente era un sei invece di un otto, e se veniva pubblicato cosí su Time, nessuno avrebbe potuto chiamare e ordinare subito. Certo, poteva sempre andare sul sito, ma dovevamo comunque rimetterci il prezzo dell'annuncio. Vi state gia annoiando? Noi ci annoiavamo tutti i giorni. La nostra noia era sempre in corso, una noia collettiva, e non sarebbe mai morta perché noi non saremmo mai morti.

Lynn Mason stava morendo di cancro. Era uno dei soci dell'agenzia. Morendo? Non si sapeva con sicurezza. Era sulla quarantina. Tumore al seno. Esattamente non era chiaro come tutti ne fossero venuti a conoscenza. Era vero? Alcuni sostenevano che fosse una diceria. Ma in realtà le dicerie non esistono. Esistono i fatti e alcuni fatti non rientravano nella conversazione. Il tumore al seno era curabile se preso nella fase iniziale ma forse Lynn aveva aspettato troppo. Ricordavamo di aver guardato Frank Brizzolera pensando che gli rimanessero sei mesi al massimo. Il vecchio Brizz, cosí lo chiamavamo. Fumava come un turco. Con il tempo piú inclemente se ne stava fuori dall'edificio ad assorbire le Old Golds con addosso soltanto un gilet di maglia. Allora e solo allora sembrava indomito. Quando rientrava, era preceduto dalla puzza di nicotina che indugiava a lungo nel corridoio anche dopo che lui era entrato in ufficio. Cominciava a tossire e dai nostri uffici sentivamo il sedimento solidificarsi nei suoi polmoni. Per via di quella tosse alcuni lo mettevano ogni anno nella lista dei papabili di Quale vip muore prima? anche se ufficialmente non era un vip. Lo sapeva anche lui di essere nella lista e che certi individui avevano scommesso e avrebbero tratto profitto dalla sua morte. Lo sapeva perché era uno di noi, e noi sapevamo tutto.

Non sapevamo chi ci rubasse dalle scrivanie. Sempre piccoli oggetti: cartoline, foto incorniciate. Avevamo qualche sospetto ma nessuna prova. Credevamo che non fosse dovuto al valore delle cose in sé quanto all'eccitazione, il piacere irresistibile della cleptomania, o forse era una patologica richiesta di attenzione. Hank Neary, il copy nero dell'agenzia, chiese: «Ma dai! Chi è che si prenderebbe il mio spazzolino da denti?»

Non sapevamo chi fosse stato a mettere il sushi dietro la libreria di Joe Pope. I primi giorni Joe non aveva idea della presenza del sushi. Poi cominciò ad annusarsi furtivamente le ascelle e a portarsi la mano a coppa davanti alla bocca, per sentirsi l'alito. Alla fine della settimana fu sicuro di non essere lui. Anche noi sentivamo l'odore persistente che saliva nelle narici, peggio della puzza di carogna. A Joe veniva il voltastomaco ogni volta che entrava in ufficio. La settimana dopo l'odore era cosí atroce da richiedere l'intervento degli addetti alla manutenzione e alla sicurezza dell'edificio. Dalle ricerche saltò fuori che si trattava di un sunshinemaki: tonno, pesce bianco, salmone e germogli. Il capo della sicurezza, Mike Boroshansky, continuava a coprirsi il naso con la cravatta quasi fosse un vero poliziotto sulla scena del delitto.

Ci ringraziavamo l'un l'altro. Era consuetudine, dopo ogni interscambio. I nostri ringraziamenti non erano mai né falsi né ironici. Era un grazie per avere risolto in fretta una faccenda, per esserci dati tanto da fare. Se c'era una riunione alla fine ringraziavamo gli organizzatori. Molto di rado dicevamo qualcosa di negativo o spregiativo sulle riunioni. Eravamo tutti consapevoli che quasi sempre le riunioni contenevano una buona dose di inutilità e in effetti una ogni tre o quattro era quasi totalmente priva di scopi o profitti e comunque, visto che quello che serviva sapere alla fine spesso veniva fuori, partecipavamo e poi ringraziavamo.

Karen Woo aveva sempre qualcosa di nuovo da raccontare e per questo la odiavamo a morte. Appena attaccava a parlare ci si appannavano gli occhi. Chissà, era forse vero, come a volte ci veniva da temere sul treno dei pendolari che ci riportava a casa, che eravamo individui insensibili e aridi, incapaci di solidarietà e colmi di disprezzo per gli altri, solo perché ci erano troppo vicini e familiari? Queste improvvise rivelazioni ci mostravano la parte peggiore di noi stessi. Dovevamo andarcene? Era quella la soluzione? Oppure erano qualità innate, che ci condannavano per sempre alla cattiveria e alla pochezza di spirito? Ci auguravamo di no.

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Avevamo ampi corridoi. Su alcuni davano uffici su entrambi i lati, mentre altri avevano uffici su un solo lato e cubicoli sull'altro. Il cubicolo di Jim Jackers era unico, nel senso che trovandosi d'angolo godeva di una vista meravigliosa. Per raggiungerlo dovevi superare la macchia di toner sulla moquette del sessantesimo. Condivideva quello spazio speciale con un'altra persona, una donna di nome Tanya taldeitali che lavorava nella squadra di un altro socio. Erano separati da una parete scorrevole di spesso vetro smerigliato, di quello che si usa per le ante delle docce. Chi si muoveva al di là del vetro appariva, visto dal di fuori, intento a strofinarsi e deodorarsi, quando in realtà stava solo archiviando o immettendo dati.

Eravamo nei primi mesi di licenziamenti quando Benny ci raccontò la storia di Cari Garbedian che diceva addio alla moglie. Per qualche ragione eravamo riuniti nel cubo di Jim - era un mistero come e perché alcuni di noi si trovassero riuniti nello stesso posto alla stessa ora. I racconti di Benny erano piú frequenti nel periodo precedente alla crisi, quando ci sentivamo pieni di soldi e di garanzie. Ci preoccupavamo meno di venire colti in flagrante riunione. Poi, arrivata la congiuntura negativa, i nostri carichi di lavoro diminuirono e, pur avendo piú tempo che mai di ascoltare le storie di Benny, diventammo piú consapevoli del rischio di essere colti in flagrante riunione, e confermare cosí che il carico di lavoro era davvero diminuito e i licenziamenti necessari. Ci trovavamo in un pasticcio: che cosa fare con le storie di Benny? Scendemmo al compromesso di continuare ad ascoltarle senza però trarne piacere, perché eravamo troppo preoccupati che arrivasse qualcuno e ci scoprisse. Potevamo ascoltare con un orecchio solo, e con un occhio sempre a guardarci alle spalle nel caso dovessimo tornare di corsa alle nostre scrivanie a fingere che il nostro carico di lavoro fosse robusto come non mai.

Cari Garbedian era sui trentacinque. Aveva una pancia che era l'equivalente maschile di una gravidanza al secondo trimestre. Portava jeans senza marca troppo aderenti e scarpe da tennis anonime, che a noi davano la misura della sua resa. Una mattina la moglie accostò al marciapiede per farlo scendere e lui rifiutò di uscire dall'auto. Benny aveva in parte assistito di persona alla scena, ma quello che non aveva saputo di prima mano lo seppe piú tardi da Carl, dopo averlo pungolato. Praticamente tutti si confidavano con Benny perché lo amavano, ragione per cui alcuni di noi lo odiavano a morte.

Poco prima di scendere dall'auto, proprio nel momento in cui Marilynn avrebbe dovuto salutarlo con un bacio, le squillò il cellulare. Era oncologa e si sentiva sempre obbligata a rispondere al telefono nel caso di un'emergenza. «Pronto?» disse «Parla pure. Susan, ti sento benissimo».

Carl si infastidí subito. Benny ci disse che Carl odiava il modo in cui la moglie rassicurava sempre le persone dicendo che le sentiva benissimo. Odiava come si tappava l'altro orecchio con un dito per escludere piú efficacemente qualsiasi rumore. E odiava il fatto che altri obblighi avessero sempre la precedenza su di lui. Cristo santo, stavano per salutarsi. Non contava niente il loro bacio, non era forse importante? La cosa che odiava veramente, e che non avrebbe mai ammesso con lei, era di sentirsi inferiore perché non aveva obblighi paragonabili ai suoi, che avrebbero potuto avere la precedenza su di lei. Lei veniva chiamata da pazienti che stavano per morire. Ammettiamolo, non esisteva una sola possibilità che qualcuno di noi chiamasse Carl per un problema di tale, fatale urgenza. Qualunque cosa dovessimo chiedergli, poteva aspettare fino a quando non lo incontravamo in corridoio. Perciò Carl giudicava il lavoro della moglie piú importante del suo; e per quel suo modo particolare di pensare in quel periodo, lei era quindi piú importante. I pensieri di Carl erano cupi, ragazzi. Non facilitavano certo il matrimonio. Avreste dovuto sentire i frammenti di conversazioni telefoniche che a volte coglievamo per caso passando davanti al suo ufficio.

Benny ci disse che quando Marilynn rispose al telefono, Carl pensò di scendere dall'auto e scappare via, e invece decise di restare a guardare fuori dal finestrino. Vide l'uomo che chiedeva l'elemosina davanti al nostro edificio. Era sempre lí, seduto con le gambe distese e le caviglie incrociate vicino a una delle porte girevoli e quando stavamo per entrare alzava una tazza di Dunkin Donuts e la scuoteva. La vista dell'uomo, la sua sola vista - che cinque anni prima avrebbe potuto indurre Carl a svuotarsi le tasche delle monetine - oggi era uno strumento di tortura mnemonica che gli lasciava cadere sulle spalle con angoscia fulminante l'intero carico del ricordo degli innumerevoli giorni passati. La notte prima, per un paio d'ore, il peso dei ricordi s'era alleggerito. Ma ora, ancora prima di entrare nell'edificio - per Dio, ancora prima di poter scappare urlando dall'ennesimo pettegolezzo su Karen Woo o di vedere il sudore incollato alla fronte di Chris Yop - i ricordi erano ricomparsi, tutte le sue giornate di lavoro fuse in un unico blocco, con, in aggiunta, il peso schiacciante della giornata che lo aspettava.

Fa' qualcosa, avrebbe voluto urlare all'accattone. Stava per abbassare il finestrino e mettersi a urlare. Era indignato che l'uomo chiedesse l'elemosina limitandosi a starsene seduto lí, senza fare niente. Altri mendicanti si erano trovati una collocazione. Si erano inventati un marchio. «Veterano del Vietnam malato di AIDS». «Madre disoccupata di tre figli». «Cerco di tornare a Cleveland». Quel tipo non aveva niente: nessuna scritta su un cartello, nemmeno un cane o dei bongo. Chissà perché la cosa lo faceva infuriare. Sí, c'era stato un tempo in cui gli avrebbe dato tutto quello che aveva in tasca; ora avrebbe dato al tipo la metà dei suoi risparmi purché si scegliesse un altro edificio!

Benny aveva visto la macchina dei Garbedian ferma al lato della strada ed era arrivato di soppiatto da dietro per bussare al finestrino di Carl. Carl gli fece segno con la mano di andarsene, irritato. Deducendone che stavano litigando li lasciò in pace. Ma Benny era Benny, e facendo su e giú rimase appostato vicino all'entrata principale, dove non era facilmente visibile, vicino alla cassetta della posta. Da lí, poteva tenere d'occhio la macchina.

Marilynn era ancora al telefono. Stava parlando di un'importante questione medica con un linguaggio che Carl le invidiava. Decise di fare una telefonata anche lui. Prese il cellulare dalla tasca del pantaloni compose il numero rapido e se lo portò all'orecchio. La moglie disse al telefono: «Puoi aspettare un momento, Susan? Ho un'altra chiamata». Abbassò lo sguardo sul display per vedere se riconosceva il numero e poi si girò verso Carl che guardava fuori dal finestrino con il telefono all'orecchio.

«Che cosa stai facendo?» gli chiese.

Lui si girò. «Telefono» rispose.

«Perché mi stai chiamando, Carl?» chiese lei confusa, ma con voce ferma e prudente.

Negli ultimi tempi le mattinate dei Garbedian si erano fatte stizzose, a volte decisamente proditorie. «Aspetta un secondo» disse Carl a Marilynn alzando un dito in aria. «Lascio un messaggio in segreteria. Ciao, Marilynn, sono io, Carl. Sono le...» Alzò il braccio e guardò l'orologio, un gesto formale. «Sono quasi le otto e mezzo» disse. «Lo so che sei davvero occupata, tesoro, ma se potessi farmi un favore e chiamarmi, mi piacerebbe... fare due chiacchiere per sapere le ultime notizie. Il mio numero ce l'hai, ma in caso contrario, te lo do adesso. È...»

Marilynn si riportò il telefono all'orecchio e disse: «Susan, mi sa che ti devo richiamare dopo».

«Va bene, arrivederci, tesoro» disse Carl.

Entrambi chiusero la conversazione nello stesso momento. A un certo punto sul cellulare di Marilynn cominciò a lampeggiare la spia del nuovo messaggio ricevuto.

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Genevieve fece la sua accusa piú o meno nello stesso momento in cui Karen Woo si fermò al cubicolo di Jim Jackers e fece il suo annuncio scellerato.

«Sono appena rientrata da McDonald's» disse.

Come se fosse una specie di rivelazione. Jim alzò la testa da quello che stava facendo, qualsiasi cosa facesse quando sedeva alla sua scrivania. «Oh, mio Dio» disse Karen avvicinandosi, e si accomodò. «Sono appena rientrata» fece una pausa a effetto «da McDonald's».

«Che è successo da McDonald's?» chiese Jim.

A difesa di Jim bisogna dire che non parlare con Karen se si fermava da te era impossibile. La sua voce era una forza della natura, la sua conversazione una rapida tumultuosa piena di vortici pericolosi. Era come Hitler senza l'antisemitismo, Martin Luther King senza la compassione o una nobile causa. Allo stesso tempo Jim era un facile bersaglio. Smetteva di fare qualsiasi cosa stesse facendo per ascoltare chiunque.

«Va bene, non vado mai da McDonald's» disse Karen. «Probabilmente era dai tempi del college che non ci andavo. Stamattina mi sono svegliata con una voglia matta di un Filet O'Fish». «È strano» disse Jim. «Vero? È cosí insolito. Sono le sette di mattina e ho una voglia. Bene, però devo aspettare fino all'ora di pranzo. Riesco a resistere fino alle undici e mezzo. Ma sono solo le undici e mezzo! Non posso andare da McDonald's alle undici e mezzo e ordinare un Filet O'Fish. È volgare». «Si chiama davvero Filet O'Fish?» chiese Jim. «Perché, pensi che sia Fish O'Filet?» «Pensavo che fosse McFilet» disse Jim. «No, non è McFilet, Jim» disse Karen. «È stupido. È veramente stupido. Non è McFilet. Insomma, senti che è successo. Aspetto un'altra mezz'ora, soffro, ma aspetto. Ci vado. Hanno finito i cazzo di Filet O'Fish. Io sono al banco, dico: uh... uh... e poi fondamentalmente cado e muoio». «E cosa hai ordinato?» «No, Jim, non hai capito. Non ho ordinato niente. Odio McDonald's. Non ordino prodotti bovini da McDonald's, sono disgustosi. Io volevo il Filet O'Fish». «Allora, dove sei andata alla fine?». Karen roteò gli occhi e buttò la testa all'indietro in un gesto ostentato di monumentale esasperazione. «No, Jim... continui a non capire. Non è questo il punto. Vuoi sentire che è successo o no? Mi scappava la pipí» continuò Karen «cosi ho attraversato la sala e sono andata verso il retro. Ce l'hai presente quel McDonald's? A sinistra ci sono i bagni e a destra c'è la zona con i giochi. Hai capito quale? Quella con i pupazzi a forma di McFry, la giostra di cheeseburger e il resto?» «La Playland» disse Jim. «Playland, come vuoi» disse Karen. «Comunque hai capito di che cosa sto parlando, no?» Jim annui. «Bene, nella Playland c'è uno di quei box recintati con dentro le palline di plastica, hai presente?» «Certo» disse Jim. «La vasca delle palline di plastica». «La conosci?» chiese Karen. «La conosco» disse Jim. «Cosí vado in bagno, esco, e per caso guardando dalla porta... qualcosa attira la mia attenzione. Mi fermo, guardo. È Janine Gorjanc». «Cosa vuol dire "È Janine"?» disse Jim. «Dentro la vasca delle palline» disse Karen. «In che senso, dentro?» «È dentro la vasca delle palline» disse Karen. «È seduta dentro. Con le palline che le arrivano fin qui». «Che stai dicendo?» disse Jim. «Che stava seduta dentro la vasca delle palline di plastica?» «Dentro» disse Karen. «Proprio cosí, con le palline fin qui». «Che stava facendo?» «Stava seduta». «Va bene, ma perché?» «E lo chiedi a me?» disse Karen. «Come faccio a saperlo?» «Sei sicura che fosse lei?» «Era Janine Gorjanc» disse Karen. «Seduta dentro la vasca delle palline».

Il giorno dopo Karen convinse Jim a seguirla da McDonald's. Ordinarono il pranzo – finalmente Karen riuscí ad avere i suoi hamburger di pesce – e poi si sedettero in un séparé sul retro. Senza ancora aver dato un morso al panino, Karen disse: «Torno subito». Quando tornò disse: «Va' a guardare».

«È là dentro?»

«Va' a guardare» disse Karen.

Quando Jim arrivò al bagno guardò dalla porta della Playland ma non vide niente. Si era precipitato dentro troppo in fretta. Quando usci dal bagno si rese conto di avere tutto il tempo del mondo a disposizione. Doveva guardare attraverso la porta, attraverso quella rete nera allentata per vedere nello spazio buio dove di solito i bambini rimbalzano, si lanciano le palline addosso e si aggrappano alla rete per mantenersi in equilibrio mentre si inseguono sulla superficie formata da centinaia di palline in movimento. Ma a tutta quell'attività sfrenata si era sostituita la presenza immobile e lugubre di Janine, la stessa presenza pesante e muta che in ufficio si portava dietro ovunque. Jim la percepiva persino al di là della porta di vetro. Non una sola pallina si muoveva. Non un solo bambino felice si agitava rumoroso. Janine non era sommersa, come gliel'aveva descritta Karen il giorno prima. Le gambe, fino all'altezza del ginocchio, erano semplicemente scomparse sotto le palle. Sembrava che stesse riposando appoggiata al bordo della vasca, cosa in un certo senso vera, anche se la sua immobilità non rivelava il piacere o il rilassamento che quel termine poteva evocare. La testa bassa e le spalle curve si chinavano verso la vasca di palline multicolore con aria sconsolata e insistente. Jim immaginò che si fosse tolta le scarpe prima di entrare perché davanti alle scalette a misura di bambino che portavano alla vasca c'era un paio di scarpine nere da donna.

Jim ritornò al séparé arancione e si sedette.

«L'ho vista» disse.

«Non è la cosa piú strana che tu abbia mai visto?» domandò Karen.

«Non saprei» replicò lui. «Ancora non riesco a crederci».

Il giorno dopo Karen e Jim convinsero Benny Shassburger ad accompagnarli da McDonald's. Non gli dissero perché, solo che volevano fargli vedere una cosa. Ordinarono da mangiare. «Insomma, perché sono qui?» chiese Benny. «Perché Janine Gorjanc...» iniziò Jim, ma fu subito interrotto da Karen. «Non dirglielo!» gridò dandogli una pacca sulla mano. «Non avrà lo stesso impatto se lo sa prima di vederlo». «Che cosa devo vedere?» domandò Benny. «E va bene» disse lei. «Voglio che tu vada in bagno e sulla porta ti fermi a guardare verso la zona giochi. Hai capito, no? Non fissare, non aprire la porta. Sbircia e basta. Chiaro?» Quando Benny fu di ritorno disse: «Che roba è?» «È Janine Gorjanc» disse Karen. «Si, questo lo so» disse Benny. «Ma che cosa ci fa là dentro?» Jim e Karen scrollarono le spalle in silenzio. «Devo vedere un'altra volta» disse Benny alzandosi di nuovo.

Indugiò vicino al bagno. Janine era seduta, china sopra le palline colorate che le seppellivano le gambe. Aveva preso una pallina e se la passava lentamente da una mano all'altra. La lasciò cadere e ne prese un'altra. Poi ne raccolse diverse in una volta sola e se le riversò in grembo, e alcune rimasero intrappolate lí mentre lei si abbracciava le cosce.

Benny tornò al tavolo. «Sembra una bambina di cinque anni» disse.

«Non è la cosa piú strana che tu abbia mai visto?» chiese Karen.

Il terzo giorno si portarono dietro Marcia Dwyer. Seguirono la stessa procedura con Marcia e quando questa fu di ritorno dal bagno disse: «Già, è un po' strano». «Un po' strano?» disse Karen. «È qualcosa di piú di un po' strano, Marcia». «Quanto siete deficienti» disse Marcia, guardando intorno a sé quel mucchio di ritardati mentali che qualche stramba lotteria le aveva rifilato. «È in lutto». «In lutto?» ripeté Jim. «Si, in lutto» disse Marcia. «Soffre. Mai sentito dire?» «È questo che sta facendo?» chiese Jim. «È in lutto?» «Certo che è in lutto» disse Karen. «Chi è che elabora il lutto in questo modo?». Marcia replicò che la gente porta il lutto in modi diversi. «C'è chi non piange nemmeno» disse. «Altri non riescono a smettere. Dipende». «Si, ma tu forse non hai capito, Marcia» disse Karen. «Può darsi che stia soffrendo, ma sta in una vasca di palline nel mezzo di un McDonald's, okay? Questo è decisamente strano, cazzo».

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Pagina 243

1.

Sul non capire – Benny vede Carl – Innaffiando il vicolo – Il taglio di capelli di Marcia – Un'offesa involontaria – Il nuovo progetto – Una richiesta per Genevieve – La mensa – Andare a picco – La differenza tra Joe e gli altri – «Questa gente» – Un elitario – La Water Tower – Perché non era cinismo – I tubi per innaffiare – Joe prende una decisione


Al mattino entrammo e, appesi i soprabiti dietro la porta, ci mettemmo alla scrivania a controllare se nelle mail della sera prima c'era qualcosa di interessante. Prendemmo il primo caffè della giornata, cancellammo i messaggi sulla segreteria e guardammo i siti nella lista dei bookmark. Poteva essere un giorno come un altro, e avremmo dovuto sentirci grati, forse addirittura estatici, di non trovare nella posta interna la notizia della bancarotta o la notifica di sfratto. Avevamo ottimi motivi per credere che la direzione contabile sapesse ancora della nostra esistenza, che l'assicurazione sanitaria fosse stata pagata e continuasse a occuparsi della nostra salute e che a nessuno fosse stato affidato il mandato di sequestrarci la sedia.

Perché dunque su corridoi e uffici aleggiava il disagio? Che cosa rendeva questa mattina diversa dalle altre?

Non avevamo trovato gli annunci. Ci avevano chiesto - possibile? - di creare qualcosa che facesse ridere le malate di cancro, un compito strano e preoccupante. Che senso aveva? Questo non era importante. Il nostro lavoro non prevedeva che ci interrogassimo sul senso delle cose. Se lo avesse previsto nessuna delle nostre offerte ai clienti pubblicate in brochure o sui siti sarebbe scampata al nostro scetticismo. Il senso di un altro cartellone pubblicitario davanti all'aeroporto? Il senso di altra pubblicità cartacea sul tavolo della cucina? Auguri a chi volesse trovare argomentazioni a favore di simili eccessi. Se proprio avessimo dovuto parlare di senso saremmo precipitati in una crisi esistenziale che ben presto ci avrebbe portati a mettere in discussione l'intero sistema America. Dovevamo al contrario sforzarci di dimenticare il senso, chinare la testa e concentrarci sull'incarico fondamentale e isolato che ci era stato affidato. Che cosa c'era di divertente nel cancro al seno?

Il fatto di non trovare una risposta cominciava a innervosirci. Spaventato dalla pagina bianca e in cerca di indicazioni da parte del popolino, Jim Jackers non era il solo a soffrire d'ansia all'idea di produrre una stronzata. Poteva fare la differenza tra mantenere il posto o venire licenziati. Nessuno poteva dire che fosse quello il criterio che si seguiva, però nessuno poteva nemmeno dire il contrario.

In gioco non c'era soltanto il posto, giusto? Quando faticavamo a trovare la soluzione era il nostro buon nome a essere messo in discussione. La nostra autostima si fondava per lo piú sulla convinzione di essere bravi esperti di marketing, di capire cosa faceva girare il mondo - di essere noi, in fondo, a farlo girare. Lo capivamo meglio di chiunque, lo capivamo talmente bene da poterlo spiegare al prossimo. Con l'ausilio di una grande varietà di mezzi mediatici eravamo in grado di mostrare ai nostri connazionali ansie, desideri, lacune e frustrazioni, e il modo di alleviarle. Nel giro di sei secondi riuscivamo a informarli di un bisogno che non sospettavano nemmeno di avere. Potevamo fargli desiderare qualsiasi cosa ci avessero pagato per fargli desiderare. Eravamo sicari dell'anima. Manovravamo i fili della popolazione della Terra e per Dio tutti ballavano al nostro comando.

Che cosa dovevamo fare, allora, davanti a un album da disegno bianco o a una schermata vuota? Come spiegare il nostro fallimento se non come un atto di accusa? Eravamo imbroglioni arretrati, inadeguati e incapaci di leggere la realtà. Eravamo superati, banali. Non capivamo l'aspetto fondamentale del desiderio umano. Ci mancava l'indispensabile capacità di comprendere come motivare le orde di sonnambuli. Non sapevamo neppure far leva su quello strumento semplice, incastonato nella corteccia cerebrale collettiva della nazione, che genera la paura - una canzone volgare composta con una nota sola. Le nostre anime erano scombinate e bisognose di guida come quelle di tutti gli altri. Non eravamo forse pecore anche noi? Noi e loro eravamo la stessa cosa. Uguali, mentre per tanto tempo ci eravamo ritenuti leggermente al di sopra. Un lavoro che non veniva bene bastava a gettarci in quel parossismo di dubbi e indizi di mediocrità, e per questa ragione - non per la promessa di gossip o il bisogno di caffeina - quel mattino ci ritrovammo sospinti fuori dai nostri uffici e in cerca di compagnia.

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