Copertina
Autore Richard P. Feynman
Titolo Sei pezzi meno facili
SottotitoloRelatività einsteiniana, simmetria, spazio-tempo
EdizioneAdelphi, Milano, 2004, Piccola biblioteca 512 , pag. 224, cop.fle., dim. 105x178x16 mm , Isbn 978-88-459-1870-4
OriginaleSix Not-So-Easy Pieces [1963]
TraduttoreGianni Rigamonti
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe fisica
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Indice

Prefazione                                     11

l. Vettori                                     17

2. La simmetria nelle leggi fisiche            47

3. La teoria della relatività ristretta        83

4. Energia e quantità di moto relativistiche  115

5. Lo spazio-tempo                            143

6. Lo spazio curvo                            169


Indice analitico                              215
 

 

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Pagina 85

Il principio di relatività



Per oltre duecento anni si era creduto che le equazioni del moto enunciate da Newton fossero la descrizione corretta della natura, finché non si scoprì che quelle leggi contenevano un errore. Autore della scoperta fu, nel 1905, Einstein che però, insieme all'errore, trovò anche il modo di correggerlo. La seconda legge di Newton, che abbiamo espresso mediante l'equazione
F = d(mv) / dt,
era accompagnata dal tacito presupposto che m fosse costante; oggi sappiamo che non è così e che la massa di un corpo aumenta con la velocità. Nella formula corretta di Einstein m ha il valore
m = m(0) / sqrt( 1 - v^2 / c^2 ) (3.1)
dove la «massa a riposo» m(0) è la massa di un corpo immobile, e c è la velocità della luce, pari a circa 3 x 10^5 km/s (300000 chilometri al secondo). Per chi desidera impararne solo quel tanto che basta a risolvere i problemi applicativi, nella teoria della relatività non c'è altro: ci si limita a cambiare le leggi di Newton introducendo un fattore di correzione per la massa. Dalla formula stessa si vede facilmente che in condizioni ordinarie l'incremento di massa è piccolissimo. Prendiamo pure la velocità di un satellite, che gira intorno alla Terra a circa 8 km/s: in questo caso v/c = 8/300000, un valore per il quale la formula dà una correzione di 1 su due-tre miliardi, pressoché impossibile da osservare.

In realtà la validità della formula stessa è stata ampiamente confermata dall'osservazione di molti tipi di particelle, con velocità che arrivavano in pratica fino alla velocità della luce; ma è degno di nota che l'effetto, così piccolo in condizioni ordinarie, sia stato scoperto prima teoricamente che in un esperimento. Empiricamente, se la velocità è abbastanza alta questo effetto è molto vistoso, ma non è così che è stato scoperto. È interessante quindi esaminare in che modo una combinazione di esperimenti e ragionamenti di fisica abbia messo in luce una legge che (all'epoca in cui venne scoperta) comportava una modifica tanto delicata. Furono in molti a contribuire alla scoperta, e il risultato finale fu la teoria di Einstein.

Propriamente, le teorie einsteiniane sulla relatività sono due. Qui ci occuperemo di quella ristretta, che risale al 1905. Nel 1915 Einstein pubblicò un'ulteriore teoria, che chiamò «teoria generale della relatività», che estendeva la relatività ristretta alla legge di gravitazione. Ma qui non la discuteremo. Il principio di relatività fu enunciato per la prima volta da Newton come corollario alle sue leggi del moto: «I moti relativi dei corpi inclusi in un dato spazio sono identici sia che quello spazio giaccia in quiete, sia che il medesimo si muova in linea retta senza moto circolare». Ciò significa, ad esempio, che se un'astronave viaggia a velocità uniforme, per chi è a bordo dell'astronave tutti gli esperimenti e tutti i fenomeni che hanno luogo al suo interno avranno esattamente la stessa forma che avrebbero se l'astronave fosse ferma (a patto, naturalmente, di non guardare fuori). Il significato del principio di relatività è questo - un'idea abbastanza semplice. Resta da vedere se è vero che in tutti gli esperimenti condotti in un sistema in moto le leggi avranno la stessa forma che in un sistema in quiete.

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Pagina 117

La relatività e i filosofi



In questo capitolo continueremo a discutere il principio di relatività di Einstein e Poincaré, nonché la sua influenza sulle idee della fisica e in altri campi del pensiero.

Poincaré enunciò il principio così: «Secondo il principio di relatività, le leggi dei fenomeni fisici devono essere le stesse per un osservatore fisso e per uno che abbia un moto di traslazione uniforme rispetto al primo, cosicché non abbiamo, né potremmo avere, alcun mezzo per distinguere se anche noi siamo trasportati da un simile moto». Quando discese nel mondo dei comuni mortali questa idea mise in grande agitazione i filosofi e soprattutto quelli «da salotto», quelli che dicono: «Ma è molto semplice: la teoria di Einstein dice che tutto è relativo!». E davvero c'è un numero incredibile di filosofi, non solo individui salottieri (ma per non mettere in imbarazzo la categoria continuerò a riferirmi ai «filosofi da salotto»), i quali dicono: «Che tutto è relativo è conseguenza della teoria di Einstein, e influisce profondamente sulle nostre idee». E magari aggiungono: «È stato dimostrato, in fisica, che i fenomeni dipendono dal nostro sistema di riferimento». Questi discorsi li abbiamo uditi innumerevoli volte, ma non è ben chiaro che cosa significhino; è probabile che per sistema di riferimento si intendessero in origine i sistemi di coordinate che usiamo nell'analisi della teoria della relatività. A quanto pare, dunque, l'idea che «le cose dipendono dal nostro sistema di riferimento» avrebbe avuto effetti molto profondi sul pensiero moderno. Ci si può chiedere perché, visto che, dopotutto, si tratta di un concetto talmente semplice che per scoprirlo non c'era davvero bisogno di imbarcarsi nelle astruserie della teoria della relatività della fisica. Che ciò che uno vede dipenda dal suo sistema di riferimento è sicuramente noto a chiunque vada a farsi una passeggiata, perché, incrociando un altro pedone, prima lo vede di fronte e poi di spalle; e gran parte di quella filosofia che dice di richiamarsi alla teoria della relatività non dice cose più profonde di: «Una persona ha un aspetto diverso a seconda che venga vista di fronte o di spalle». Anche la vecchia storia dell'elefante che diversi ciechi descrivono in modi diversi potrebbe essere un buon esempio di teoria della relatività dal punto di vista del filosofo.

Sicuramente nella teoria della relatività vi sono cose più profonde della semplice osservazione che «una persona ha un aspetto diverso a seconda che sia vista davanti o di dietro ». È ovvio che nella relatività c'è ben altro, perché con essa possiamo fare previsioni ben definite - sarebbe alquanto singolare, se riuscissimo a predire il comportamento della natura basandoci unicamente su un'osservazione così semplice.

Ma c'è anche un'altra scuola di filosofi per i quali la relatività - in quanto dichiara l'impossibilità di determinare la nostra velocità assoluta senza osservare qualcosa di esterno - è motivo di profondo disagio. «Certo che uno non può misurare la propria velocità senza guardare all'esterno! Parlare di velocità di una cosa senza riferimenti esterni non ha alcun senso; e i fisici sono piuttosto stupidi ad aver pensato diversamente, ma adesso gli viene il dubbio che è proprio così. Se noi filosofi ci fossimo resi conto di quali erano i problemi dei fisici avremmo potuto stabilire immediatamente, con il puro ragionamento, che è impossibile sapere a quale velocità ci si muove senza osservare l'esterno, e avremmo dato un contributo straordinario alla fisica». Questi filosofi non desistono mai, e dalla loro posizione marginale pretendono di spiegarci questo o quello, ma non arrivano mai a capire davvero gli aspetti più sottili e profondi dei problemi.

La nostra incapacità di rivelare il moto assoluto è il risultato di esperimenti, non il frutto di una semplice riflessione, come possiamo facilmente dimostrare. In primo luogo Newton credeva che uno che si muovesse in linea retta a velocità uniforme non poteva sapere a che velocità stava andando. In effetti, Newton fu il primo a enunciare il principio di relatività, e tra le sue proposizioni vi è la frase citata all'inizio del precedente capitolo. Come mai, allora, i filosofi non fecero questo gran chiasso sul fatto che «tutto è relativo»? Il motivo è che finché non venne elaborata la teoria di Maxwell non c'erano leggi fisiche che facessero pensare che si potesse misurare la propria velocità senza guardar fuori; ben presto si scoprì sperimentalmente che non era possibile.

Ora, è proprio necessario - assolutamente, definitivamente, filosoficamente - che non si sia in grado di dire a che velocità ci muoviamo senza guardare fuori? Una delle conseguenze della relatività fu la nascita di una filosofia che diceva: «Si può definire solo quello che si può misurare! Dato che evidentemente non possiamo misurare una velocità senza vedere relativamente a che cosa la misuriamo, è chiaro che il concetto di velocità assoluta è privo di significato. È strano che i fisici non se ne siano accorti». Ma è proprio questo il problema: chiedersi se si possa o no definire la velocità assoluta è lo stesso che chiedersi se si possa o no scoprire sperimentalmente, senza guardar fuori, se ci stiamo movendo. Detto in altro modo: se qualcosa sia o non sia misurabile è questione che non va decisa a priori col solo ragionamento. Solo l'esperimento può dirimerla. La velocità della luce è di 300000 km/s, ma pochissimi filosofi accetterebbero in tutta tranquillità, come cosa per sé evidente, che se la luce percorre 300000 km/s dentro una macchina che viaggia a 160000 km/s, la luce va a 300000 km/s anche rispetto a un osservatore al suolo. Lo troverebbero sconcertante; sono proprio quelli che dicono «E ovvio!» a non trovare per nulla ovvio un fatto specifico, quando glielo sottoponiamo.

Per finire, c'è anche una filosofia secondo la quale non potremmo scoprire nessun moto se non guardando fuori, ma in fisica questo è semplicemente falso. È vero che non possiamo percepire un moto rettilineo uniforme, ma se quest'aula ruotasse ce ne accorgeremmo di sicuro perché tutti verrebbero scagliati contro le pareti, anzi ci sarebbero effetti «centrifughi» di tutti i generi. E che la Terra ruota intorno al proprio asse possiamo stabilirlo anche senza osservare le stelle, per esempio col cosiddetto pendolo di Foucault. Dunque non è vero che «tutto è relativo»: solo una velocità uniforme non può essere scoperta senza osservare l'esterno; nel caso di una rotazione uniforme intorno a un asse fisso, invece, la cosa è possibile. Quando lo raccontate a un filosofo, rimane sconvolto per il fatto di non riuscire realmente a capire come stanno le cose perché a lui sembra impossibile che si possa rivelare la rotazione attorno a un asse senza guardare fuori. Comunque, se è abbastanza in gamba, dopo un po' potrebbe tornare e dire: «Ho capito. In realtà la rotazione assoluta non esiste, noi stiamo ruotando solo rispetto alle stelle. A causare la forza centrifuga, quindi, deve essere qualche influsso stellare».

E per quanto ne sappiamo, le cose stanno così. Oggi come oggi non abbiamo modo di stabilire se vi sarebbe una forza centrifuga se non vi fossero intorno stelle e nebulose. Non siamo stati in grado di fare l'esperimento di togliere di mezzo tutte le nebulose prima di misurare la nostra rotazione - dunque non lo sappiamo, punto e basta. E dobbiamo riconoscere che forse quel filosofo ha ragione. Così lui torna alla carica gongolante: «È assolutamente necessario che l'universo, in ultima analisi, sia come dico io; parlare di rotazione assoluta non significa niente, la rotazione è soltanto relativa alle nebulose». A quel punto noi gli ribattiamo: «Senti, amico, non è forse ovvio che un moto rettilineo uniforme relativamente alle nebulose non dovrebbe avere alcun effetto dentro un'automobile?». Ora che il moto non è più assoluto, ma è relativo alle nebulose, questa diventa una domanda misteriosa, alla quale solo l'esperimento può rispondere.

Quali sono, allora, le ricadute filosofiche della teoria della relatività? Se ci limitiamo a considerare le nuove idee e congetture che ne sono derivate per i fisici, possiamo descriverne alcune come segue. La prima scoperta è stata, in sostanza, che persino idee accettate per lungo tempo e verificate con gran cura potrebbero non essere corrette. Ovviamente, scoprire dopo centinaia di anni che le idee di Newton erano errate fu sconvolgente. Beninteso, non che fossero sbagliati gli esperimenti, ma l'intervallo di velocità era talmente piccolo che gli effetti relativistici non potevano risultare evidenti. Oggi, comunque, abbiamo una visione molto più umile delle nostre leggi fisiche - possono essere sbagliate, sempre!

In secondo luogo, se abbiamo un insieme di idee «strane» - come quella che, movendosi, il tempo scorre più lentamente, e così via - non ha importanza che ci piacciano o meno. L'unica cosa che dobbiamo chiederci è se siano o no compatibili con i dati sperimentali. In altre parole, alle idee «strane» si chiede solo di concordare con gli esperimenti, e il solo motivo per cui discutiamo il comportamento di orologi e altre cose di questo tipo è che vogliamo dimostrare che la nozione di dilatazione del tempo, per quanto strana, è coerente col nostro modo di misurare il tempo.

E per finire vi è un terzo suggerimento, che è un po' più tecnico ma si è rivelato straordinariamente utile nello studio di altre leggi fisiche: considerare la simmetria delle leggi o, più specificamente, ricercare in quali modi possano venir trasformate senza mutare di forma. Discutendo la teoria dei vettori abbiamo osservato che le leggi fondamentali del moto non cambiano quando ruotiamo il sistema di coordinate, e adesso stiamo imparando che non cambiano nemmeno quando cambiamo le variabili spaziali e quella temporale in un modo particolare, dato dalla trasformazione di Lorentz. Dunque l'idea di studiare le operazioni o le configurazioni che lasciano invariate le leggi fondamentali si è dimostrata molto utile.

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Pagina 171

Spazi curvi in due dimensioni



Secondo Newton, ogni cosa attrae ogni altra con forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza, e un oggetto risponde a una forza con un'accelerazione a essa proporzionale. Le leggi di Newton della gravitazione universale e della dinamica sono queste, e spiegano, come ben sapete, i movimenti di palle, pianeti, satelliti, galassie, e via dicendo.

Einstein interpretava la legge di gravitazione in un altro modo: secondo lui, vicino a una massa molto grande lo spazio e il tempo, che vanno fusi nello spazio-tempo, si incurvano, e le cose si muovono come si muovono perché tendono ad andare lungo «linee rette» in questo spazio-tempo curvo. È un'idea molto complessa, ed è quella che vogliamo spiegare in questo capitolo.

Il nostro argomento è diviso in tre parti: la prima riguarda gli effetti della gravità, la seconda riprende i concetti di spazio-tempo che abbiamo già studiato e la terza ha a che fare con la nozione di spazio-tempo curvo. All'inizio per semplificare le cose non ci occuperemo né della gravità né del tempo: parleremo, dunque, solo di spazio curvo. Le altre questioni le affronteremo più avanti, ma per adesso ci concentreremo soltanto su questa idea di spazio curvo - che cosa s'intende per spazio curvo, e più specificamente che cosa significa in questa applicazione della teoria di Einstein. Anche così, in tre dimensioni l'argomento resterebbe alquanto difficile; semplificheremo quindi ulteriormente il problema e parleremo del significato dello «spazio curvo» in due dimensioni.

Per capire il concetto di spazio curvo in due dimensioni dobbiamo realmente adottare la visuale (molto limitata) di qualcuno che abiti un simile spazio. Proviamo a immaginare un insetto privo di occhi che viva su un piano (fig. 25); egli può spostarsi solo su questo piano e non saprà mai se vi sia qualsiasi possibilità di scoprire un «mondo esterno» (non ha la vostra immaginazione). Naturalmente ragioniamo per analogia; noi viviamo in un mondo tridimensionale, non riusciamo assolutamente a immaginare come potremmo uscirne lungo una qualche nuova direzione: dobbiamo affrontare la questione ragionando, appunto, per analogia, come se fossimo insetti che vivono su un piano e vi fosse uno spazio in un'altra direzione. Ecco perché da principio ragioniamo sull'insetto, ricordando che deve vivere sulla sua superficie e non può uscirne.

Consideriamo un altro esempio di insetto bidimensionale che vive su una sfera. Supporremo che possa camminare liberamente sulla superficie sferica, come nella figura 26, ma non guardare «in su» o «in giù», o «fuori».

E adesso consideriamo un terzo tipo di creatura: è anche lui un insetto come gli altri due, e anche lui, come il primo, vive su un piano, ma questa volta il piano ha una particolarità - la sua temperatura varia da punto a punto. Inoltre l'insetto e tutti i regoli graduati di cui dispone sono fatti di un materiale che quando è riscaldato si dilata: ogni volta che lui posa un regolo da qualche parte per misurare qualcosa, immediatamente il righello si dilata fino alla lunghezza che corrisponde alla temperatura in quel punto. Ovunque metta un oggetto - se stesso, un righello, un triangolo, qualunque cosa -, subito quello si allunga o accorcia per via della dilatazione termica. Tutto è più lungo nei posti caldi, più corto nei posti freddi, e tutto ha lo stesso coefficiente di dilatazione. Diremo che la patria del nostro terzo insetto è una «piastra calda», anche se dovremo immaginare una piastra calda di tipo particolare, più tiepida al centro e che si arroventa man mano che ci avviciniamo all'orlo (fig. 27).

Adesso supponiamo che i nostri insetti comincino a studiare geometria.

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La teoria di Einstein della gravitazione

Alle basse velocità la forma einsteiniana delle equazioni del moto, per la quale il tempo proprio deve essere massimale in uno spazio-tempo curvo, dà gli stessi risultati delle leggi di Newton. Mentre Gordon Cooper girava intorno alla Terra, il suo orologio andava più lento di come sarebbe andato in qualsiasi altro percorso immaginabile per il suo satellite.

I concetti della geometria dello spazio-tempo ci permettono dunque di enunciare la legge di gravitazione in una forma veramente notevole: una particella impiega sempre il tempo proprio più lungo - e nello spazio-tempo il «massimo tempo proprio» è una quantità analoga alla «minima distanza». La legge del moto in un campo gravitazionale è questa, e il grande vantaggio di una simile formulazione è che così la legge non dipende né da un sistema di coordinate né da un qualsiasi altro modo di definire la situazione sperimentale.

E adesso ricapitoliamo quello che abbiamo fatto finora. Abbiamo dato due leggi per la gravità che descrivono:

l) come la geometria dello spazio-tempo cambia quando è presente della materia - in altri termini, la curvatura espressa in funzione dell'eccesso del raggio è proporzionale alla massa interna a una sfera (eq. 6.3);

2) come si muovono gli oggetti quando vi sono solo forze gravitazionali - in altri termini, gli oggetti si muovono in modo che il loro tempo proprio tra le due condizioni terminali sia massimo.

Queste due leggi corrispondono ad analoghe coppie di leggi che avevamo considerato in precedenza. Inizialmente avevamo descritto il moto in un campo gravitazionale per mezzo delle leggi di Newton: la legge di gravitazione, cioè la legge dell'inverso del quadrato, e le leggi del moto. Ora mettiamo al loro posto la (1) e la (2). Ma la nostra nuova coppia di leggi corrisponde anche a qualcosa che avevamo visto in elettrodinamica, dove abbiamo le equazioni di Maxwell che descrivono i campi prodotti dalle cariche e ci spiegano come la presenza di materia carica elettricamente cambia le caratteristiche dello «spazio», cioè fanno quello che fa la legge (1) per la gravità. Inoltre avevamo anche una legge che determina il moto di una particella in un campo dato: d(m v )/dt = q( E + v x B ). Di questo, sempre per la gravità, s'incarica la legge (2). Le leggi (1) e (2) ci danno già una formulazione precisa della teoria della gravitazione di Einstein, anche se di solito la troviamo espressa in una forma matematica più complicata. C'è ancora una cosa da aggiungere, tuttavia: come la scala temporale varia da luogo a luogo in un campo gravitazionale, così varia la scala delle lunghezze; se ci spostiamo i nostri righelli si allungano o accorciano. Quando spazio e tempo sono uniti così intimamente, è impossibile che una cosa che accade al primo non si rifletta in un modo o nell'altro sul secondo. Lo si vede anche dal più semplice degli esempi: supponiamo che un'astronauta stia oltrepassando la Terra. Allora quello che dal suo punto di vista è tempo dal nostro è anche spazio, e dunque pure quest'ultimo deve cambiare. È tutto lo spazio-tempo a essere distorto dalla presenza di materia, e questa è una cosa più complicata di una semplice variazione della scala temporale. Tuttavia la regola che abbiamo fornito con l'equazione (6.3) basta a determinare tutte le leggi gravitazionali in modo completo, a patto di tener presente che questa regola sulla curvatura dello spazio non vale solo dal punto di vista di un singolo osservatore, ma è vera per tutti. Chi si vede oltrepassare da una certa massa vede un contenuto di massa diverso dalla massa a riposo a causa dell'energia cinetica del moto relativo, a cui corrisponde una massa addizionale. E la teoria deve essere strutturata in modo che chiunque, quale che sia il suo moto, quando considera una sfera scopra che il suo eccesso del raggio è G/3c^2 volte la massa totale (o meglio G/3c^4 volte il contenuto energetico totale) in essa presente. Questo principio - il principio (1) - è vero in qualsiasi sistema in movimento, e tale validità generale è una delle grandi leggi della gravitazione, la cosiddetta equazione di Einstein del campo; l'altra grande legge è il principio (2), quello per cui gli oggetti devono muoversi in modo da massimizzare il tempo proprio, che prende il nome di equazione di Einstein del moto.

Scrivere queste due leggi in perfetta forma algebrica, confrontarle con quelle di Newton o metterle in relazione con l'elettrodinamica sono cose matematicamente difficili; ma è così che si presentano, oggi, le nostre leggi gravitazionali più complete.

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