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| << | < | > | >> |IndiceSUDDITI Prima parte 11 La democrazia universale e i suoi amici 19 La democrazia e i suoi nemici 32 I Nuer e noi 44 Il grande imbroglio Seconda parte 107 La fine di una storia 143 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 11In Occidente si è convinti che la democrazia e il mercato (le due cose sono oggi considerate più che strettamente legate, inscindibili) siano lo stadio finale del lungo processo politico e istituzionale che ha inizio, in pratica, con la comparsa dell'uomo sulla terra e il suo caratterizzarsi come "animale sociale", che vive in comunità. Quando crollò l'Unione Sovietica, "l'Impero del Male", il politologo americano Francis Fukuyama annunciò al mondo che la Storia era finita. Poiché la democrazia aveva sconfitto, dopo i nazifascismi, anche il suo ultimo avversario, il comunismo, non c'era più nulla da fare né obbiettivo da perseguire e l'Occidente poteva godersi serenamente il suo trionfo per l'eternità. Per la verità, come si è visto, la Storia non era affatto finita, sotto certi aspetti si potrebbe anzi dire che era appena cominciata e Bin Laden, o chi per lui, avrebbe dovuto togliere ogni dubbio in proposito. Ma Fukuyama e tutti i Fukuyama dell'Occidente non si sono fatti smontare per così poco. Hanno ammesso che effettivamente la Storia non si era chiusa nel 1989, ma hanno spostato più in là il fronte di questa epifania. La Storia finirà quando l'intero pianeta, e non solo l'Occidente, sarà stabilmente democratico e tutte le genti potranno fruire in pace e letizia delle bellurie del libero mercato. È convinzione di ogni progressismo e storicismo, di destra e di sinistra, da Hegel a Marx, che la Storia umana abbia un fine e quindi, dovendo tale fine essere prima o poi raggiunto, anche una fine. All'interno di questa concezione Fukuyama ritiene che esista una Storia universale dell'umanità, valida per tutti i popoli del mondo che sarebbero inevitabilmente e inesorabilmente condotti, dalla ferrea logica di questo disegno finalistico, verso la «Terra Promessa della democrazia», della «diffusione di una cultura generale del consumo», del «capitalismo su base tecnologica». Si tratta solo di accelerare questo processo aiutando le popolazioni che, per pura maleducazione, non sono ancora democratiche a diventarlo, di dar loro una spinta sulla strada dell'emancipazione, perché l'uomo, se lasciato libero di scegliere, è naturaliter democratico. Dopo l' Homo oeconomicus i liberali si sono inventati anche l' Homo democraticus. Quello di Fukuyama non è un delirio solitario, l'onanismo di un epigono di Hegel, ottuso come tutti gli epigoni. È una follia collettiva. O, quantomeno, une folie à deux. Perché questa è esattamente la "dottrina Bush". Il compito dell'Occidente, oggi, è perciò quello di portare, con le buone o con le cattive, la democrazia là dove non c'è ancora. Si è cominciato col mettere in riga Jugoslavia, Afghanistan e Iraq. E in attesa dei prossimi sviluppi c'è chi pensa, per l'intanto, di trasformare l'Onu, l'organizzazione internazionale che attualmente raccoglie tutti gli Stati sovrani in quanto tali, in un club in cui sia ammesso solo chi ha la patente democratica, in una Community of Democracies, in una Organizzazione mondiale della Democrazia e delle Democrazie, da cui verrebbero esclusi, molto democraticamente, tutti gli altri Stati, cioè tre quarti del pianeta. | << | < | > | >> |Pagina 32Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Necker nel 1792, «dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione». Noi diamo invece la cosa per pacifica, scontata e non ci pensiamo più. Ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer. I Nuer sono un popolo nilotico che vive nelle paludi e nelle vaste savane dell'odierno Sudan meridionale, là dove il grande fiume africano riceve gli affluenti Sobat e Bahr el Ghazal. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. «È impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un'educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza... Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza... Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino». Così li descrive l'antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Una bella lezioncina. I Nuer, su un territorio vasto e con una popolazione sufficientemente numerosa (circa 200 mila individui) da richiedere una qualche organizzazione sociale, sono riusciti a mettere insieme uguaglianza e libertà, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell'Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime con cui hanno riempito intere biblioteche ma senza cavare un ragno dal buco. Perché democrazia liberale, socialdemocrazia e la cosiddetta "democrazia popolare" o socialista non sono mai state in grado di coniugare libertà e uguaglianza, riuscendo piuttosto, quasi sempre, nell'impresa di mortificare entrambe. Per i Nuer l'unione di uguaglianza e libertà individuale non è frutto di teorizzazioni, non è un'ideologia, è una pratica e un modo di essere. Un miracolo? O, quantomeno, un'eccezione? Fino a un certo punto: si tratta infatti di una di quelle "società acefale", di quelle "anarchie ordinate" nient'affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l'equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l'Africa stessa. Si obbietterà che con i Nuer, come con altri popoli che noi chiamiamo "primitivi", che oggi non esistono più o che se pur resistono lo fanno in enclaves remote, poco appetibili e sempre più ristrette, siamo proprio all'alba del mondo quando l'uomo conservava intatta la sua vitalità, era in grado di difendersi da sé e non aveva ancora delegato la violenza al monopolio dello Stato. Perché se si offende un Nuer, o anche solo la sua mucca, ci si becca un colpo di zagaglia o, se è di buon umore, di clava, questo è certo. Ecco perché Evans-Pritchard parla di "democrazia fondata sulla violenza" che a noi suona come una blasfema contraddizione in termini. E invece è proprio la possibilità della reazione individuale, o di clan, a limitare, in quelle comunità, la violenza e il sopruso. Ogni Nuer ha un senso profondo della propria dignità e non tollera che sia in alcun modo intaccata. Perché i Nuer pensano, proprio come Locke, uno dei padri spirituali del liberalismo e della democrazia, che gli uomini nascono, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ecco perché non accettano che ci sia qualcuno che li comandi. | << | < | > | >> |Pagina 70Basato sulla parola e l'immagine il potere democratico si regge, più di altri, sull'apparenza. Prendiamo un caso americano: Kennedy e Nixon. Kennedy iniziò la disastrosa avventura del Vietnam, decise l'altrettanto disastrosa operazione della "Baia dei Porci", insieme a Kruscev (altro prediletto della stampa internazionale per la sua aria da contadino "scarpe grosse e cervello fino") portò l'umanità, per la prima e unica volta nel quarantennio del confronto sovieto-americano, sull'orlo della terza guerra mondiale, era legato, attraverso il boss Sem Giancana, alla mafia, è forse alle spalle della morte di Marilyn Monroe. Nixon chiuse la guerra del Vietnam, fu il primo presidente americano ad aprire alla Cina (dialogo di cui oggi si celebrano i fasti), sganciò il dollaro dall'oro (1971) facendola finita con la truffa del gold exchange standard, non era mafioso. Ma poiché Kennedy era «bello e di gentile aspetto», ci aveva la moglie carina, bei bambini biondi, ha sempre goduto del favore dei media occidentali, e quindi anche dell'opinione pubblica internazionale, mentre Nixon, che aveva un brutto grugno, era ed è rimasto sempre "Nixon boia" e fu fatto fuori, con l'aiuto della stampa manovrata dai suoi avversari, per una bagatella.A supporto della parola e dell'immagine, i loro grandi strumenti di seduzione per accaparrarsi il consenso di quello che un tempo si chiamava popolo e oggi viene detta opinione pubblica, le oligarchie e i loro leader hanno a disposizione potenti mezzi di mediazione e di suggestione. Sono lontani i tempi in cui. come racconta Weber, «i Tories si appoggiavano nelle campagne al parroco anglicano e inoltre – il più delle volte – al maestro di scuola e soprattutto ai grandi proprietari delle county; i Wighs, per lo più, al pastore non-conformista (dove ce n'era uno), l'ufficiale postale, il fabbro, il sarto, il sellaio, e cioè a quegli artigiani i quali – dato che con essi si ha più occasione per chiacchierare – possono esercitare un'influenza politica». Oggi i mediatori sono ben altri. Sono i grandi mezzi di comunicazione di massa, non per nulla chiamati gli "strumenti del consenso". Tali mezzi sono controllati dalle oligarchie, economiche e politiche. Nella retorica, tutta liberaldemocratica e specialmente anglosassone, della stampa come "cane da guardia del potere" ci si è dimenticati che i giornali di carta stampata nascono, nei primi decenni del Seicento, per difendere gli interessi dei governanti. La «Gazette» di Théofraste Renaudot, considerato il padre del giornalismo francese, era controllata dal cardinale Richelieu e vi scriveva addirittura, sia pure con un nom de plume, lo stesso re Luigi XIII. Il primo giornale in assoluto stampato in Europa, la «Niewe Antwerpsche Tüdinghen» (1605), era al servizio dell'Arciduca Alberto d'Austria. In Inghilterra i giornali erano sottoposti al controllo del Parlamento, cioè, all'epoca, delle aristocrazie economiche e di sangue. A Genova «i cittadini ritenevano le gazzette a stampa divulgatrici delle frottole che facevano comodo alle autorità». La stampa era talmente screditata che Luca Assarino, forse il primo giornalista italiano, sentì il bisogno di chiamare il suo organo «Il Sincero». Assarino era una spia, un informatore segreto al soldo del principe di San Tommaso, primo ministro del governo piemontese. Da allora, passando per Bel-Ami, le cose non sono granché cambiate. Se non in peggio, sia pur dietro lo schermo di sofisticate mascherature, a causa degli enormi investimenti che comporta la pubblicazione di un giornale. I grandi organi di informazione, quelli che contano, che «fanno opinione», sono in mano a potentati economici, cioè ad oligarchie strettamente legate, in un inestricabile intreccio di interessi, a quelle politiche. In Italia il principale giornale filo-governativo, il «Corriere della Sera» e il principale quotidiano d'opposizione, «la Repubblica», fanno capo a gruppi che appartengono alla stessa oligarchia economica e hanno, di fondo, gli stessi interessi. | << | < | > | >> |Pagina 89La democrazia è un metodo, una serie di regole e di procedure per determinare, attraverso elezioni rette dal criterio di maggioranza, chi devono essere i governanti cui spetta prendere decisioni valide per l'intera collettività. Su questa definizione formale della democrazia convergono tutti gli studiosi contemporanei delle dottrine politiche, da Kelsen a Schumpeter a von Hayek a Popper a Bobbio. La democrazia è quindi un contenitore privo, in sé, di contenuti che vengono determinati di volta in volta dai governanti legittimamente eletti. «Il peggior abuso che si possa fare della definizione di democrazia» scrive von Hayek «è di non applicarla a una procedura per giungere all'accordo su un'azione comune, ma darle un contenuto sostanziale che prescriva quali debbono essere i fini di questa attività». Poiché non ha contenuti, fini, valori in sé, nemmeno quelli della libertà o dell'uguaglianza, preoccupandosi solo che il maggior numero di cittadini partecipi alle decisioni collettive, il rispetto delle procedure diventa per la liberaldemocrazia fondamentale. È tutto ciò che, sfronda di qua e sfronda di là, le resta: «Il rispetto delle regole formali» scrive Raimondo De Capua riassumendo il dibattito novecentesco su questo punto «costituisce il tratto distintivo della democrazia... l'inosservanza dei requisiti formali, cioè delle "regole del gioco", costituisce, sicuramente, la connotazione di regimi non democratici».Su quali debbano essere queste "regole del gioco" gli studiosi non concordano e c'è una gran confusione (lo stesso Bobbio ne indica a volte tre, altre sei, altre ancora nove), quel che è certo è che ci devono essere e che devono essere predeterminate. Ogni Costituzione democratica predetermina le sue. Naturalmente, nel tempo, queste regole possono essere cambiate, ma sempre seguendo le procedure formali e costituzionali vigenti in quel momento. Le regole cioè non possono essere cambiate "in corso d'opera". Altrimenti si precipita nell'arbitrio e crolla tutta l'impalcatura liberaldemocratica. Il rispetto delle procedure è "l'ultima Thule" della democrazia, senza non c'è democrazia. Nemmeno quella pallida ombra cui, di fictio iuris in fictio iuris, si è ridotta. Ma le oligarchie sono riuscite a sfondare anche questo muro del suono. «Altro è la costituzione formale – scrive Norberto Bobbio – altro è la costituzione reale e materiale». Che cos'è questa "costituzione materiale" che salta fuori improvvisamente, dopo tanto parlare di leggi, di norme, di procedure, di "regole del gioco" sacre e inviolabili? La "costituzione materiale" è quella che le oligarchie si creano violando giorno dopo giorno la Costituzione formale, cioè proprio le famose "regole del gioco". E quando si viola la Costituzione formale per sostituirla con una "fai da te", creata dalle oligarchie senza il consenso dei cittadini, senza che nemmeno siano stati messi nella condizione di esprimerlo, ponendoli di fronte al fatto compiuto, la democrazia non è più democrazia. È una frode. Conferma lo stesso Bobbio: «La democrazia è il governo delle leggi per eccellenza. Nel momento in cui un regime democratico perde di vista questo suo principio ispiratore si rovescia rapidamente nel suo contrario, in una delle tante forme di governo autocratico». Che cosa rimane, allora, alla fine di tutto, della democrazia? Rimane lo stanco rito delle elezioni, ripetute ogni quattro o cinque anni, dove ci vengono imposti dei candidati che non scegliamo e rappresentanti che non ci rappresentano. Scrive Kelsen: «Si potrebbe credere che la particolare funzione dell'ideologia democratica sia quella di mantenere l'illusione della libertà» e si chiede «come una tale straordinaria scissione fra ideologia e realtà sia possibile a lungo andare». Ce lo chiediamo anche noi. | << | < | > | >> |Pagina 111Se guardiamo le cose oggettivamente, senza farci abbacinare da nobili e astratti principi, scopriamo che nel rapporto governanti-governati la liberaldemocrazia, rispetto, poniamo, alla monarchia assoluta, ha peggiorato la situazione proprio di quel popolo cui pur ha conferito formalmente la titolarità del potere. Perché può anche capitare che il re per diritto divino o semidivino, proprio perché ha il posto, per così dire, assicurato, prenda le difese del popolo contro le aristocrazie e le oligarchie che lo opprimono, come fecero i Tudor e gli Stuart che per un secolo e mezzo si opposero a quei grandi proprietari terrieri che, fiutando nell'aria l'incipiente capitalismo, volevano recintare i propri terreni rompendo il regime dei campi aperti (open fields) su cui si reggeva il delicato equilibrio del mondo agricolo, salvando così milioni di contadini dalla miseria e dalla fame in cui precipitarono immediatamente, divenendo carne da macello pronta per le fabbriche, appena la rivoluzione parlamentare di Cromwell, preannuncio della democrazia, diede il via libera alle enclosures.Le oligarchie democratiche invece, proprio perché in perenne e feroce competizione fra di loro per il mantenimento del potere, sono costrette a pensare innanzitutto se non esclusivamente a se stesse, alla propria sopravvivenza. E il loro nemico principale, come si è visto, è proprio il popolo. Inoltre – anche se questo è un prodotto più della modernità che della democrazia che le è comunque ancella – Bernard de Jouvenel, nel suo fondamentale studio Del potere, osserva «come il passaggio dalla monarchia alla democrazia sia stato accompagnato da uno sviluppo prodigioso degli strumenti coercitivi». È tuttavia vero che in Occidente la liberaldemocrazia non ha, al momento, alternative credibili. Quelle che sono state ipotizzate non sono infatti realisticamente praticabili. Esaminiamone due che stanno ai poli opposti, perché l'una vorrebbe recuperare la sovranità popolare, l'altra i diritti individuali, entrambi lesi, o addirittura negati, dalla "democrazia reale". La cosa più seria sarebbe recuperare la democrazia diretta, che era stata immaginata da Rousseau e praticata, prima delle sue teorizzazioni, dalla comunità di villaggio nel Medioevo europeo. È la sola condizione perché la gente torni a governarsi da sé e a decidere, nei limiti della condizione umana, il proprio destino, senza ricorrere alla truffa della rappresentanza che innesca poi tutte le altre. Una democrazia diretta che, rispetto al radicalismo di Rousseau, temperi il potere della maggioranza, proprio secondo i migliori dettami del pensiero liberaldemocratico, in modo che la mitica "volontà generale" e la bizzarra pretesa che un popolo abbia un destino, che un falso unanimismo o individui più dotati di altri sarebbero in grado di interpretare, non diventino ancora una volta un'altra forma di totalitarismo. Il computer e Internet, con la loro immediatezza, con la possibilità di intervenire "in tempo reale" renderebbero praticabile, secondo alcuni, la democrazia diretta anche in uno Stato moderno o addirittura nel Superstato mondiale che si profila all'orizzonte della globalizzazione economica.
Sono pie illusioni. Democrazia diretta non significa solo decidere tutti
insieme, ma avere consapevolezza di ciò che si decide e conoscenza della materia
su cui si decide, come le aveva il contadino della comunità di villaggio grazie
al campo ristretto su cui si muoveva.
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