|
|
| << | < | > | >> |Indice7 Premessa STILE NOVECENTO Parte prima 15 Homo fictus: da Renzo a Palomar 37 D'Annunzio verso il Novecento 53 Che cosa ha da dirci De Sanctis Parte seconda 75 Cineserie di Montale 79 Le piace Pirandello? 85 Saba in un giardino ameno 91 Apologia gaddiana 97 Getto, Manzoni e l'aria di casa 105 Mario l'epicureo 125 Su questa terra piena di misteri: Il bell'Antonio 129 Sicilitudine di Sciascia 133 Per Italo Calvino 143 L'italianissimo Arbasino 147 Cassola, Gisella e lo zio (d'America) 153 L'historiette di Soldati 159 Il salto dell'acciuga 163 Le stagioni migliori di Conte 175 Francesco e la via difficile 181 Amici per l'eternità 187 Luzi cercatore d'infinito 193 Microcosmi di Magris 199 Enzo il salvaguardante 203 Franco Cordelli lontano dal romanzo 209 Giacomino di Antonio Debenedetti 213 Garboli e il genio stupido 221 Elogio di Serena Vitale Parte terza 227 Il canone salvato dai ragazzini 233 Che fine ha fatto la neoavanguardia? 239 Italiani |
| << | < | > | >> |Pagina 7Possiamo finalmente allontanare e archiviare il Novecento letterario italiano? Possiamo finalmente concludere, e passare ad altro? In questo libro, ho cercato di descrivere lo "stile Novecento", fin dalle sue lontane e salde fondazioni settecentesche, come uno stile che ci riguarda ancora da vicino e cui niente di nuovo, formalmente, è conseguito fino ad oggi. Quale sarebbe, dopotutto, il nuovo di oggi rispetto a questo ieri vecchio ma influente, e in perfetta salute? Potrebbe essere addirittura un salto definitivo, la "fine della letteratura", il tutto che finisce in niente - una bella capriola: il "niente", a certe condizioni, è una novità - ma non è il nostro caso. Nonostante le numerose dichiarazioni di morte (il più scrupoloso all'anagrafe è George Steiner), la letteratura non muore mai, e non morirà neppure in Italia (si tratta di "fiducia", dopotutto: «Muoiono i poeti / ma non muore la poesia / perché la poesia / è infinita / come la vita», scriveva l'ottantasettenne e modernissimo Aldo Palazzeschi). Potrebbe essere, allora, una letteratura che non si oppone più all'informazione, ma la integra in una specie di informazione al quadrato: la differenza tra la sintassi del mero intrattenitore televisivo e quella dello scrittore appartato nella sua cameretta è sempre più sottile, anzi è sparita. Ed è un fatto: nei libri di molti scrittori contemporanei è evaporata la scrittura stessa, cioè quel margine di resistenza del linguaggio all'informazione che fa, o faceva, il miracolo. Quando, nel Settecento, l'Algarotti, il Rezzonico e tanti altri viaggiatori e cronisti hanno inventato il giornalismo, hanno inventato, lì per lì, anche una nuova forma di letteratura: il candore palladiano di un palazzo sulla Neva o le rupi incombenti su un lago scozzese, erano nuovi in quanto irraggiungibili dalla maggior parte dei lettori e nuovi anche nel quadro di una ricerca formale. Ma oggi? Dopo due secoli, i regni si sono divisi, il giornalismo scritto ha raggiunto, da sé, in quanto genere, un'evidenza esemplare e una qualche influenza nel perseguimento del bien public; la letteratura, nel bene e nel male, è andata per conto suo. (Ma in effetti, oggi: tra un "concreto" giornalista politico, al culmine di un genere obiettivamente progredito e progressivo, e un "astratto" neo-romanziere, chi avrebbe dubbi su chi scegliere?). Il nuovo, dunque, in letteratura, non c'è ancora o, per dir meglio, è dietro di noi, in quel Novecento che non ha affatto esaurito i suoi argomenti, né i suoi impulsi. Le sue stesse domande capitali non dovrebbero essere meno capitali per noi, qui e ora: uno spicchio di idealismo, De Sanctis ma anche Lukàcs, il suo «personaggio cercatore» rivisto da Debenedetti; il "blocco" della narrazione, che gli antenati Diderot e Manzoni ironicamente annunciano a Gadda e a Calvino; il recupero della narrazione nella saggistica, invenzione anglosassone dagli sviluppi del tutto italiani anche altissimi e unici nella prosa di Mario Praz; la funzione dell'antiromanzo, appresa da Joyce sui primi romanzi di D'Annunzio; la poesia lirica, "corta" e autocosciente; la poesia oscura, a un passo dal suo "quid definitivo" (Montale); la poesia che pensa e la poesia che non pensa; la lingua letteraria italiana vera aggredita da una lingua letteraria italiana finta, reversibile, non distinguibile dall'informazione... Ogni scrittore convocato in questo libro, chi più chi meno, porta con sé il "peso" del Novecento - un di più di teoreticità, forse, e una assoluta mancanza di spontaneità - ma anche il suo stile, la sua intelligente aria di famiglia: Arbasino, con il suo "agio naturale" in tutte le strettoie più iperculturali della modernità; Francesco Biamonti, incespicante nella narrazione; Soldati, invulnerabile nella sua "distrazione", nel suo essere in sé e rapito fuori di sé; Sciascia elucubrante di fronte all'ostacolo, al mito della Sicilia; Cesare Garboli, con la sua voce stridula e la sua stessa vivente letterarietà... Solo nel Novecento, l'esitazione, il sì e il no, i non so di fronte alla catastrofe delle certezze sono, in sé, stile, e la fine o l'idea della fine della letteratura è, come nell'apologo del Prometeo kafkiano, in sé, letteratura. Solo nel Novecento le idee, che Valéry esortava a "faire chanter", cantano a squarciagola: voltare pagina, tornare ingenui, perdere il filo di questa "storia" e di questo "difficile" novecenteschi, sarebbe come uscire da un'aria musicale, senz'altra prospettiva che il rumore circostante. G.F., Los Angeles, Royce Hall, UCLA, febbraio 2007 | << | < | > | >> |Pagina 75Nel 1921, Mario Novaro, ricco industriale dell'olio di Oneglia, poeta, filosofo, direttore e distributore della rivista «Riviera ligure» (con acclusa lattina d'olio), traduceva per la prima volta in italiano, presso Carabba, Acque d'autunno di Chuang-tze. Che cosa muoveva quest'uomo europeo e ligure fin nel midollo ad avvicinarsi a un pensiero tanto lontano e impensabile? Curiosità o, addirittura, fatte le proporzioni, un sospetto di familiarità? Se, da una parte, la Cina è vicina agli italiani per tradizione (Marco Polo è il primo sinologo, ma poi vengono Matteo Ricci e tutti i padri Gesuiti, il Bartoli...), dall'altra è lontana e inimmaginabile filosoficamente. È vicina per l'insieme dei dati e dei ritrovati trasmessi dai viaggiatori, ma è lontana per il modo di guardare al mondo e alla natura, e innanzitutto di intendere il linguaggio poetico. Un principio come quello di Chuang-tze, ed estensivamente del Tao, di dimenticare le parole («Oh trovassi un uomo che dimentica le parole!») è inapplicabile e inesplicabile in un mondo come il nostro, volto fin dalle origini - da Dante - a oggi, a trovare le parole e in particolare la parola giusta, appropriata, unica, per descrivere quello d'erba o quel sentimento o quel ragionamento. L'altro principio, che sia la natura stessa, «la viva veste di Dio», secondo il nostro Goethe occidental-orientale, a parlare eternamente nella poesia, e non la poesia a dire la natura, è un principio quasi non formulabile per noi: «Chiare, fresche, dolci acque...», il più celebre verso di Petrarca, dice che la natura è organizzata intorno alla creatura e che il poeta stesso vede nella natura un ornamento di Laura, in particolare, e una "consolazione" dell'infelicità degli uomini in generale. Un terzo principio, molto lontano dai fondamenti stessi della poesia italiana, è racchiuso nel motto di Chuang-tze: «La conoscenza che si ferma ai confini dell'inconoscibile è la più alta», ma il non fermarsi della conoscenza nella poesia è una costante della stessa poesia lirica italiana, fino al "rovello" montaliano in limine agli Ossi di seppia. E cosi via: agire e non agire, perseguire una meta e non perseguire una meta, fondare una metafisica e non fondare una metafisica. Tutte queste differenze entrano nel saggio introduttivo di Mario Novaro innanzitutto come somiglianze, per esempio tra il Tao e il Logos di Eraclito e l'Uno di Parmenide, fino alle idee platoniche e a Goethe lettore di Spinoza, che scrive: «chi ama rettamcnte Dio non deve richiedere che Dio lo riami», dove risuonerebbe un'eco del disprezzo di sé cristiano nell'orientale e canonica (per il Tao) indifferenza a sé. Che pensare, dunque? siamo lontani? siamo vicini? Quel pescatore di una lirica di Po Chu-i, che getta l'amo nel ruscello e non pesca niente, potrebbe figurare in una lirica di Cino da Pistola? Presentando nel 1962 le Liriche cinesi tradotte da Giulia Valensin (dalla versione di Arthur Waley), e guardando innanzitutto alle date (1753 a.C.-1278 d.C.), Montale dice di no: «Ci troviamo di fronte a idee poetiche che sopravvivono alla loro forma originaria; a poesie, cioè, che sono e non sono poesia nel senso più nostro. Qualcos'altro, dunque: più vasto e insieme più labile». Per Montale, sinologo improvvisato ma acuto, l'acronica poesia cinese è una «entità sopraindividuale». Diversamente da Novaro, che studia le differenze e le rassomiglianze sul piano filosofico, Montale punta dritto alla "forma" poetica: la lirica cinese è un «fiore di giada», un monile che, da una generazione all'altra, i poeti - imperatori, ministri, generali, funzionari - si sono trasmessi non mutandone mai la forma. La lirica italiana, al contrario, è fondata sull'attrito di contenuto e forma, in «un determinato momento» storico: «non la poesia ci interessa, ma quella poesia, di quel determinato momento, in quella forma e in quello spazio, in rapporto a una precisa individualità poetica». L' aegritudo petrarchesca, ad esempio, è del tutto diversa dalla malinconia di Leopardi, la prima legata com'è alla colpa - il «fascio antico» delle colpe - la seconda, a una protesta e a un rifiuto: l'una viene dall'altra, l'una nasce dall'altra, ma sono pur sempre, originariamente, due e inconfondibili. L'ultima lirica che Montale - sarà un caso? - legge e commenta nella sua introduzione, ha per titolo La malinconia, il male (poetico) più universale. Ma l'incantevole poeta cinese del secolo XIII, invece di parlare della malinconia sua, e di entrare in se stesso (il suo se stesso irripetibile), come usano da sempre i nostri malinconici, esce fuori di sé nella natura di tutti, nell'autunno di tutti, dei suoi simili e maggiori, fino all'inizio dei tempi. Per Montale, che conosce il taoismo attraverso Mario Novaro, questo uscire da sé nella natura è un fine del tutto estraneo alla poesia occidentale. Dalle fondazioni stesse della poesia italiana - l'agostinismo petrarchesco, innanzitutto - a Montale appunto, la natura non ha valore in sé, ma solo in quanto veste del mondo, manto d'erbe o di stelle, di più di bellezza. La natura perfetta e serena della poesia di Petrarca, susseguente peraltro a un ferreo principio di negazione, non è altro che il luogo in cui l'io si ripiega malinconicamente nella riflessione; d'altra parte, l'io stesso, ponendo natura di fronte a sé, e inventando paesaggio, di volta in volta le conferisce valore. A maggior ragione, nella linea soggettivistica e storica della poesia italiana, la natura stessa, che originariamente è pura apparenza, alla fine non è addirittura, o meglio è "inganno consueto" che vela il nulla, opera alchemica di un dio ingannatore: «Forse un mattino andando in un'aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle...». Lo stesso Montale, dunque, che si trova davanti la poesia cinese, non può che riscontrare che in essa «l'uomo e l'arte tendevano alla natura, erano natura; mentre da noi, e da molti secoli, natura ed arte tendono all'uomo, si fanno uomo». Nella poesia occidentale, dunque, il tempo e la natura si umanizzano - da un diverso punto di vista, si potrebbe dire: si corrompono -, nella poesia cinese rimangono tali e quali, non umanizzati. In conclusione, dice Montale, ognuno resti al suo must: noi al nostro uomo e alla nostra entelechia, i cinesi alla loro perfetta natura. D'altra parte, è pur vero che ad ogni latitudine e in ogni tempo, nell'occidente e nell'oriente, la poesia sta, è sempre la stessa (Diario del '71); parla della bellezza del mondo e della bellezza delle donne, di una donna cui, supplice, lo stesso uomo dal principio dei tempi ricanta la stessa canzone: ne varietur, con la sola variante nostrana, un'increspatura fin da principio canonica, della riflessione. Che cos'è questo ciclo nuvoloso, questa luna intatta che appaga o non appaga la mia brama di sapere? Chi è questa donna "terrena" che desta in me la vita dello spirito? Come si conciliano la mia elevazione spirituale e il mio desiderio? Tutte queste e altre domande mutano lo stare della poesia in un diventare. E un tale diventare è precisamente ciò che non accade nella poesia cinese. Dunque Montale stesso pone un'alternativa, ma l'idea che questi due termini, stare e diventare, siano costitutivi della nostra stessa poesia e della sua in particolare, è un'idea già presente negli Ossi di seppia. Forse proprio lì, negli Ossi, la potenza indomabile di una natura che non si umanizza si contrappone alla debolezza di un io dolorosamente umano, storico, carico dei mali della sua e di ogni epoca. Questo io, che statutariamente vede e interpreta la natura, è qui talvolta irrilevante rispetto alla natura stessa. Il vento di Corno inglese, il mare di Mediterraneo prevalgono su di lui; in Gloria del disteso mezzogiorno, all'ora meridiana, con tutti i suoi "démons" e il suo assoluto naturale, fa riscontro l'incerto profilo del poeta che attende la «buona pioggia», la felicità, l'«ora più bella» al di là del muretto. In Tramontana, le «radici» d'una vita singola e «sottile», l'insieme dei particolari, la casa, l'aria del paese, sono messi in questione dall'impeto e dai «tonfi disfrenati» del vento, che ha una «volontà di ferro», dallo «schianto» e dal «subbuglio degli elementi». Sprovvisto di soluzioni dialettiche, il poeta attende, si rifugia, si mette da parte nel suo stesso destino di attesa, rinuncia a decifrare e interpretare il mondo; dall'altra parte, tutt'intorno, la natura semplicemente è. Questa divisione della scena in un "io" sottile, mezzo cancellato, e una natura assolutamente forte, estranea ai suoi «circoli d'ansia», mette in primo piano, è evidente, la natura. Acquattato nel suo nascondiglio, un io afasico, impoverito, infinitesimale, nonché interpretarla, non cede neppure più il suo linguaggio alla natura: per la prima volta, può assistere a una poesia che si fa da sé. Ciò che Montale dichiarerà non pertinente (per noi) e inattuabile (da noi) nell'introduzione alle Liriche cinesi, è stato dunque attuato negli Ossi, anche se dobbiamo ammettere che una tale realizzazione (di una abbagliante "metanatura" in versi) ha pagato il prezzo, paradossale, di una irrimediabile tragedia dell'individuo. | << | < | > | >> |Pagina 135[...] Anche Italo Calvino, come il vecchio Luigin, amava organizzare alla perfezione il proprio spazio vitale. Quanta razionalità, quante città di Dio ci sono nei suoi libri! Oggi la sua ombra, il suo perspicace profilo di scoiattolo, si confonde, per me, con quello del vecchio solitario arrampicato sull'ulivo. Che cosa vedeva Calvino dal suo albero? Innanzitutto una grande città, una crescente New York in ogni parte del mondo, fin dove arrivava lo sguardo. Calvino era indubbiamente attratto da questo proliferare della ragione e dell'ordine di ogni dove; aveva un puerile entusiasmo per l'umana velleità di organizzare lo spazio in strade, crocicchi, parcheggi sotterranei, viadotti, vicoli; il Chrysler o l'Empire State lo esaltavano come se fossero stati segni di un'altra città, perfetta e forse, in qualche luogo, già costruita: «Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo - dice Marco Polo al Gran Kan, nelle Città invisibili - [...] tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero». Guardare dall'albero significa prevedere questa armoniosa città del futuro della ragione. Ma anche riconoscere l'imperfezione, le infinite dissonanze della città attuale, e dell'attuale ragione: «l'ultimo approdo non può essere che la città infernale — risponde il Kan — ed è là in fondo, che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente». A differenza di Luigin, che aveva ordine e soddisfazione dalla sua terra, ed era in pace con la propria ragione, Calvino, guardando alla città distesa sotto il suo sguardo, provava insieme ammirazione e disagio. L'edificio della ragione ha una certa tendenza alla frantumazione, e al soffocamento dei suoi abitanti. Forse, come sappiamo dal Castello dei destini incrociati, a un certo punto rimarrà la città sola, senza uomini, e «i macchinari i motori le turbine» continueranno a «ronzare e a vibrare, ogni ruota a ingranare i suoi denti in altre ruote, i vagoni a correre sui binari e i segnali sui fili». Oppure, se l'uomo dovesse sopravvivere in questa città-incubo, in questa città estesa, in questa città perfetta, si troverebbe senza parola: «Come faccio a raccontare adesso che ho perduto la parola, le parole, forse pure la memoria, come faccio a ricordare cosa c'era lì fuori, e una volta ricordato come faccio a trovare le parole per dirlo; e le parole come faccio a pronunciarle, stiamo tutti cercando di far capire qualcosa agli altri a gesti, a smorfie, tutti come scimmie». A questa rovina Calvino cercava di opporsi guardando più in là, oltre le ultime ruspe e i detriti della periferia, oltre l'invisibile gabbia della ragion cittadina, cercando foreste, montagne, cieli stellati. Luigin guardava con equanime approvazione alla sua terra ben coltivata e al mare fitto di enigmi, era felicemente sospeso tra ragione e meraviglia. Per Calvino, ogni sguardo era un'impresa e un assillo morale; dove cercava gli alberi della sua giovinezza, vedeva qualcos'altro, una specie di deserto, o l'eterna città dell'uomo: «Il cielo è vuoto - leggiamo nel Barone rampante - e a noi vecchi d'Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto [...] e che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure. [...] Ombrosa non c'è più. Guardando il ciclo sgombro, mi domando se è davvero esistita». Perché la verde natura non c'era più? Era giusto che non ci fosse più? A un certo punto, in questo antagonismo di ragione e natura, la ragione veniva ad essere l'inferno, la natura il paradiso; e Ombrosa, cioè la Liguria - di cui è larga traccia nei Racconti e nel Sentiero -, una specie di paradiso perduto. Ma Calvino non si limitava a registrarne la sparizione: Ombrosa doveva pur essere in qualche luogo, forse oltre i confini della mente, o dissimulata in qualche piega dell'inferno stesso; se l'onnipotente ragione aveva occupato e devastato gli inermi regni della natura, la natura doveva pur avere cercato un qualche rifugio: l'assenza della natura offendeva il pensiero alla stregua di un errore logico. In un apologo delle Città invisibili, Calvino racconta di un pastore che conosceva tutti i nomi dei pascoli - il Prato tra le Rocce, il Pendio Verde, l'Erba in Ombra - ma neanche il nome di una città; le città erano per lui «luoghi senza foglie» che separavano un pascolo dall'altro, e dove le capre si spaventavano ai crocevia e sbandavano. Perdutosi in uno di questi non-luoghi, ne chiese il nome al sapiente Marco Polo, che glielo rivelò: Cecilia. Dopo molti anni, accadde a Marco Polo di perdersi in una città e di chiederne il nome al pastore; era la stessa, ma irriconoscibile Cecilia, che aveva invaso i pascoli ed era «dappertutto». Solo le capre distinguevano, nelle erbe dello spartitraffico, l'antico Prato della Salvia Bassa. Forse il nostro destino, la possibilità stessa che avremo di vedere ancora e nominare le cose, è affidata al naso di una capra, oppure alla nostra attenzione. Calvino non aveva dubbi. La prescrizione che è nella sua opera ci dice di continuare a guardare e a cercare, fino a che la polvere di tutte le città non ci renda ciechi, e poi di scuotere ancora la polvere dai nostri occhi: «L'inferno dei viventi - conclude Marco Polo - non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Secondo Lao Dan, quando si muove, il pensiero umano si sospende alla volta celeste; ma in questo viaggio fulmineo subito si perde e va in rovina. L'antico maestro cinese suggeriva allora di non guardare nulla e annientare il sapere; chiudere gli occhi, nel buio abisso della notte, e imparare a non voler apprendere. Calvino, uomo molto occidentale, in Palomar apre gli occhi, fissa lo sguardo sulla volta celeste, scruta le galassie, fa congetture su bagliori, pulviscoli, radure o brecce del firmamento. Come ogni grande solitario, Palomar - personaggio silenziosamente attivo - non finisce mai di interrogarsi sul senso o sull'assenza di senso dell'universo. Un po' come il pastore leopardiano, anche Palomar guarda i pianeti e le costellazioni chiedendo qualcosa - se tutto si risponda nel cosmo, o al contrario l'universo stesso cigoli nelle sue giunture non oliate; se ci sia qualche regione vuota nel cielo; e perché esista un oggetto così semplice e logicamente coerente come Saturno. A volte pensa che «l'universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi», poi viene preso da una certa inquietudine, perché lui stesso non sa dove si trova, né chi è. L'essere di Palomar è in questo guardare l'universo interrogandolo, e tutto per Palomar è universo, non solo la volta celeste ma anche il mondo terrestre e metropolitano (una pizzicheria, ad esempio, un negozio di formaggi, una terrazza), o quello eternamente mobile di un'onda, o quello enigmatico dello zoo (che cosa aspettano i coccodrilli, «o cosa hanno smesso di aspettare? In quale tempo sono immersi?»; è «una smisurata pazienza, la loro, o una disperazione senza fine?»). Ogni cosa è degna di essere interrogata e ogni cosa, forse, può rispondere. È così che Palomar, personaggio taciturno, assorto, un po' autobiografico - ma per nulla crepuscolare - va da una pagina all'altra del libro senza convinzioni assolute, o di proposito lasciando le sue convinzioni allo stato fluido, ma con mille domande nell'anima. È meglio parlare o tacere? È vero che il linguaggio è il punto di arrivo di tutto l'esistente? O è il silenzio? E di chi sono gli occhi che guardano? Sono davvero i nostri? La vita dell'universo è armoniosa, o contorta e senza pace come sulla terra? Si obietterà, a questo punto, che simili interrogazioni sono di un poeta — o di un filosofo — e non di un narratore; che solo il poeta, in virtù della propria superiorità, può parlare come se per la prima volta esprimesse o interpellasse l'essere: con la stessa ingenuità e la stessa esattezza. A un narratore non è concessa l'astrazione di una domanda assoluta, quel solo piccolo pensiero che può riempire tutta una vita, secondo Wittgenstein; anzi la vita stessa del racconto, di qualsiasi racconto, esige uno spazio largo e sicuro: scorre, corre avanti, torna indietro, va qui e là intrattenendo il lettore. Un narratore deve poter viaggiare su treni o bastimenti, fuggire in un bosco, andare al galoppo da un convento a un castello, dormire e sognare con i suoi personaggi. Un narratore deve potere tutto, vedere tutto, conoscere ogni evento, anche minimo, della propria creazione. Ma in Palomar, come abbiamo visto, Calvino (proprio come Palomar) non sa nulla; anche quando entra nel negozio di formaggi non sa cos'è il St-Maure né il cilindrico Chakicholi; se vede dei cubi cosparsi di cenere o palle avvolte nelle foglie, non sa che cosa siano. Questo non sapere, da cui nasce una specie di necessità quasi galileiana di vedere di più, è il mobile fondamento di questo libro di racconti: è infatti per una tale mancanza che il racconto viene scritto, è per «sapere» che si continua a errare nel vuoto dell'universo. Un tale modo di scrivere, cioè di cogliere dei lampi, stare immobili a occhi aperti nel proprio punto di osservazione, genera una tensione e un ardore assolutamente nuovi nella pagina; e nuovi, in un certo senso, anche in Caivino. | << | < | > | >> |Pagina 193Leggendo Microcosmi di Claudio Magris ho pensato insistentemente a un apologo di Lie-tsi: il potentissimo duca King-tsi una mattina andò a passeggiare sulla montagna e a un tratto si fermò e, guardando giù, disse fra le lacrime: «Come sei bello, paese mio, così luccicante bagnato di rugiada! Un giorno dovrò lasciarti e morire? Perché esiste la morte? Se la mia umile persona davvero lascerà questo luogo, dove mai andrà?». Come quell'antico signore cinese, Magris in questo libro guarda al suo mondo - da un caffè di Trieste alla laguna a un golfo istriano alle montagne del Friuli — con un sentimento di estasi inquieta e di profonda interrogazione. Dietro la sua apparente neutralità, la bellezza del mondo, momentanea e gloriosa, cela un enigma che Magris ancora una volta - dopo Petrarca, dopo Leopardi e Wordsworth e Montale - innanzitutto avverte in quanto enigma; non certo come velo di Maja o figura d'un altro mondo. La nietzscheana "impostura" del cristianesimo, che sporca e offende e cancella la bellezza reale in vista di un bene ideale, non pare annebbiargli la vista: come il duca del motto taoista, così Magris ama la bellezza imprudentemente e assolutamente. Vorrebbe rimanere seduto per sempre nel suo Caffè San Marco «sotto le maschere che ridacchiano e tra l'indifferenza della gente», oppure intento a guardare «i bambini che giocano impiastricciati nel fango», oppure del tutto solo, sulla riva del «mare per eccellenza, il mare di ogni persuasione e di ogni abbandono», o sulle rive più segrete della baia di Cigale che in croato «vuol dire aspettare, attendere i familiari partiti con la barca o con la nave». Non sarebbe inconcepibile e atroce non amare questa bellezza? E non è umano e gentilissimo, ma anche filosoficamente legittimo, il gesto di chi la piange, di fronte al nulla? Gli stessi personaggi incontrati nella minuta peregrinazione dell'autore, dalla superstiziosa Esperia a Francesco de Grisogono (una memorabile figura di scienziato solitario) al professor Karolin, non sfuggono al quadro: in procinto di svanire per sempre o cadere «nelle tenebre», in una sorta di Ade-abisso, sono «belli» in modo struggente, come gabbiani e caprioli, in sé e in quanto soggetti all'universale, bruta necessità. Scritto nel genere misto di narrazione e saggismo di cui Magris è maestro — e che potrebbe paragonarsi a una boccata d'ossigeno nell'odierna soffocazione di centinaia di romanzieri puri - Microcosmi è un libro complesso e sottile. Tiene conto di tutto: della bellezza del mondo e della sua immensa tradizione, della fine delle narrazioni, del pensiero della fine, del nostro tempo in cui nulla è semplice e nulla è originario, e del non-tempo in cui ancora oggi semplicemente un gabbiano prende la posizione «di un uccello della sua specie che galleggia sulle onde». Una proprietà singolare del Conde è l'indugio e quasi l'indolenza del suo inizio: un inizio lungo quanto lo stesso racconto e solo interrotto, bruscamente, dal congedo fulmineo. Come nel Dickens funebre del Nostro comune amico, anche qui, all'inizio, c'è un fiume, che non è il Tamigi ma il Douro in Portogallo, e anche qui c'è un pescatore di cadaveri, che non è l'avido Hexam Gaffer ma il «misericordioso» Conde. Ma ciò che in Dickens era appena il punto d'avvio, il motore della storia, qui è tutta la storia senza le virtù e i vizi molto ottocenteschi e dickensiani dell'accadere e del collidere e del coincidere e del distinguere. Nel Conde, a rigore, accade pochissimo: il Narratore, un barcaiolo, evoca in prima persona le gesta di questo pescatore-pensatore, gnomico raccattacadaveri e dispensatore d'aspra sapienza. Dal fiume alla foce al mare aperto, prima solo poi col barcaiolo divenuto aiutante, il Conde saggia discretamente i fondali sabbiosi o rocciosi e scruta il pelo dell'acqua: «se vuoi trovare quello che cerchi - dice - devi lasciarti andare, la corrente il vento o che so io trascinano tutto dalla stessa parte». La sua esistenza è statica, proprio come la sua nuda mente di taoista; i suoi andirivieni fra golfi e correnti sfiorano tragedie silenziose, «pesci mangiati da altri pesci in acque tranquille», le sue rare parole risuonano come i bassi d'una lecon de ténèbres: «la scopa raccoglie la spazzatura e lì alla fine ritrovi quello che volevi e ti ritrovi anche te»; «Nessuno di quelli che vengono a farti domande lo fanno per il tuo bene, e neanche per il loro, vengono solo perché la gente non sa stare in pace e ha sempre bisogno di inventarne una, di distrarsi con i dolori e la morte degli altri». Nel Conde, e analogamente nel romanzo Un altro mare (del '91), Magris, accanto alla rappresentazione ammirevolmente orchestrata di un personaggio - qui il pescatore, là il filosofo esule Enrico Mreule -, tenta la via difficile di rappresentare un'idea: qui l'idea della necessità, là, tolstoianamente, l'idea dell'assoluto, la ricerca della perfezione e il nulla. Pochissimi scrittori in Italia, sono oggi in grado di sommare una conoscenza perfetta, minuziosa, larga, jamesiana dell'arte del narrare, e una adeguata ricchezza documentaria, a una pretesa altrettanto ferma di pensiero nella narrazione. Magris, con le sue storie-limite di solitari fantasticanti ai bordi del mondo conosciuto, è, fra questi pochissimi, uno dei primi. | << | < | > | >> |Pagina 233Ben prima di ogni avanguardia o neoavanguardia o neoneoavanguardia, chiunque segga a tavolino e si accinga a scrivere un'opera letteraria, sa benissimo che la realtà che sta per rappresentare non sarà quella realtà, ma una diversa specie di realtà (sarebbe ingiusto retrocederla a copia, riproduzione, mimesi): una seconda e autentica realtà, fondata, tuttavia, sull'incongruenza rispetto alla prima. Tolstoj, il meno "sperimentale" degli scrittori russi, non ci nasconde che Chadzi-Muràt, il ribelle ceceno, è più simile a un fiore inestirpabile di bardana visto sul ciglio della strada che al vero e proprio Chadzi Muràt; né che il cavallo Cholstomièr pensante ed eloquente ha pochissimo a che vedere con un qualche realistico cavallo pezzato. Il romanzo, genere letterario trionfante nell'era borghese, ma prima del romanzo l'epica, non possono neppure essere pensati senza questa coscienza dell'incongruenza, cioè in qualche modo del falso rispetto al vero della realtà. D'altra parte, se il romanziere, costitutivamente "un po'" stupido (cioè "un po'" credente al dogma della verità della rappresentazione) diventasse assolutamente stupido, affetto dalla «stupidità prima» paventata da Adorno, la sua arte non sarebbe che uno degli infiniti casi di "pacchianeria" spacciata per purissimo Biedermeier o purissimo Regency nel mercato della comunicazione globale. Ma noi, se fino a ieri siamo stati così "incongruenti" e cosi intelligenti, oggi come siamo? E chi siamo? Perché una sola pagina del Tristram di Sterne o di Jacques le fataliste di Diderot è più "moderna" di tutta l'opera narrativa di un attuale romanziere "realista"? Perché Sterne con i suoi personaggi "sbilenchi" e "fuori squadra" realizza, per dir così, la dissonanza e mostra quanto più è possibile l'inadeguatezza della finzione e l'attuale romanziere "realista" non mostra nulla? Perché soltanto il non-sapere di Diderot-Jacques è la spinta propulsiva di un racconto che si ridefinisce formalmente come racconto-pensiero? Tutta questa attuale narrativa ingenua o astuta e questa sua purezza o penuria teorica, non sarebbero plausibili oggi, se i moderni ne sapessero più degli antichi, come argomentava il Fontenelle. Ma, al contrario, anche la mediazione dei sommi del Novecento italiano — Gadda, Calvino — sembra oggi del tutto disattesa o sorpassata (surclassata) in una "semplicità" che ha qualcosa, per di più, di una certa pieghevolezza morale e d'una triste coazione alla fallacia. Che il romanzo, occidentale e novecentesco, sia sempre più, sempre più acutamente, il terreno (impervio) della dissonanza e del dubbio, e meno il terreno (pianeggiante) della descrizione e del compimento, è un dato quasi ovvio ma oggi invero quasi del tutto rimosso. Mai come oggi abbiamo assistito a uno scivolamento e a un deperimento e a un'obiettiva identificazione del genere romanzo, e di tutta la sua originaria complessità, con la "facilità" della comunicazione di massa. La "narrazione" stessa si è perfettamente oggettivata in merce - una mercé peraltro quasi non vendibile e non commerciabile oggi, nell'era televisiva.
Una tale condizione di pena e deperimento può spiegarsi innanzitutto con
un'omissione: la letteratura di oggi non ha seguito le indicazioni della
letteratura di ieri. Nella stessa ironia, distruttiva, disvelatrice
dell'incongruenza, quel riprendersi ciò che si è appena detto di cui abbiamo
parlato, c'è un elemento costruttivo che, per dir così, ristabilisce le
proporzioni: da una parte conduce a una certa assoluzione della somiglianza (la
realtà è la meta della finzione, della forma-romanzo), dall'altra conduce alla
"riflessione", cioè al cammino inverso, al ritorno dal piano della finzione al
piano della realtà vera. Nella «evoluzione inevitabile» del romanzo di cui ha
parlato, tra gli altri, Michel Butor, un momento essenziale è la percezione
dell'incongruenza come possibilità di conoscenza: a partire dalla sua stessa
incongruenza, dalla sua stessa operante dissoluzione ironica, un romanzo ci
induce a considerare e conoscere di più la realtà, ed è un ponte gettato verso
un piccolissimo di più di compimento del mio stesso essere nel mondo. Non è
poco. Ma è esattamente ciò che non è avvenuto e non si è mantenuto nel romanzo
contemporaneo, che in qualche modo è retrocesso all'ingenuità, alla semplicità,
alla leggibilità, e dal "moderno" è precipitato inavvertitamente nel
"postmoderno".
|