Copertina
Autore Roberto Ferrucci
Titolo Cosa cambia
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, Romanzi e racconti , pag. 192, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-317-9247-9
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa italiana , paesi: Italia: 2000
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Pagina 9

Uno_Viaggi


La foto, riflessa sul vetro, ha come smarrito i contorni, i capelli scuri della ragazza sfumati via, confusi ai colori della stazione là fuori. Soltanto il rosso del sangue che le copre il volto è intatto, dal cremisi al porpora, a seconda dell'intensità di ciò che, là fuori, fa da sfondo alle sue ferite. Il libro lo avevo appoggiato sul sedile accanto al finestrino, aperto sulla pagina che stavo guardando prima di salire, seduto su una panchina del binario due. Mi sono chinato, l'ho chiuso, e ho incominciato il mio solito rito.

Ogni volta che salgo in treno non so mai cosa scegliere, se sedermi in direzione di marcia o in quella opposta. A differenza di molti, per me è uguale. Poi però, due volte su tre, scelgo l'opposta. Forse, anziché andare con gli occhi incontro al paesaggio, preferisco esserne colto all'improvviso. Aggredito a volte. Trattenerlo nello sguardo quanto posso, tirando il collo oppure sbattendo la fronte sul finestrino, e passare subito alla sequenza, alla sorpresa successiva. Appena salito, ho appoggiato il libro, aperto, sul sedile, ho piazzato il trolley – leggero, questa volta – al suo posto su in alto, lo zaino col computer temporaneamente fra i piedi, sfilato di dosso il cappotto. E qualcuno deve proprio averlo notato, il gesto di questo qui – me – in piedi in mezzo al corridoio, al momento di dover appendere il cappotto, il mio solito slittamento, quel gesto incerto, le braccia che accennano verso una direzione e poi, movimento impercettibile, vanno nell'altra. Dentro a quell'ingradualità lieve, notata da chissà chi, ho appeso il cappotto alla mia sinistra, con il treno già in moto verso quella direzione a cui io, da quel momento, prendendo posto – lo zaino fra i piedi, il libro con le foto di Magdalena in mano – ho dato le spalle. E ho guardato fuori. Subito.

Ma poco fa, arrivando a Genova, le gallerie lunghe, buie dietro al finestrino nero – e la fronte salva, stavolta, il cappotto appeso al gancio, quasi un cuscino – mi hanno fatto da specchio, non da panorama. Subito, avrei dovuto vedere allora il mio di viso, specchiato sul vetro, e non quello di Magdalena, invece, mentre racconta di nuovo tutto con precisione, ravviandosi di tanto in tanto i capelli rasta dietro le spalle, ricresciuti attorno alle cicatrici. Mi sono chiesto a lungo quali sarebbero state le immagini, quali i ricordi che mi avrebbero sorpreso arrivando qui, anni dopo. Avrei potuto fare una lista infinita, forse anche azzardare una successione, delle probabilità. Ma poi la mente va per conto suo. Sempre. Così ho guardato fuori dal finestrino, poco fa, nel tunnel, e non ho dovuto nemmeno tirare il collo perché Magdalena non stava dentro a nessun paesaggio là fuori, buio o meno che fosse. Magdalena, che anche adesso, dentro a questa stanza al nono piano di un hotel di Genova, sta nel mio, di paesaggio, che ha fatto proprie quelle immagini, ripetute, nel tempo, con la cadenza di una soap-opera replicata di continuo. Il dvd dell'intervista sempre dentro al lettore, la conosco a memoria, ormai, un'ossessione che avrebbe potuto essere puramente virtuale e che scatena invece, ogni volta, un realissimo album dei ricordi. Play e, puntuale, riparte il mio film di Genova, e poi la storia di quella notte. Raccontata da lei, immaginata da me.

Al buio di questa stanza d'albergo, adesso, e di quella lunga galleria, ore fa, Magdalena ha incominciato il suo racconto, come al solito. Sempre lo stesso. Arriva precisa, ma mai puntuale, da qualche anno a questa parte, Magdalena. Cadenze scandite da un immaginario, il mio, sprovvisto di timer. Arriva e mi racconta di come quella notte sia stata scaraventata a terra nonostante tenesse le mani alzate, di come quei dieci, dodici, quindici ma quanti, quanti erano gli uomini in divisa che quella notte la circondavano e che hanno preso a calci la sua schiena, il suo stomaco, le sue gambe? Loro, però, non li vedo mai, su questo strano schermo. Potrei immaginarli, non fosse inimmaginabile quel che hanno fatto. Risentirli, quello sì. Potrei approssimarli fin quasi al dettaglio, i suoni di quella notte. Perché li ho sentiti i suoni di quella notte, dentro a quella scuola. Distorti ma comprensibili. Per questo ignoro il play dell'audio e immagino ancora Magdalena, invece, che parla con la sua voce senza tono, come capita sempre, credo, quando ti tocca raccontare l'inverosimile.

Con quella voce, come se in un ipotetico equalizzatore vocale le fossero stati ridotti gli alti, o amplificati i bassi, Magdalena racconta di come sia stata sorpresa nel sonno, svegliata di soprassalto da un botto, una specie di esplosione però ovattata che arrivava dal piano di sotto e poi le urla dei poliziotti, urla di minaccia, mica di paura e li ha sentiti salire le scale, di corsa, calpestando chi stava ancora dormendo o spostandoli a calci dal loro percorso e li ha guardati venire verso di sé, anche se alcuni si fermavano via via, a occuparsi di altri che, come lei, erano stati svegliati di soprassalto e avevano alzato le mani, e non era un incubo, quello. No. Avanzavano irriconoscibili dentro ai loro caschi blu. Avanzavano, deviavano e restavano comunque tanti a venire verso di lei. Troppi. Verso di lei, verso chiunque, ragazzo o ragazza, uomo o donna, giovane o vecchio e nemmeno il tempo di dire nulla, di chiedere perché. Neanche un grido. Niente.

Si rannicchiò, Magdalena. Ritorni feto quando cerchi di proteggerti. Ritorni nel grembo, l'unico vero riparo della tua vita. Ai piedi di quegli uomini in divisa Magdalena tirò su le mani, ma non in segno di resa, questa volta, né per dire basta. Arrendersi perché, dire basta per che cosa, poi. Le tirò su d'istinto, le mani, a riparare la testa dai calci, dalle manganellate che venivano giù dritte, da ogni lato, impossibile anticipare nulla, prevedere niente, mani in alto e basta, e quelli il bersaglio lo beccavano sempre, ché anche le mani e le braccia sono di carne, di ossa, meno fragili del cranio, ma fanno un male cane pure lì le manganellate, i calci. Un calcio. Uno solo, fra tutti. Non più potente. No. Più preciso. Secco. Una punizione da quaranta metri. Inutile mettere le dita a far da barriera.

Scrock.

Questo – immaginatevelo – il rumore. La punta rinforzata dell'anfibio addosso alle costole di Magdalena. Fracassate. Una fitta atroce e le braccia giù, adesso. D'istinto, a proteggere il cuore da quel dolore. E gli altri su, allora, a mirare di nuovo alla testa, gli uomini in divisa. Manganellate e calci e insulti e risa. Ogni gamma possibile del dolore. Tutti i picchi possibili di sofferenza, quella notte, per Magdalena.

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Quattro Zone (rosse)


La stavo solo rimandando, quel mercoledì di luglio, anni fa, l'entrata nella zona rossa. Non so se per timore, per imbarazzo o – peggio – come per pregustarla, perché tutto quel proibito, in fondo, mi attraeva. Perciò, quando finalmente mi decisi, volli farla dall'ingresso principale, la mia entrata. Dal varco di via XX Settembre. Tornai indietro e davanti alle gabbie controllate dai poliziotti c'erano un centinaio di persone che, chi in punta di piedi, chi in equilibrio sopra dei paracarri, cercavano di guardare oltre la grata. Per un momento pensai di mettere il monitor della videocamera in bianco e nero. Poi non lo feci, ma sono sicuro che ne sarebbe venuta fuori più o meno la stessa immagine di una quarantina d'anni prima quando, una mattina, i berlinesi si sono trovati davanti a un muro e scrutavano di là, verso la Berlino opposta. Attoniti. Sarebbero forse stati diversi i volti. Meno rasseguati, questi. Qui sarebbe stata roba di giorni, non di decenni. Andai verso la soglia e i genovesi mi guardavano. Alcuni come si guarda un privilegiato, altri con lo sguardo di chi ti chiede di ritornare lì, più tardi, a raccontargli ciò che avrai visto. Il poliziotto che mi controllò pass e carta d'identità era giovane, la mia videocamera, tenuta sghemba e però accesa, gli riprese la basetta curata e lunga. Come andava di moda fra molti della sua età, quell'estate. Era il tipo di basetta che in quel preciso momento stava certamente trionfando in molte spiagge del litorale. Mi disse prego, io grazie, e forse anche gli sorrisi. Passai fra le inferriate e fui di là. Dentro la zona rossa.

Era strano questo effetto di sentirsi di là, oltre. Oltre qualcosa di inaudito. Qualcosa di cui tutto il mondo stava parlando perché era il suo stesso centro, quel posto. Il centro del mondo. Ma bastarono pochi passi, qualche metro per rendermi conto di come fosse tutto stonato, là dentro. La merda dei cavalli in mezzo alla strada, come non la vedevo da non so quanti anni, quando in città passava ancora qualche contadino col carretto tirato da un ronzino vecchio e stanco. Oppure quella vecchietta che stava attraversando il vialone deserto. Curva in avanti, la mano destra dietro la schiena a bilanciare il passo malfermo. Vista così, da dietro, sembrava il più incongruo dei pattinatori, in gara contro il tempo che passa e la forza di gravità. Gli ampi passi del pattinatore erano allora dei passetti malcerti che la stavano trascinando da un marciapiede all'altro. Portava uno di quei vestiti scuri che potevi vedere addosso, negli anni dei carretti tirati dai cavalli, solo alle vecchiette. Quei vestiti neri a fiori che al mercato credo vendessero a metro o a peso, non so. Che cosa c'entrava quel quadretto di decenni fa con il mondo globale del terzo millennio? Che si stava a fare dentro a questo enorme quadro vuoto, metafisico, che non era né quadro né film, bensì Genova, 18 luglio 2001? Raggiunta la soglia di casa, la vecchietta si appoggiò con un braccio alla maniglia del portone, con l'altra mano si fece scudo di un sole che non c'era e guardò verso dove anch'io spostai la videocamera. Con lo sguardo dritto, la gobba quasi sparita grazie al rassicurante sostegno dell'uscio di casa, guardava verso quel blindato azzurro che si affacciava da un angolo. Minaccioso, imponente, terrorizzante. Ruote enormi, i finestrini come delle piccole feritoie, quattro paralleli alle due fiancate e altri cinque sul cupolino davanti, uno frontale e gli altri quattro, due accanto a destra e gli altri a sinistra, a formare insieme un improbabile pentagono. L'azzurro, brillante, compatto, mi faceva pensare a una riverniciatura fresca, fatta apposta per l'occasione. A farmi più impressione, non so poi il perché, erano i due specchietti retrovisori posti quasi al culmine dell'anteriore, anche se non c'era differenza, in quel coso blindato, fra anteriore e posteriore. Si spingevano in fuori, quei due così, ai due angoli, larghi, due corna, a offrire la miglior visuale possibile al conducente. A doverne dare una definizione, a paragonarlo a qualcosa, lo si sarebbe potuto dire un ferro da stiro senza il manico o, forse, un ufo. L'ho sempre immaginato più o meno così, io, un ufo. Neanche la vecchia signora doveva averne mai visto uno da vicino. Doveva esserne rimasta sorpresa affacciandosi alla finestra ed era scesa giù in strada. Appoggiata all'uscio di casa, gli stava dando un'ultima occhiata, tutt'ora incredula. Anche così, fermo, vuoto, il blindato dava tutto il senso della dinamicità, della forza, della violenza con cui poteva essere – e sarebbe stato – usato. Lo abbiamo visto tutti, il sabato successivo, a piazzale Kennedy, questo blindato o un suo gemello, inquadrato dall'alto, spazzare via una macchina bianca e dirigersi dritto come una palla di bowling verso i manifestanti. Che non erano birilli, loro, però. No.

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Sarebbe stato freddo, invece, professionale, poco dopo, nella piazza di fronte a Brignole e fu lui a notarli, i container. La sera prima, quando ci passammo, dopo la cena al Porto, non c'erano. Ora stavano lì, cassoni metallici verde, arancione, rosso mattone. Si erano moltiplicati ed erano venuti avanti nella notte, spostando di qualche centinaio di metri il limite della zona rossa. Imponenti e inquietanti, quei container, evocatori di storie squallide, di immigrazione disperata e soffocata, di armi nascoste dietro a derrate di grano e ora messi lì, moderne barricate dell'epoca della globalizzazione. Davanti a quei cassoni le forze dell'ordine si stavano radunando. A decine, centinaia. Ed erano neanche le dieci. In giro per la città intanto dei tizi in tuta e cappuccio e passamontagna neri incominciavano a fare tutto quel che gli pareva. Li avrei visti, giorni dopo, nelle immagini girate da Elisa. Avrei visto che poche centinaia di metri più avanti, all'angolo fra via Tolemaide e corso Buenos Aires, dei ragazzi vestiti di nero mettevano in scena la loro marcetta militare. Gli stessi che lei aveva ripreso pochi minuti prima, mentre camminavano lungo non so quale via. Si stavano infilando i passamontagna neri. Il primo vestito di nero teneva in mano una grande bandiera nera arrotolata, potrei anche descriverlo, avrò messo in pausa non so quante volte l'attimo in cui sta al centro dell'inquadratura, ma lui, il passamontagna ancora tirato su, aveva una di quelle facce che ne vedi a decine, ogni giorno, in giro. (E mica ne avevo mai sentito parlare, io, dei black bloc. Ma del resto, così tanti, centinaia e centinaia, li si è visti solo a Genova. Né prima né dopo. Mi alzo dal letto, accendo il computer, faccio clic su un documento che l'avvocato mi ha mandato via bluetooth, BB.doc. Leggo: il black bloc non è un'organizzazione ma una modalità di comportamento, uno stile della politica. Gli aderenti al black bloc, indipendentemente dall'appartenenza politica sono identificabili con la modalità di comportamento che si è affermata con gli anni nel corso di battaglie condotte per il mondo). Anche il secondo vestito di nero aveva una bandiera uguale, tenuta però in modo diverso, più sghemba. Entrambi la impugnavano con tutt'e due le mani. Questo aveva il volto celato da un paio di occhiali da motociclista, quelli da sidecar, a maschera, potrei dire. (La violenza, c'è scritto su BB.doc, non è né una costante, né un sollazzo. La violenza è a volte, per noi, una pura necessità. Non è violenza cieca. L'uso della violenza contro le cose e il rifiuto della violenza contro le persone contraddistinguono la pratica politica dei black bloc in tutto il mondo. Non abbiamo nessuna intenzione di distruggere le città, ma di ripulirle, seppur provvisoriamente, dai tanti simboli che le deturpano). Il terzo vestito di nero aveva un piccolo tamburo che gli arrivava all'altezza della vita. Lo teneva orizzontale, come se stesse per suonarlo, anche se le mani erano una appoggiata sul lato nascosto dello strumento e l'altra che mimava invece un impercettibile su e giù, e quel gesto, rivisto giorni dopo, guardandolo con attenzione, mettendo in pausa l'immagine, facendola ripartire, rallentandola, tornando indietro, riguardandola ancora, mi è sembrato un gesto fatto — ahimè — con tenerezza. Del tutto incongruo nel suo contesto, sorprendente, eppure in sintonia con la messinscena complessiva. Il suo viso era del tutto invisibile. (Regola base del black bloc è non essere individuabile, ma essere perfettamente riconoscibile. Condizioni di perfetta visibilità e di assoluta non individuabilità). Il quarto vestito di nero teneva la bandiera come fosse un paio di sci quando li porti dalla macchina alla seggiovia. Era il più dinoccolato. Camminava quasi trascinandosi, come uno che si è appena svegliato e ha bisogno ancora di qualche caffè. (Noi siamo contro lo stato. Noi detestiamo gli stati, ma non possiamo essere per l'abolizione dello stato semplicemente perché non è possibile esserlo). Il quinto vestito di nero la stava già srotolando la sua bandiera. Talmente concentrato sul suo gesto che non si vedeva nulla della faccia piegata verso il basso, e della quale si sarebbe comunque visto ben poco, il suo passamontagna non lasciava libero nemmeno il naso, credo. (I black bloc non si riconoscono per nome e cognome, ma per le cose che fanno, per il momento in cui le fanno e per come le fanno). Il sesto vestito di nero aveva anche gli occhi coperti di nero e il settimo, l'ultimo, il più alto di tutti, il tamburo lo teneva sì appeso al collo, ma lo faceva scendere giù verticale, stavolta, con quella differenza — tamburo verticale, tamburo orizzontale — che non ho mai saputo valutare. (Il black bloc non ha leader. Il black bloc non può avere leader).

Ma per i ragazzi in divisa, quel giorno, era più importante il rito della vestizione, che fermare quegli altri, in nero, impedirgli le distruzioni. Un rito parallelo. Gli altri, in nero, a fare la loro marcetta idiota, tamburi e bandiere nere, macabro girotondo iniziatico prima di conquistare le loro zone, farne terra bruciata e sparire, impuniti. Questi, in blu, a esibire invece il rito della forza e dell'efficienza, da assolvere davanti alle telecamere delle tv di tutto il mondo, comprese quella di Giorgio e la mia. I cameraman e i fotografi si facevano largo come se ci fossero chissà quali divi da immortalare. E i ragazzi in divisa, quelli, a guardarli, alcuni almeno, si sentivano davvero dei divi. Come quello che dava gli ordini. Biondo, non alto ma largo, massiccio. Lo sguardo stretto e duro, la barba incolta. Alzava il braccio e ne spostava come col telecomando tre da una parte, due dall'altra, fate questo, fate quello, forza, dài, scandiva i tempi e passando poi davanti al mio microfono lo sentirò bestemmiare verso uno che aveva indossato il casco e che lui, porca puttana, mica gliel'aveva ancora dato l'ordine di metterlo, quel coso azzurro, in testa.

E mica lo sapevamo, noi, quel giorno, mentre Genova era ancora limpida di sole, mentre ciò che era illuminato era netto, limpido ai nostri occhi e agli obiettivi delle nostre videocamere e la foschia era solo l'umidità atroce di un luglio torrido, mica lo sapevamo che i ragazzi in divisa che stavamo riprendendo, che guardavamo da vicino grazie allo zoom delle videocamere, mica lo sapevamo che stavano indossando tute nuove, speciali, come i guanti e le maschere ad alta protezione, mai viste in precedenza. Gli scudi trasparenti e spessi, che sembravano dei tabelloni da pallacanestro senza il canestro, più concavi, appoggiati davanti alle gambe, la maschera appesa al collo come un'incongrua collana storta, oscena, il casco azzurro che pendeva dalla cintura, a destra, che a sinistra invece c'era il manganello, pronto a essere facilmente impugnato e pronto all'uso. Accanto, la fondina, nera, che, con quella forma lì, poteva contenere solo un'unica cosa al mondo. Dietro, sempre sulla cintura, il contenitore bianco delle manette, credo. Ciascuno di loro armeggiava su questo o quel versante delle proprie appendici. Ma ciò che non capivo era per quale motivo stessero tutti adoperandosi per coprire con cura ogni punto del corpo mentre io, noi, facevamo di tutto per scoprirceli, per trovare refrigerio. Non me lo chiesi lì per lì, in quel momento. Nemmeno ci feci caso, mettevano pesanti foulard intorno al collo, tiravano su i guanti fino all'avambraccio. Non un millimetro di pelle, alla fine, sarebbe stato esposto. Tutto sembrava far parte del rito da esibire e basta. Lo seppi poi, il perché. Del resto, non sapevo nemmeno che dentro alle borse che molti di loro, non tutti, avevano a tracolla ci fossero decine di candelotti mai usati prima e che avrebbero sparato contro chiunque in quantità industriale. Come mai nella storia in nessun altro paese d'Europa. Mai. Seimiladuecento proiettili di gas in due giorni, c'è scritto sul file gas.doc che l'avvocato mi ha passato via bluetooth, tutti concentrati in una zona ristretta della città, quella della Foce.

Candelotti di CS, orto-clorobenzilidenemalononitrile, sostanza sconosciuta a tutti. Anche ai poliziotti. Se lo sono respirato pure loro, quello schifo, alla fine, nonostante le maschere, le imbottiture, le divise iperaccessoriate. Una sostanza vietata in guerra ma non per questioni di ordine pubblico, anche se nessuno, in precedenza, e ovunque, si è mai sognato di usarlo, quello schifo lì. Nulla a che vedere, c'è scritto, con i lacrimogeni CN, l-cloroacetofenone. Armi chimiche, dunque, le CS, che hanno lasciato dentro le case dei genovesi uno strato di polvere bianca e chissà cosa, invece, dentro ai polmoni, dentro ai bronchi, negli occhi e sulla pelle di manifestanti, abitanti e forze dell'ordine.

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Così, quel giorno, il corteo arrivò all'angolo con corso Torino. In mezzo alla strada c'erano dei cassonetti che bruciavano. Mi avvicinai lento ai focolai, poco convinto, li ripresi in primi piani che non raccontavano nulla, Giorgio pochi passi dietro di me, a un certo punto mi disse attento! Sentii delle urla. Un coro di urla, a essere precisi. Mi girai, si girò e li vedemmo sbucare da un angolo. Gente in divisa, blu scura, nera, non sapevo, non vedevo bene, forse a causa di un'angoscia che montava dentro, inevitabile, naturale. Li vedevo urlare. Non so se li ho anche sentiti. Ricordo la scena, non il suono. Sbattevano i manganelli contro gli scudi in plexiglas. Un rumore sordo, raggelante. Sembravano l'equivalente delle marcette dei black bloc. Ma facevano più paura, questi. Feci durare l'inquadratura pochi secondi, con i brividi che intanto arrivavano fino alle viscere. Che vuoi che facciano?, mi chiesi indietreggiando. Non abbiamo fatto niente noi, mi dissi aumentando i passi all'indietro. Sono la nostra sicurezza loro, no, pensai spostandomi dal loro campo visivo. Così mi hanno insegnato fin da piccolo, mi ripetei senza sapere cosa fare. E, da piccolo, ero convinto che le forze dell'ordine fossero state inventate apposta per me, per difendermi, per proteggere solo me. E io li ho sempre rispettati per questo. Non mi è mai successo nulla, ma io sapevo che loro erano lì, pronti per me. Certo, crescendo, qualche dubbio mi è venuto. Sul finire degli anni settanta, per esempio. Ma erano soltanto dubbi o poco più. E poi, insomma, io non ho mai fatto niente in vita mia per avere a che fare con loro. Neanche adesso, adesso che li vedevo venire avanti in quel modo che metteva paura, con i loro scudi, i manganelli, le maschere antigas con i filtri nuovi, i fucili per i candelotti, gli occhi stralunati, neanche adesso che avanzavano urlando verso di noi, verso gente qualunque, verso giornalisti, parlamentari, scrittori, verso un prete e verso Giorgio che aveva appena vent'anni ed era anche lui lì per raccontare con la sua videocamera, per raccontare e manifestare. Perché ci attaccano?, mi chiedevo immobilizzato. Per quale motivo dovrei scappare?, urlavo a me stesso guardandomi intorno. Ma venivano avanti, loro. Avanzavano con una corsetta che sembrava quella di un film idiota che però metteva i brividi. Poi vidi alcuni spianare i lanciarazzi all'altezza dei miei occhi. Sentii qualcuno dietro di me gridare. Via, via! Sparano! Sparano! E allora scappai. Non li guardai più perché non erano più la mia – la nostra – sicurezza. Erano il nemico, adesso. E avevano deciso loro di esserlo, tendendo un vero e proprio agguato al corteo e io corsi via, come tutti, senza capire il perché. Correvo e sentivo degli spari sordi, vedevo delle scie bianche passarmi accanto. Pochi secondi e non respiravo più. A uno davanti a me cadde di tasca il telefonino. Continuavamo a correre, scappare, e io non so come ma riuscii a raccoglierlo e lui riuscì anche a dirmi grazie e io a rispondergli figurati. Grazie, figurati e da dietro quelli ci sparavano addosso, cazzo. La videocamera era rimasta accesa, inquadrava ombre e piedi e righe della mezzeria sull'asfalto, la coprii col tappo, forse pensando di proteggere almeno lei dai gas urticanti. Urlai Giorgio! Giorgio! un'infinità di volte, non so quante volte, i colpi si susseguivano a decine, i loro, di candelotti, i miei, di tosse, uno accanto a me vomitò, tolsi di nuovo il tappo alla videocamera, non ci vedevo e inquadravo verso di loro, era lei adesso il mio occhio, stavano di nuovo prendendo la mira. La abbassai subito. Come se stessi riponendo le armi. Come ad arrendermi. Ricominciai a correre tenendola in mano. Accesa. E si vedono allora dei sandali scuri corrermi accanto. Poi le mie scarpe marroni. Non si vede niente di Giorgio, invece. Non sapevo dove fosse finito. Ma stava di certo facendo ciò che facevamo tutti. Andavamo tutti in cerca dell'aria, come Angela quella notte. Ma qui una bomboletta spray non bastava. Mi accorsi che Giorgio era lì, stava correndo accanto a me. Gli urlai di non fregarsi gli occhi, per quanto si potesse urlare con la gola che bruciava, gli occhi in fiamme e la pelle — collo, mani, faccia — che sembrava diventata brace. Qualcuno urlò bastardi. Rallentammo per pochi secondi ma subito dovemmo riprendere a correre. Invidiavo Giorgio, che era giovane, un atleta. Aveva un passo leggero, nonostante tutto. Mi accorsi però di correre veloce anch'io. Passi pesanti ma veloci. Doveva essere il terrore. La paura, credo. Avevo un bisogno atroce di aria. La gola sembrava restringersi e otturare il respiro. Urlai qualcosa di incomprensibile, non si capisce bene riascoltandolo dalla videocamera, ma lo dissi al taccuino di Giorgio che spuntava dalla tasca posteriore dei suoi jeans. Lui fece solo in tempo a dire meglio se torniamo, ma io non sapevo dove tornare e si sentì un'esplosione vicino a noi. Poi una voce femminile, accento napoletano, mi disse di non avere paura e di correre. Corsi. Di nuovo. Più forte che potevo. La videocamera inquadrò un paio di pantaloni beige con delle scarpe da ginnastica grigie. Si vede un sacchetto nero che mi finisce tra i piedi. Una felpa azzurra con la faccia del Che in blu, legata in vita, che sventola assecondando la corsa e dentro la nuvola dei gas. Le Adidas di Giorgio, bianche. Si sentono respiri in affanno. Soprattutto il mio. Colpi di tosse. Tanti. Una bottiglia di vetro scalciata, di birra, credo. Delle urla. Rallentai cercando un modo per riprendere fiato. Non entrava niente. Non respiravo più. Cercai Giorgio con gli occhi. Ma era come se non ce li avessi più, io, gli occhi. Avrei voluto urlargli che non respiravo più. Ma non c'era, Giorgio. Non lo vedevo, anche se tenere aperti gli occhi, usarli per guardare era in quel momento meno difficile solo di respirare. Mi rimisi a correre. Inquadrai una maglietta gialla e dei jeans. Si vedono delle Superga in tela blu. Le strisce bianche di un passaggio pedonale. Si sente me che cerco l'aria. Arrivò un altro colpo. Corsi verso destra. Si vedono delle scarpe da ginnastica. Di quelle alte con dentro dei tubolari bianchi e poi la gamba che finisce su, dentro dei bermuda verde militare. Delle Adidas azzurre, senza calzini. Sandali blu, pantaloni beige. Gente che si chiamava. Franco, Franco! Pantaloni arancioni e bianchi di un infermiere. Sirene. Un attimo di pausa. Il mio respiro che stava per esplodere. E poi di nuovo colpi di fucile e corsa. Senz'aria. Mi ritrovai dentro a un tunnel, direzione Marassi. Ma mica lo sapevo, quella volta, anni fa, che era direzione Marassi, quella, e ancora oggi, mentre ripercorro quella fuga sulla mappa, mica lo so come ci arrivai, dentro a quel tunnel, lungo una cinquantina di metri e che sembrava non finire mai. Là dentro i suoni erano più compressi. Assumevano un tono più duro. Rimbombavano inquietanti. Intorno si sentiva gente che urlava. Corri! Corri! Scappa! Franηois! Franηois! Le scie dei lacrimogeni correvano più veloci di noi. Ci passavano accanto e ci superavano. Finivano non so dove ma a qualcuno prima o poi andranno addosso, pensavo terrorizzato. Colpiranno alla schiena, mi dicevo. Davanti a me si vede uno correre vestito in giacca beige e camicia. Avrei voluto chiedergli aiuto. Non mi riuscì. Quale aiuto avrebbe potuto darmi, poi? Aveva lo stesso mio problema. Lo stesso problema di tutti. Mi fermai per tossire e sputare. Si vede la mia telecamera abbassarsi verso l'asfalto, di nuovo, un asfalto illuminato di giallo dalle luci e offuscato dai gas. Mi si sente urlare adesso. Un urlo soffocato. Una specie di rantolo acuto. Lo ricordo bene, quell'urlo. Di rabbia. Una rabbia atroce. Sarei stato capace di tutto in quel momento. Avrei fatto qualunque cosa a quelli che mi stavano inseguendo e sparando. Qualunque cosa a quelli che mi stavano squarciando i polmoni, occludendo i bronchi, cartavetrando la gola, arroventando la pelle, infiammando gli occhi. Poi, finalmente, quando tutto sembrava non avere più fine, la videocamera inquadra il sole. Ero fuori.

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Immaginate ora un pomeriggio torrido. Caldo, incessante, fin dal mattino. E immaginate una piazza, una qualunque delle tante che trovate nelle città di questa nazione, una piazza non troppo grande, chiusa, e la chiesa, naturalmente. E immaginatevi, ripeto, un pomeriggio torrido. Quel venerdì pomeriggio. Immaginatevi un corteo – autorizzato – tenuto sotto assedio da almeno tre ore. E poi l'aria. Aria calda, afosa, irrespirabile per l'odore dei gas, incessante, anche quello, da ore. Chi può protegge il volto, lo copre. Impossibile resistere senza. E allora va bene tutto, sciarpe, maschere, occhiali da sole magari protetti ai lati da fazzoletti meglio se bagnati, berretti calcati fin dove possibile. E passamontagna, anche, come quello blu scuro, che indossa quel ragazzo in canottiera bianca, capitato anch'egli nella trappola della piazza circondata da tutti i lati. Immaginatevi dunque – non foste ancora riusciti a farlo – un'aria resa irrespirabile fin dal mattino ed è già quasi sera, ore e ore con i polmoni che bruciano, la pelle che brucia, gli occhi che bruciano, e poi il caldo, la rabbia, il terrore. Provateci, per favore, prima di guardare queste foto.


Terza sequenza

Foto 1.jpg. Dal finestrino posteriore della camionetta blu scura, il tetto bianco, viene lanciato fuori un estintore arancione. E sospeso a mezz'aria quasi al centro del finestrino, il vetro, sfondato, non esiste più. In alto nella foto, sulla sinistra, alcuni carabinieri in assetto antiguerriglia, dei robocop, maschere antigas e ogni altro tipo di protezione e di aggeggi da offesa, osservano. Sette manifestanti sono attorno alla camionetta, ma forse, per via della prospettiva schiacciata dal teleobiettivo, solo due sono davvero vicini. Uno con un caschetto di plastica giallo, una maglietta bianca e un salvagente arancione attorno al collo, che gli protegge il petto. Il secondo, quasi fuori quadro, sembra stia per sfondare il finestrino laterale di destra con una tavola di legno.

Foto 2.jpg. Quello con la tavola di legno sembra essere riuscito a romperlo, il vetro. Poco dietro di lui, un ragazzo biondo, giubbotto di jeans, è bloccato nel gesto di tirare un tubo. Più in primo piano, un ragazzo magro magro, col passamontagna blu e la canottiera bianca, ha la testa leggermente piegata in basso. Gli si vede solo il profilo degli occhi. Quello sinistro. Osserva l'estintore appena lanciato fuori dalla camionetta. Di fronte a lui, un ragazzo con la felpa grigia e il casco blu indica qualcosa davanti a sé. Forse la mano del ragazzo in divisa, che sporge leggermente dal finestrino e impugna una pistola. Più in basso, nitido, un altro ragazzo col casco blu volta le spalle al Defender (il nome della camionetta, scritto accanto alla grande ruota di scorta col cerchione bianco). Sembra stia uscendo di scena dopo aver visto la pistola spuntare netta, evidente, brillante, dal finestrino posteriore senza più vetro.

Foto 3.jpg. Il ragazzo con la felpa grigia corre fuori dalla fotografia, fuori dal tiro del ragazzo in divisa che ha ancora la pistola in pugno. Il ragazzo con la felpa grigia è bloccato in quel gesto, inequivocabile, che ti ritrae, quando scappi, con la gamba in avanti piegata, il corpo proteso, abbassato, le braccia aperte, l'una opposta all'altra, e la gamba dietro che tende tutti i muscoli possibili per slanciarti via, fuori quadro, fuori dal tiro della pistola che il ragazzo in divisa impugna col dito sul grilletto. Con quel movimento veloce, il ragazzo con la felpa grigia lascia libera e visibile la targa della camionetta: CC AE-217. Pochi centimetri più ín là, il ragazzo col passamontagna blu non si accorge di nulla. Θ concentrato sull'estintore. Θ piegato verso l'asfalto e sta per sollevarlo, anche se si vede solo la parte bassa, del suo corpo, i jeans, un pezzo di schiena, e poi, soltanto le mani che stanno per stringere ai lati longitudinali l'estintore. Chissà quanto pesa un estintore. Θ seminascosto da uno in bermuda verde scuro, quelli pieni di tasche, un giubbotto blu, un casco da scooter rosso bordeaux e in mano un pezzo di legno. Osserva come impotente. Fuori quadro, facile immaginarli, decine di carabinieri vestiti da robocop stanno invece osservando in modo diverso, come da spettatori quasi involontari.

Foto 4.jpg. Sì, dev'essere pesante, un estintore. I muscoli del ragazzo col passamontagna sono tesi mentre tiene all'altezza della bocca la bombola arancione. Il suo gesto è bloccato lì, in quell'istante che sembra dividersi a metà fra l'offesa e la difesa. Perché il ragazzo col passamontagna adesso non può non averla vista la mano del ragazzo in divisa sporgere leggermente dal finestrino. E anche la pistola ha visto. E la pistola, forse ha già sparato, perché il ragazzo che sulla destra ha rotto il finestrino laterale molla all'improvviso la tavola ed è girato ancora più a destra, lo sguardo verso la più prossima delle vie di fuga, e quello biondo, giubbotto di jeans, anche lui sta indietreggiando, ancora col tubo in mano ma appoggiato a terra. Sulla parete d'angolo, color sabbia, poco sopra la camionetta, appare per la prima volta la scritta, color argento, no more cops. Se il ragazzo col passamontagna blu fosse stato in grado di sollevare quell'estintore pochi centimetri più in su. Se gli altri uomini in divisa, fuori quadro, fossero passati dal verbo osservare al verbo che in tutti gli altri angoli di Genova hanno usato reprensibilmente, il verbo agire. Se qualcuno non avesse deciso di mandare dei Defender all'attacco, con dentro dei ragazzini di leva, se non avesse ordinato a camionette non blindate di fare scorribande in mezzo ai manifestanti resi esausti da ore e ore di assedio e di gas. Se.

Foto 5.jpg. Sì, il ragazzo in divisa ha sparato. Il ragazzo col passamontagna è stato colpito. Si vede l'estintore caduto ai suoi piedi. L'autista della camionetta deve aver ingranato la retromarcia, forse per fuggire, forse per passare sopra al corpo del ragazzo col passamontagna. Si vede la ruota posteriore sinistra che sta scaricando i quintali del Defender sul dorso del corpo forse ancora in vita che sta per essere girato su se stesso dalla pressione del pneumatico sulla schiena. Ora, dalla fessura del passamontagna, si vedono gli occhi. Sembrano chiusi. Il braccio destro piegato sul petto, il sinistro nascosto sotto al corpo. A sinistra dell'inquadratura, in basso, si vede un ragazzo con il casco rosso e la maglietta scura che sta scappando fuori della cornice inferiore della foto. Ha in mano un bastone. Un altro, con la maglietta rossa e un sasso in mano, sta correndo fuori dal quadro, verso destra.

Foto 6.jpg. Il corpo del ragazzo col passamontagna è sotto alla camionetta. Più o meno a metà fra la ruota anteriore sinistra e quella posteriore. Potrebbe sembrare un meccanico che sta riparando qualcosa, non fosse che i piedi, scarpe da ginnastica nere, in quella posizione lì, possono appartenere, adesso, solo a un cadavere. L'estintore è davanti alla ruota anteriore. In primo piano, le mani del ragazzo in divisa. La destra con la pistola ancora stretta. Calda, adesso. Due colpi in meno dentro al caricatore. La sinistra che sembra stringere qualcos'altro.

Foto 7.jpg. La ruota posteriore sinistra della camionetta è passata di nuovo sopra al corpo del ragazzo col passamontagna. La camionetta è lontana già un paio di metri. Se ne sta andando. Dall'angolo superiore della foto, gli altri robocop in divisa che hanno fatto da spettatori, se ne vedono nove, hanno ora il passo aperto in direzione del corpo del ragazzo col passamontagna, steso con le gambe allargate. Gli occhi girati verso la camionetta. Verso le mani ancora visibili del ragazzo in divisa, che lo ha ucciso.

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