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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 11 Siamo realisti, chiediamo l'impossibile! CAPITOLO PRIMO 23 La questione animale CAPITOLO SECONDO 39 La creazione dell'Uomo CAPITOLO TERZO 55 Le macchine dello specismo CAPITOLO QUARTO 67 Il movimento dell'antispecismo CAPITOLO QUINTO 83 Manovre di occultamento e manovre di resistenza CONCLUSIONI 101 La gioia del divenire animale Ringraziamenti 109 Una specie di bibliografia 111 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Il «troppo possibile» del dominio ha bloccato l'apertura verso l'impossibile. Jean-Luc Nancy L'interesse per gli animali non umani è una costante della storia umana, a partire dalle sue origini, dai primi segni che i nostri antenati, affascinati e impauriti da questi esseri dalle forme e dai comportamenti più vari, hanno tracciato sulle pareti delle caverne in cui abitavano, in cui si relazionavano gli uni con gli altri, in cui svolgevano i loro riti, in cui hanno cominciato a dar vita a quella che da qualche secolo a questa parte chiamiamo, con enfasi autocompiaciuta, umanità. A ben pensarci, quella che riteniamo essere la nostra storia, sia da un punto di vista culturale sia da un punto di vista materiale, non sarebbe neppure immaginabile senza gli animali. Noi siamo animali che si sono co-evoluti insieme a tutti gli altri. Non ci troveremmo qui dove siamo se da un lato non li avessimo svalutati al rango di cose, merci, beni di consumo e forza lavoro e dall'altro non li avessimo temuti come forme divine o amati come compagni di vita. Chi saremmo, almeno in Occidente, se non avessimo condiviso per millenni, nel bene e nel male, le nostre esistenze con quelle di cani e di gatti fino a farne talvolta attori irrinunciabili del nostro immaginario culturale e psicologico? Chi saremmo se non avessimo addomesticato le più differenti specie animali, dai molluschi ai mammiferi, per produrre carne, latte e uova? Se non avessimo utilizzato per millenni i non umani come mezzi di traino e di trasporto? Se non avessimo esposto, tra moltissimi altri, roditori e scimmie alle più atroci sofferenze per costruire l'impianto di buona parte delle nostre conoscenze scientifiche? O cavalli, muli e delfini per condurre, con sempre maggior virulenza, le nostre guerre? O leoni, tigri ed elefanti per glorificare le regge e le dimore dei potenti? Se non avessimo animalizzato – dagli schiavi ai migranti – innumerevoli schiere di umani? O, in termini più generali, chi saremmo e dove ci troveremmo se non avessimo speso tanto tempo e tante energie per costruire e rendere egemone un ordine sociale capace di fissare in posture governabili l'incessante movimento dei corpi desideranti che, in quanto animali, anche noi siamo? Nonostante tutto questo, gli animali sono stati rimossi dall'orizzonte umano, almeno a partire dal sorgere della cosiddetta civiltà, con un'ossessione e una meticolosità che sarebbero ridicole e grottesche se non avessero contribuito in maniera significativa alla realizzazione dell'orrore planetario in cui oggi siamo immersi fino al soffocamento. In epoca moderna, con l'avvento della rivoluzione industriale e di quella tecno-scientifica, la rimozione dei non umani e dell'animalità – inclusa quella che ci percorre da parte a parte – ha raggiunto livelli iperbolici, tanto che, per usare un termine caro a Lacan, si potrebbe parlare di forclusione, ossia della completa cancellazione degli animali dalla sfera della memoria, della considerazione e del riconoscimento sociale. I non umani sembrano essere totalmente evaporati nello scintillante mondo delle immagini e delle merci e la nostra animalità progressivamente svaporata nella sterilizzazione degli aspetti ritenuti più disturbanti e fastidiosi dei nostri corpi animali. L'entità di questa rimozione si renderebbe evidente se si prestasse almeno un po' di attenzione a ciò che spesso viene detto senza riflettere, quasi in maniera automatica. Non parliamo forse di guerre e di stragi come carneficine? E delle ricadute delle sempre più aggressive operazioni finanziarie in termini di macelleria sociale? Non discutiamo, in maniera più o meno accesa, di come bisognerebbe allevare i figli? In quanti, quando usano queste espressioni, pensano fino in fondo al significato di ciò che dà pregnanza a quanto stanno dicendo? La rimozione, però, raggiunge il suo acme quando i non umani vengono fatti scomparire nel momento stesso in cui vengono chiamati in causa: solitamente si denuncia lo sfruttamento degli oppressi affermando che non dovrebbero essere trattati come animali. Ci siamo perfino dimenticati di quello che il capitalismo, con la sua stessa etimologia – «capitalismo» deriva da caput (capo di bestiame) –, non smette mai di affermare: sono stati gli animali tra i primi ad assumere, di certo non volontariamente, la forma di beni mobili e di denaro, a vedere i loro corpi offerti sull'altare della divinità spettrale e onnivora che, a partire da Marx, ha preso il nome di equivalente universale. È noto però che il rimosso ritorna. E oggi, forse proprio a seguito dei livelli quantitativi e qualitativi raggiunti dal sistema istituzionalizzato di smembramento dei corpi animali – neppure lontanamente pensabile dagli umani di solo poche generazioni fa – si può parlare della scomparsa degli animali come di uno dei sintomi più importanti del presente. In altri termini, gli animali e l'animalità, malgrado tutto, sono sopravvissuti e sempre più umani si stanno rendendo conto, seppur lentamente e con difficoltà, dell'assordante non detto che attraversa il pensiero e le prassi dell'ordine sociale che si è imposto o si sta imponendo sull'intero pianeta. Certo, non possiamo dimenticare quei pochi individui isolati che, in tutte le epoche, hanno assunto un atteggiamento di rispetto e di considerazione nei confronti dei non umani e neppure possiamo ignorare che a partire dall'Ottocento, in particolar modo nei paesi anglosassoni, sono state fondate società organizzate, zoofile e protezioniste, a loro difesa. Tuttavia, è solo a partire dagli ultimi decenni del Novecento – in concomitanza con lo sviluppo di altri movimenti di emancipazione sociale e a seguito della pubblicazione di Liberazione animale di Peter Singer (1975) e de I diritti animali di Tom Regan (1983) – che si può parlare a tutti gli effetti di antispecismo e del progressivo ritorno del rimosso animale nella forma di un sintomo che ormai è difficile ignorare o derubricare a questione marginale per anime belle, sfaccendate, depoliticizzate e più o meno colpite da una qualche turba dell'affettività o del pensiero. L'antispecismo è un movimento giovane. Pertanto non è sorprendente che non abbia ancora elaborato in maniera coerente le proprie idee e le proprie prassi e che sia ancora percepito dall'opinione pubblica e dagli altri movimenti politici più come una galassia in perenne e caotica espansione (o contrazione) che per quello che è o dovrebbe essere: un movimento politico di critica radicale dell'esistente. A tale percezione dell'antispecismo – che purtroppo è molto frequentemente anche un'auto-percezione – contribuiscono fattori interni e fattori esterni. Tra i fattori interni vanno certamente menzionati gli effetti a lungo termine tuttora esercitati dal milieu accademico, middle-class, liberal-riformistico che ha dato i natali all'antispecismo e che continua a limitarne le potenzialità socialmente destabilizzanti. Tra i fattori esterni è innegabile che l'antispecismo si sia trovato a compiere i primi passi in una fase storica che, a seguito dell'incedere perentorio e incontrollato del neoliberismo e del turbocapitalismo, ha visto tutti i movimenti di emancipazione e di liberazione cadere in uno stato di profonda confusione, sofferenza e disorientamento. | << | < | > | >> |Pagina 18A partire da queste riflessioni sono sorti la necessità e il desiderio di scrivere questo libro. Un libro che intende mostrare come e quanto la nostra architettura sociale abbia utilizzato la carne dei non umani (e di chi a questi è o è stato equiparato) come materiale da costruzione; per mostrare come le lenti deformanti con cui guardiamo gli animali, l'animalità e le moltitudini animalizzate diano forma e sostanza al mondo in cui ci ritroviamo a vivere. Un libro che sostiene una tesi molto chiara: la presa sui corpi animali è parte integrante dell'ideologia e delle pratiche di dominio. Per questa semplice ragione, l'antispecismo, che qui si vorrebbe delineare nei suoi tratti principali, dovrebbe da un lato lasciarsi ibridare dalle acquisizioni teoriche e dalle esperienze politiche di movimenti di liberazione di più lungo corso e dall'altro guadagnare sufficiente credibilità per poter smascherare con autorevolezza il non detto antropocentrico che in quelle acquisizioni ed esperienze tuttora si annida indisturbato. E questo non per un qualche oscuro interesse a presentarsi nell'ambito della politica radicale come ideologia più avanzata o come «teoria unificante» dello sfruttamento, ma per affermare, senza tentennamenti e a vantaggio di qualunque istanza genuinamente progressista, che il sistema di smembramento di tutti i corpi (umani inclusi) continuerà a funzionare a pieno regime finché le bestie saranno trattate come sono trattate.Sebbene si auspichi che un giorno, non troppo lontano, un autentico manifesto di liberazione dei corpi animali possa davvero vedere la luce, questo libro non è, e non vuole essere, un altro manifesto antispecista ma, più modestamente, un contributo per porre le basi di un pensiero politico capace di mettersi all'ascolto di ciò che l' immenso dolore animale ha da dirci. Partendo dalla consapevolezza che l'edificio sociale di cui stiamo parlando non necessita di un qualche abbellimento ma di essere smantellato dalle fondamenta, il libro che avete tra le mani, pur non avendo pretese di esaustività, cercherà di sottolineare gli snodi cruciali del tema in discussione per affrontarlo con la serietà intellettuale che la sua gravità richiede. Per questa ragione, si farà inizialmente ricorso a una terminologia ancora interna alla tradizione da cui prendiamo parola per affinarla progressivamente man mano che si procederà. L'andamento del libro sarà, così, a tratti teorico — evitando di cedere a semplificazioni grossolane ma senza indulgere in asperità linguistiche — e a tratti militante — mantenendo la mira sui suoi obiettivi polemici ma senza scadere in slogan propagandistici. Questo libro si propone insomma di amplificare il sintomo animale che già ci attraversa collettivamente e individualmente, riconoscendo che, al pari degli altri, anch'esso non è un'anomalia da curare per sentirci meglio, ma un disturbo di cui prendersi cura per liberare e liberarsi. Da una prospettiva politica, infatti, il sintomo è la configurazione che, in un dato momento storico, viene assunta dai gradienti di forza che caratterizzano il conflitto tra potere e resistenza. A differenza di quanto ci viene frequentemente raccontato e di quanto a volte, in preda allo sconforto e alla disperazione, siamo tentati di credere, l'emergenza dei sintomi è l'indice più rassicurante che non stiamo vivendo nell'epoca acquietata che dovrebbe far seguito alla fine della storia, che la resistenza e l'opposizione al potere sono tutt'altro che reperti museali di un tempo irrimediabilmente defunto. Oggi il sintomo animale è forse il segno più evidente che la resistenza al potere è attiva. Di fronte alle macerie fumanti dell'umanismo, imploso sotto il peso del suo ingombrante universalismo, l'antispecismo indica che la resistenza non è stata completamente addomesticata e che forse proprio nel suo radicale materialismo corporeo si nasconde uno degli ultimi rifugi della speranza. Speranza non meno gioiosa di quelle che hanno animato le rivoluzioni del passato. Rivoluzioni che, indipendentemente dalle loro ripetute sconfitte, non hanno mai smesso, come ha sottolineato Foucault, di lasciare tracce indelebili nelle esistenze e nelle teste di chi ne è stato testimone e di chi continua a renderne testimonianza. Rivoluzioni che in tal modo continuano a tenere aperta la porta a un lavoro storico e politico che, per usare le parole di Benjamin, sia in grado di assumersi il compito, immane ed esaltante, di ricomporre l'infranto, di onorare la memoria dei senza nome che innumerevoli — anche ora, in questo preciso istante — sono sospinti a colpi di bastone e di mannaia oltre quel labile confine che separa le vite infami dalla messa a morte istituzionalizzata. L'inquietudine e l'attesa, al contempo tragiche e liberanti, che il sintomo animale porta con sé sono la dimostrazione più lampante che uno spettro continua ad aggirarsi nel continente dell'Uomo. Uno spettro a cui tutte le istituzioni stanno dando la caccia e che ha un bisogno sempre più urgente di trovare riparo per darci riparo. Uno spettro che, come si leggeva su un muro parigino nel maggio '68, con le sue fugaci apparizioni e con la sua sopravvivenza carsica e tenace, ci ricorda che per essere realisti si deve chiedere l'impossibile. Che il realismo dovrebbe dismettere i panni grezzi e reazionari del «troppo possibile» per aprirsi all'impossibile e chiedere, né più né meno, la liberazione animale. | << | < | > | >> |Pagina 23Nell'epoca delle energie fossili l'inevitabile slittamento dello sfruttamento ha creato un nuovo proletariato [...]. Il peso maggiore dell'attuale exploitation è passato agli animali utili, per i quali è cominciata l'era dell'allevamento e della messa a valore di massa grazie all'industrializzazione dell'agricoltura. Peter Sloterdijk Con l'espressione «questione animale» si intendono le condizioni materiali e istituzionalizzate di sfruttamento e messa a morte degli animali. Questo capitolo, che analizza gli aspetti principali di tale questione, è il necessario preambolo per poter inquadrare nelle giuste proporzioni ciò di cui si sta discutendo e per poter dar conto, nei capitoli successivi, di che cosa siano lo specismo e l'antispecismo. Riassumendo molto, ma senza perdere in precisione, la questione animale è sinonimo dell' orrore più cupo, dell'orrore che ha raggiunto il massimo grado di incandescenza. Di un orrore osceno, di un orrore che, nonostante la sua enormità, resta fuori scena, di un orrore che corre, in maniera quasi impercettibile, sotto la superficie levigata della nostra società andandone a costituire, per usare le parole di Derrida, la sua struttura sacrificale. Più analiticamente, le caratteristiche che ci restituiscono un quadro sufficientemente dettagliato di questa ecatombe incessante, quotidiana e invisibile sono quattro: dimensione, intensità, moltiplicazione e pervasività. La dimensione del massacro è talmente esorbitante da risultare pressoché inconcepibile. Il numero degli animali macellati ogni anno nel mondo per produrre alimenti varia, a seconda delle stime – sempre datate e verosimilmente molto imprecise per difetto –, tra i 15 e i 70 miliardi, senza contare gli animali di piccola taglia, i cui cadaveri vengono venduti a tonnellaggio. Tra questi i pesci uccisi a scopi alimentari raggiungono una cifra astronomica compresa tra i 37 e i 120 miliardi all'anno – cifra destinata ad aumentare visto il consumo in costante aumento di carne marina. E, vale la pena sottolinearlo, le stime riportate, spesso di difficile lettura, sono redatte da organizzazioni governative o sovranazionali che possono essere accusate di tutto meno che di provare una qualche forma di empatia o di compassione nei confronti dei non umani. Agli animali macellati a scopi alimentari vanno poi aggiunti i circa 115 milioni (sempre all'anno) sacrificati nei laboratori per la ricerca biomedica, veterinaria e militare, per la didattica nell'ambito delle discipline biologiche e per i test di tossicità richiesti da tutte le legislazioni per la commercializzazione di qualsiasi prodotto con cui gli umani possono entrare in contatto. Ma questa macabra contabilità non si chiude qui. Seppure i numeri siano inferiori e, per evidenti motivi, le stime più grossolane, alle decine di miliardi di cui si è detto vanno aggiunti gli animali che muoiono sul lavoro nei circhi, negli zoo e negli acquari, quelli che costituiscono le vittime designate di attività «sportive» o «ricreative», quali caccia, pesca, ippica, fiere e gare, quelli che invece sono vittime collaterali di un'urbanizzazione sempre più invasiva (ad esempio, quelli travolti dai veicoli o i «selvatici» abbattuti dopo che hanno «sconfinato» nei territori delle nostre città), quelli trasformati in capi e accessori di abbigliamento, quelli che non rispondono agli standard commerciali degli allevamenti di «pet», quelli che costituiscono, insieme al traffico di armi, umani e sostanze stupefacenti, una delle maggiori fonti di reddito delle organizzazioni mafiose internazionali, quelli che ritenuti «nocivi» o «infestanti» (dai topi agli scarafaggi, ai piccioni e alle nutrie) vengono eliminati con una semplice scrollata di spalle, ecc. Ma fermiamoci qui, perché non è necessario allungare la lista dell'orrore per rendere evidente che la definizione della precisa dimensione del massacro è meno rilevante rispetto alla sua indubitabile enormità e all' indifferenza sfacciata e avvilente con cui vengono presentate le cifre dell'eccidio, cifre che, come detto, possono variare – senza suscitare alcun sussulto o alcun moto di sorpresa sia nei burocrati che le hanno stilate sia nelle persone che le ascoltano – di qualche decina di miliardi (all'anno!) a seconda delle organizzazioni deputate a registrarle e a renderle pubbliche. A questo punto, chi è in possesso anche solo di un briciolo di capacità critica non potrà che arrestarsi incredulo e inorridito di fronte a questa immane necro-statistica, per prendere atto, subito dopo, che la questione animale è una questione politica: le sue cifre ricordano da vicino quelle della più sfrenata speculazione finanziaria e denunciano l' inflazione svalutativa che le vite di questi esseri, quantomeno capaci di provare dolore, hanno subito da parte dell'impresa industriale di sfruttamento globale. Non solo non ci si cura di contabilizzare con un minimo di precisione il numero delle vittime, ma neppure si prova un lieve senso di vergogna a fornire «dati» che, per la loro volatilità, sarebbero privi della pur minima credibilità in qualsiasi altro settore. L' intensità dello sfruttamento animale è letteralmente inimmaginabile, soprattutto nel caso degli allevamenti intensivi e dei laboratori di sperimentazione, tanto che le «esistenze» dei non umani lì rinchiusi sono delle vere e proprie non-vite. | << | < | > | >> |Pagina 47Gli esempi riportati – che sarebbero esilaranti se non fossero essenziali al mantenimento dell'orrore descritto nel capitolo precedente – non sono fenomeni bizzarri e isolati come dimostra il modo in cui la nostra specie si è autodefinita: Homo sapiens. La scelta di una simile denominazione è tutto fuorché il risultato di un meticoloso e neutro lavoro di sintesi dei caratteri di un determinato gruppo di animali. La definizione Homo sapiens, insomma, non è una descrizione innocente, ma il risultato prescrittivo di una tagliente operazione di appropriazione colonizzante di ciò che con la stessa mossa viene escluso. Innanzitutto domandiamoci: perché il sostantivo, sessuato e sessista, Homo? Così facendo non si sta implicitamente escludendo e sottomettendo almeno la metà dei membri di questa specie? E poi perché l'aggettivo, pretestuoso e presuntuoso, sapiens? Si sta affermando che sì, siamo animali, ma così particolari, unici e superiori che nel momento stesso in cui fingiamo di sottometterci alla classificazione linneana degli esseri in realtà ce ne stiamo smarcando definitivamente?Adesso siamo nella condizione di poter rendere conto del perché i tre aspetti sottolineati in precedenza dovrebbero quantomeno essere guardati con sospetto. Essi dovrebbero attirare la nostra attenzione critica perché denunciano in maniera lampante la malafede e l'artificiosità della costruzione della barriera Uomo/Animale, barriera che si consolida proporzionalmente alla sua capacità di dileguarsi in una presunta naturalità, di spacciarsi per la mera presa d'atto, neutra e asettica, di una «realtà esterna» tanto naturale quanto immodificabile. Zoomando sulle narrazioni intorno all'unicità dell'Uomo, non sarà difficile, come già accennato, vedere delinearsi nella loro trama una falla gigantesca: chi classifica è così interessato al «risultato» della sua classificazione da averlo già in mente prima di «scoprirlo». Ecco allora spiegata la scelta apparentemente innocente del metro di misura: tratti psichici o cognitivi già fortemente caratterizzati in senso umano. Ecco la ragione della pervicacia con cui viene tracciata e continuamente ritracciata la linea di confine quando nuove osservazioni empiriche la mettono in discussione e la fanno vacillare. | << | < | > | >> |Pagina 52Quanto detto ci permette di articolare ulteriormente il compito politico dell'antispecismo. Se altre elaborazioni teoriche e altri movimenti hanno decostruito e continuano a decostruire gli attributi dell'Uomo (il femminismo la presunta supremazia naturale dell'essere maschio, il queer quella dell'eterosessualità e del binarismo di genere, il postcolonialismo quella della bianchitudine, ecc.), l'antispecismo, per realizzare le proprie potenzialità dirompenti ancora per gran parte inespresse, dovrebbe intraprendere un analogo corpo a corpo con il sostantivo, l'Uomo, che regge la serie di aggettivi ricordata in precedenza. Ecco così delinearsi gli obiettivi politici di un antispecismo che mantenga le sue premesse e le sue promesse: la liberazione animale, la liberazione umana e la liberazione dell'animalità che, volenti o nolenti, percorre da parte a parte anche gli umani più paradigmatici e «normali». In effetti, a ben pensarci, è impossibile disgiungere questi movimenti di liberazione se non altro perché – suonerà banale, ma ce ne dimentichiamo spesso e volentieri – noi siamo corpi animali vulnerabili che offrono al potere e al dominio gli stessi punti di presa di quelli degli altri animali. L'indissolubilità dei processi di liberazione dei corpi non è, allora, il risultato della meschina ricerca di alleanze fittizie o del persistere di un sottaciuto antropocentrismo che fa rientrare dalla finestra ciò che aveva fatto uscire dalla porta, ma una presa d'atto risolutamente materialista, laica e sovversiva. Questo punto è talmente centrale che non sarà mai enfatizzato abbastanza: la questione animale non è estranea alle questioni umane – come credono alcuni che la derubricano a preoccupazione borghese – ed è sempre più necessario, alla luce della moltiplicazione distraente dei discorsi intorno agli animali di cui parleremo in seguito, marcare la distanza tra questo antispecismo e l'animalismo mainstream che non solo pretende spesso di escludere gli umani dall'interesse del movimento di liberazione animale, ma che addirittura accusa di cripto-antropocentrismo chi sostiene l'inestricabilità delle condizioni di Potere/dominio e delle lotte di liberazione.Se davvero abbiamo ancora voglia di parlare di religioni è l'antropocentrismo a configurarsi come tale. Come sottolinea Agamben, l'etimologia del termine religio ha a che fare con l'ininterrotta e puntigliosa opera di separazione tra ciò che è sacro e ciò che non lo è. Se quanto si è detto finora non è completamente privo di senso, antropocentrismo è sinonimo di antropolatria: l'irrazionale e nefasta esaltazione delle magnifiche sorti e progressive dell'Uomo, di fronte ai cui altari sacrificali – da dove si alzano in volute di fumo e di incenso il resto e i resti dei viventi – tutti gli uomini di buona volontà devono inginocchiarsi in devota adorazione. | << | < | > | >> |Pagina 62Da quanto detto, possiamo trarre alcune conclusioni riassuntive che ci porranno nella condizione di riconoscere e descrivere le principali versioni dell'antispecismo.Prima conclusione. È la categoria di specie il centro vuoto attorno al quale lavora la macchina specista; la specie è il «carburante» che consente di riprodurre da una parte l'Uomo e dall'altra ciò che antropocentricamente definiamo il più o il meno umano, l'inumano, l'anumano, l'extraumano, l'altrimenti che umano, ossia l' Animale. In altre parole, il concetto di specie non è tanto la mera descrizione di un ordine naturale immutabile, come pensava Linneo, o di un processo evolutivo altrettanto naturale, come pensava Darwin, quanto piuttosto un costrutto performativo o, quantomeno, anche e soprattutto un costrutto performativo. La specie è un utile espediente retorico — come riconosceva lo stesso Darwin — per classificare l'infinita variabilità dei viventi e soprattutto, aggiungiamo noi, per naturalizzare e occultare i suoi effetti principali: la creazione di specialità (che sacralizzano alcune caratteristiche umane e i corpi che vi si conformano) e la legittimazione dei fenomeni di speciazione (l'animalizzazione dei corpi che possono essere smembrati impunemente). Abbiamo già detto che ad esempio razzismo, patriarcato ed eterosessualità obbligatoria fanno ricorso anch'essi a cornici normative prestabilite e a centri vuoti, producendo corpi speciali nel momento stesso in cui letteralmente ne fanno scomparire altri. Questo vale anche in altri ambiti che non sono connotati negativamente come quelli appena ricordati. Basti pensare al ruolo svolto dal concetto di persona, concetto cardine dei più svariati umanismi, laici e religiosi, dei più differenti regimi politici e di una molteplicità di discorsi che spaziano dal diritto all'economia. La persona, termine che vede i propri natali nel teatro greco e che assume tutta la sua forza nell'incrocio tra giurisprudenza romana e teologia cristiana, non è forse una maschera, ossia un centro vuoto? Questa maschera non produce contemporaneamente, tramite dispositivi materiali e performativi, persone autentiche (soggetti) e non-persone (abietti)? Non si avverte anche qui una certa qual parentela con il concetto di specie? Ribadiamo che ciò che si sta cercando di sostenere non è l'inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella specie o, con altre parole, che non esistano differenze tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che si sta affermando è che l'operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l'Uomo e l'Animale non è un'operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie «muta» di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste si mettono a parlare grazie all'indiscutibilità della norma sacrificale (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell'ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità. Visto che viviamo in tempi di sentinelle in piedi, è forse più facile mostrare come meccanismi analoghi lavorino alla produzione dei generi, riprendendo quanto accennato di sfuggita in precedenza. Il pene o la vagina, di per sé, non parlano. Questa innegabile differenza biologica tra viventi animali (chi ha il pene e chi la vagina) assume la sua valenza socio-politica solo grazie alla norma eterosessuale che, tra le miriadi di altre differenze biologiche, riconosce il pene come aspetto eloquente per la costituzione del «corpo maschile» e la vagina come aspetto eloquente per la costituzione del «corpo femminile». In altri termini, non si danno i «maschi» e le «femmine» che, attratti per natura gli uni dalle altre – e viceversa –, rendono egemone l'eterosessualità, ma è la norma eterosessuale che produce soggettività maschili e femminili che poi spaccia per entità naturali. Soggettività maschili e femminili che, a loro volta, naturalizzano la norma che le ha costituite, continuando a riprodurla a partire dai più «insignificanti» gesti quotidiani, ad esempio, nella scelta degli abiti con cui ci si veste e ci si mostra in pubblico. Potremmo proseguire dicendo che il nazismo ha reso eloquente la forma dei nasi e il fattore psi – come lo chiamava Foucault – le bozze craniche o la forma di una qualche circonvoluzione cerebrale.
In estrema sintesi,
i discorsi di sapere e i dispositivi di potere fanno parlare alcune
caratteristiche della realtà e conferiscono alle proprie narrazioni l'aspetto di
verità.
Alla luce di queste considerazioni, è lecito domandarsi se il concetto di specie
non operi facendo leva su meccanismi analoghi. I corpi
che la norma sacrificale ha soggettivizzato come umani, da
umani si comportano, in tal modo ribadendola e naturalizzandola ogni giorno e
con ogni minimo gesto, ad esempio sedendosi a tavola in un determinato modo per
nutrirsi di corpi che non contano. È, allora, davvero così bizzarro o
insensato sostenere che la distinzione Uomo/Animale è
una questione politica e non un tema di anatomo-fisiologia
comparata? Una decisione culturale e non una descrizione
naturalistica? In fondo, non è questo ciò che ci insegnano i cosiddetti
ragazzi selvaggi
che performano soggettività non umane una volta usciti dal consesso umano? E i
«pet» che performano soggettività umane una volta inseriti in contesti
fortemente antropizzati?
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