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| << | < | > | >> |IndicePrefazione. All'incrocio delle strade 7 PRIMA PARTE — Qui e ora C'è una questione nera in Francia? Colloquio con Stephen Smith e Françoise Vergès 13 La scuola nella Francia d'oggi Colloquio con Pascal Blanchard e Jean-Pierre Obin 39 Le difficoltà dell'integrazione Colloquio con Hakim El Karoui e Michèle Tribalat 64 La laicità in tutti i suoi stati Colloquio con Maurice Agulhon e Lionel Jospin 91 Le nuove radicalità: un enigma francese? Colloquio con Daniel Bensaïd e Philippe Raynaud 109 Europa, nazione, democrazia Colloquio con Jean-Marc Ferry e Pierre Manent 135 SECONDA PARTE — Incarnazioni L'eredità del generale De Gaulle Colloquio con Paul-Marie Coúteaux e Nicolas Tenzer 155 Mitterrand o l'infatuazione della memoria Colloquio con Christophe Barbier e Hubert Védrine 184 Michelet, la Francia e gli storici Colloquio con François Furet e Jacques Le Goff 209 TERZA PARTE — Ieri e ora Che cos'è essere francesi oggi? Colloquio con Pierre Nora e Paul Thibaud 231 La Repubblica e la filosofia Colloquio con Marie-Claude Blais e Marcel Gauchet 249 La Francia è ancora un paese cattolico? Colloquio con Daniele Hervieu-Léger e Henri Tincq 271 La Francia e gli ebrei Colloquio con Paul Thibaud e Michel Winock 292 C'è un fascismo francese? Colloquio con René Rémond e Zeev Sternhell 312 L'addio ai contadini Colloquio con Pierre Jourde e Richard Millet 333 Le fortune della galanteria Colloquio con Claude Habib e Mona Ozouf 355 NOTE 381 AUTORI 385 |
| << | < | > | >> |Pagina 7"Una nazione è un'anima, un principio spirituale", dichiarava Renan in una conferenza rimasta celebre. "Due cose che, a dire il vero, ne fanno una sola, costituiscono quest'anima, questo principio spirituale. Una è nel passato, l'altra nel presente. Una è il possesso comune di un ricco lascito di ricordi; l'altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a fare valere l'eredità indivisa".
Nella nazione si coniugano dunque, a sentire Renan, il
nativo e l'adottivo, ciò che c'era già e il contratto, il lignaggio e la
libertà, il lavoro delle generazioni ("L'uomo, signori,
non s'improvvisa") e l'autonomia individuale ("L'esistenza
di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni"). Non siamo
esseri incondizionati, ma non siamo nemmeno esseri riducibili ai loro
condizionamenti: tali sono le due verità di cui la
nazione è simultaneamente portatrice. Essa tiene conto del
romanticismo, ossia dell'idea che l'uomo non è il suo proprio fondamento, che è
storicamente generato, tributario di
una civiltà, debitore di un mondo, venuto da una fonte che
lo precede e lo trascende, ma accoglie anche le esigenze dei
Lumi perché coloro che dipendono dalla sua giurisdizione,
ci dice Renan, non sono i membri di un organismo che li attiverebbe a loro
insaputa, non sono specimen, sono soggetti
coscienti che pensano da sé, che agiscono da sé, che ratificano, con la loro
adesione, la storia da cui procedono.
Questo dispositivo fragile e paradossale s'infrange oggi
sotto i nostri occhi. Si pensi, per esempio, alla significazione e alla recente
fortuna del dovere di memoria. Il passato
che siamo tenuti, da un'ingiunzione, a non abbandonare
all'oblio (o agli archivi) non è né un passato di gloria, di
eroismo, di grandi cose né un passato di sacrifici e di sofferenze; è un passato
semplicemente inassumibile. Tra Renan e noi, c'è stato il novecento, ossia le
guerre industriali,
la morte di massa, i campi, il razzismo sterminatore. Non si
tratta più, quindi, di fare valere l'eredità indivisa ma di farne seriamente e
severamente l'inventario. Alla gloria succede la vergogna; al ricordo dei
tormenti subiti il trauma della partecipazione al male; all'ispirazione da parte
dei grandi uomini l'edificante nefandezza degli uomini infami; alla pietà
filiale per gli avi il culto delle loro vittime; e
all'intento di proseguire il romanzo nazionale la volontà di
svelarne la faccia sinistra al fine di staccarsi, una volta per
tutte, da una storia fertile di soluzioni finali.
Il passato ormai rende dei conti: compare davanti al
tribunale del presente per Auschwitz, ma non solo per
Auschwitz. L'Europa è diventata sul tardi una terra di
immigrazione. Volente o nolente, il Vecchio Continente è
adesso un'America e le sue popolazioni non europee chiedono che sia fatta piena
luce sulla tratta negriera transatlantica e sulla colonizzazione. Appoggiate da
intellettuali critici preoccupati di trarre fino in fondo la lezione del
secolo scorso, ampliano dunque il dovere di memoria, e
entra progressivamente in vigore una concezione inedita
dell'ospitalità: non più l'apertura dell'eredità ai nuovi arrivati, ma il
riconoscimento della diversità delle eredità;
non più la tradizione nazionale messa alla portata di coloro che vengono da
altrove, ma la sua messa in sordina
tramite rispetto delle differenze. In breve, non è la fedeltà
alle origini che si esercita sotto il nome di memoria; è la
vigilanza critica. Non si vuole essere all'altezza di coloro
che ci hanno preceduto, ci s'impegna a svelare il senso
del loro tracollo. Non si attinge al tesoro dell'esperienza
acquisita, ci si arma contro il ritorno del mostruoso. Del
canto spartano "Siamo ciò che voi foste, saremo ciò che
voi siete", Renan diceva che era "l'inno condensato di
ogni patria". "Siamo altri da ciò che voi foste perché ci
pentiamo di ciò che avete fatto o lasciato fare", si afferma
oggi, e l'inno delle patrie postschiaviste, posthitleriane,
postcoloniali sta in tre parole: "Mai più questo".
Uno stesso giuramento di rottura con tutto ciò che, nel
passato, ha potuto provocare o permettere lo scatenamento
di una crudeltà senza limiti è al principio dell'Unione europea e
dell'accelerato mutamento dello Stato nazionale in
Stato procedurale, che vigili tramite i suoi arbitrati alla libera espressione,
alla coesistenza pacifica e all'uguaglianza
di trattamento delle molteplici identità che lo popolano. Là
dove c'era un mondo, una storia condivisa, una comunità
di destino, una trama singolare di riti e di usi, regna ormai,
per obbligo di memoria, la forma pura del diritto.
Renan non aveva indovinato il novecento. Da buon positivista, pensava
tuttavia che niente sfuggisse al divenire
e che tutto ciò che era nato dovesse, un giorno o l'altro,
scomparire. "Le nazioni — diceva nella stessa conferenza — non sono qualcosa di
eterno. Così come sono incominciate, finiranno". Forse ci siamo. Ma ecco
ugualmente sorgere e accalcarsi nuovi interrogativi, nuove inquietudini.
La disaffiliazione nazionale forgia cittadini responsabili o
spettatori del mondo, incostanti e frivoli? Il vivere insieme che esige
giustamente un rapporto critico con il passato
non rischia di essere minato dall'oblio memoriale di tutto
ciò che non è crimine? I valori possono sostituire genealogia e territorio? Nel
momento della mondializzazione, ossia di un immenso capovolgimento tecnico,
economico e demografico, in quale comunità occorre che gli uomini
vivano? In una patria carnale? In una Francia sbarazzata
della francesità? In uno spazio polimorfo, senza identità
assegnabile? Per accogliere degnamente l'Altro, conviene
svuotare o perpetuare il sé di casa propria? Qual è infine la
relazione moralmente legittima, politicamente pertinente
e culturalmente feconda tra il diritto e la storia, tra i vivi e
i morti, tra l'universale e il particolare, tra gli immigrati e
gli autoctoni?
La nostra questione, in altre parole, non è più, come nel 1882, "Che cos'è una nazione?" ma "Che cos'è la Francia, e che cosa deve diventare: ancora una nazione o una società decisamente postnazionale?". La risposta a tali questioni fondamentali, se risposta c'è, può nascere solo dallo scambio, dalla disputatio, dal confronto dei punti di vista, e non da una conferenza. Renan faceva opera di definizione per i suoi compatrioti: concettualizzava il loro essere. Siamo all'incrocio delle strade: il compito che incombe su di noi non è dire ma scegliere ciò che siamo, finché c'è tempo, con piena cognizione di causa. Alain Finkielkraut | << | < | > | >> |Pagina 46ALAIN FINKIELKRAUT Amalgama, veramente? Jean-Pierre Obin, vorrei sapere che cosa la Sua indagine Le ha insegnato su quella maggioranza. Gli individui che la compongono e che sono cittadini francesi da due o tre generazioni si sentono francesi? Che ne è della loro identità? Quale rapporto intrattengono con l'eredità storica, filosofica o letteraria che l'insegnamento si sforza di trasmettere loro?JEAN-PIERRE OBIN Abbiamo osservato molte cose ma, per prudenza, abbiamo tenuto a precisare nell'introduzione che le nostre osservazioni non sono generalizzabili. Il metodo che abbiamo seguito non mira a redigere un panorama esaustivo e rappresentativo dell'insieme degli istituti francesi — al contrario: abbiamo auspicato andare negli istituti in cui ci fossero problemi, non in quelli in cui non c'era niente da vedere. Abbiamo quindi selezionato un campione forse rappresentativo del 10% degli istituti francesi, che farebbe circa mille istituti interessati. È comunque preoccupante. Che cosa abbiamo constatato? Da nord a sud della Francia si vedono sempre gli stessi tipi di regressioni che si sviluppano tra i giovani, su un'identità religiosa senza dubbio ricostruita e riaggiustata, talora in opposizione al tipo di pratiche religiose dei genitori. Si osserva anche molto regolarmente l'importanza di gruppi religiosi che giocano al rilancio nella radicalità per influenzare e controllare questa gioventù. È difficile, oggi, in certe scuole medie e in certi licei, essere un allievo di origine magrebina, anche di seconda o di terza generazione, senza ostentare devozione religiosa: ci si espone allora al rischio di essere molestati o addirittura perseguitati da quelli che difendono l'ortodossia di una certa forma di devozione. È una difficoltà ben reale che i capi d'istituto non sanno come trattare. Ciò va talora anche più lontano: si vedono famiglie, che non sono né praticanti né credenti, conformarsi al rituale del giovane per proteggersi e proteggere i loro figli. Si ha un indizio di questo tipo di coercizione religiosa negli avanzi di cibo che si trovano sempre più spesso nei bagni in periodo di digiuno rituale: alcuni allievi sono costretti a nascondersi lì per mangiare!
Ci si può anche preoccupare per le sempre più numerose
contestazioni dell'insegnamento, principalmente in tre discipline: l'educazione
fisica e sportiva, la storia e le scienze
della vita e della terra. Anche lettere e filosofia sono interessate, ma in
misura minore: in questo caso si mira non tanto
alla disciplina in sé quanto a certe opere o a certi temi...
ALAIN FINKIELKRAUT Nel Suo rapporto si legge che i filosofi dei Lumi,
specialmente Voltaire e Rousseau, sono particolarmente presi di mira; che
Madame Bovary
è denunciata come un'opera troppo favorevole alla libertà della donna e
che
Tartuffe
di Molière è un altro bersaglio di qualità: rifiuto
di studiare o di interpretare la pièce, boicottaggio o disturbo delle
rappresentazioni. E quello che dice della storia è
ancora più impressionante: rifiuto di studiare la costruzione delle cattedrali,
di aprire il libro sulla pianta di una
chiesa bizantina o di ammettere l'esistenza delle religioni
preislamiche in Egitto o l'origine sumerica della scrittura.
E la contestazione si radicalizza quando il professore si avventuri a trattare
delle crociate, del genocidio degli ebrei,
delle guerre araboisraeliane, della questione palestinese...
JEAN-PIERRE OBIN Sì, e questo non ci ha troppo sorpreso perché sono cose
che si sanno da un certo tempo.
In compenso, siamo stati sorpresi dai numerosi rifiuti di
tutto ciò che può toccare la cristianità. Si rifiuta di studiare
il Medioevo e il tempo delle cattedrali. Si rifiuta di aprire
un libro sulla pianta di una chiesa bizantina. Si rifiuta di
entrare in un edificio religioso o in un museo che sia stato
in precedenza un edificio religioso...
ALAIN FINKIELKRAUT Che cosa ne fa Lei, Pascal Blanchard, di tutti questi
sintomi? Come li analizza?
PASCAL BLANCHARD Sono sintomi reali, descritti da molti insegnanti. Si sa
che oggi in un certo numero di istituti
c'è difficoltà a parlare del genocidio ebraico, della schiavitù o della guerra
d'Algeria; è una realtà. Sfumerò semplicemente quello che ha detto Lei
aggiungendo che non
c'è critica della storia come disciplina. È emerso da un certo numero di
colloqui con giovani della regione di Tolosa — indagine che figura come allegato
all'opera
La Fracture coloniale —
che non è tanto la pratica della storia o anche
il modo in cui è raccontata a recare disturbo quanto l'idea
secondo cui non ci sono mai, in queste storie, "eroi" che
somiglino loro o che facciano sentire loro di essere francesi.
Credo sia importante dirlo. Quando si discute per esempio
con allievi delle prime o delle ultime classi, in cui si insegna la
colonizzazione, si capisce come siano in molti a non
sentirsi interessati da questa storia; la trovano "di parte"
o "parziale"; non si sentono rappresentati e hanno la sensazione che la loro
memoria non abbia la sua parte nella memoria nazionale.
ALAIN FINKIELKRAUT Sì, ma che cosa bisogna rispondere
a una sensazione come quella? Dopo tutto, io potrei dire
la stessa cosa. Io non sono un francese di vecchia discendenza, sono nato da
genitori polacchi, e siamo stati naturalizzati insieme, nel 1950, quando io
avevo un anno. Mio padre era stato deportato di Francia, come i miei nonni
(non sono mai ritornati), e la storia che mi veniva insegnata non affrontava o
affrontava appena il ruolo dello Stato
nella messa in atto della Soluzione finale. Ho frequentato
le scuole secondarie in un momento in cui regnava ancora
il mito di una Francia unita nella resistenza all'occupante. Il corso di storia
non considerava la storia da cui ero
venuto, tuttavia la imparavo, senza sentirmi leso o offeso.
Pur essendo molto attaccato alle mie origini, non vedevo
niente di umiliante nemmeno nel fatto che la Francia fosse
un paese di tradizione cattolica. Ed ecco che sempre più
numerosi giovani musulmani vivono questo patrimonio
come un insulto alla loro identità!
PASCAL BLANCHARD Sfumerei il Suo discorso su due punti. Anzitutto, penso che questo vada ben al di là dei figli "musulmani". Concerne anche figli di famiglie di francesi d'Algeria o discendenti di "rimpatriati" ebrei del Nordafrica, o figli di migranti vietnamiti, cambogiani, laotiani o antillani. Lei dimentica forse che, dall'epoca di cui parla, la nozione di guerre coloniali, quindi di conflitti, si è aggiunta nella memoria di questo passato. Un conflitto in una storia comune provoca traumi ma anche attese e richieste di "memoria" e, quando non è raccontato, si genera una vera e propria frustrazione.
Inoltre, il modo in cui si racconta (o non si racconta) la
storia organizza il presente, e farò un esempio semplicissimo. Oggi, i figli
pensano che la storia coloniale sia un tutto
che si riduce alla tortura in Algeria, perché tale questione è adesso molto
presente nell'insegnamento o nei media quando si parla della guerra d'Algeria.
Abbiamo d'un tratto a che fare con allievi di quindici o di sedici anni (ma
anche con giovani adulti) i quali pensano che la colonizzazione sia un atto di
tortura che è durato centotrent'anni
in Algeria! È drammatico! A forza di avere avuto un vuoto
di memoria e di parlare male (addirittura di non parlare)
della colonizzazione, si arriva a dare la sensazione che la
colonizzazione sia stata solo una lunga violenza e che non
ci sia stato altro che questo. Lei capisce allora perché taluni
siano in procinto di buttarsi in questo deficit dell'insegnamento della storia.
I proseliti e gli integralisti di ogni ordine
hanno così carta bianca per dire loro che, da centotrent'anni, la Repubblica
esclude i magrebini ma integra gli ebrei.
L'allievo di quindici o di sedici anni che arriva in prima o
in quinta e che studia la colonizzazione può quindi entrare
in ribellione dinanzi alla storia, o dinanzi a una lettura che
giudica incompleta della storia coloniale. Dobbiamo essere
estremamente vigili in tutto questo.
JEAN-PIERRE OBIN C'è un vero problema in ciò che Lei
dice, e è il seguente: l'insegnamento della storia può essere la semplice
giustapposizione di storie particolari, quelle
delle popolazioni che hanno progressivamente costituito la
nazione francese? Oppure esiste una storia di Francia che è
quella di un'unità politica che si è anch'essa costituita progressivamente? La
storia di Francia non si riduce alla storia
dei francesi. Vedo una deriva nell'idea, diffusa nella scuola
e altrove, secondo cui sono le nostre differenze a radunarci.
L'ideologia repubblicana ha sempre messo avanti l'unità e
la promozione di ciò che ci fa somigliare. Questa è la critica
di fondo che rivolgo peraltro al Suo libro: implicitamente
per lo più, Lei sviluppa un'apologia morale della diversità.
PASCAL BLANCHARD Questo non è scritto nel libro, e soprattutto io non lo
penso! Sono in verità molto sorpreso
da quello che Lei dice, perché non corrisponde affatto al
nostro modo di pensare il mondo. Anche se questo libro
ha più di una ventina di autori, credo di poter dire che nessuno di loro ha
sviluppato questo genere di idee. Noi non
riteniamo che la storia delle colonizzazioni sia una storia di
certe popolazioni in Francia: è una storia
di
Francia! L'unità nazionale è forse fallita, ma è un fallimento della mitologia
repubblicana. Se non la si racconta, non si potrà uscire dalla
trappola in cui ci ha portato la storia coloniale. D'altronde,
si parlava già della diversità al tempo della colonizzazione,
tranne che questa diversità aveva un triplice statuto: era
una Repubblica in cui di fatto c'erano, oltre ai francesi e
agli stranieri, degli "indigeni".
ALAIN FINKIELKRAUT Il Suo discorso, Pascal Blanchard,
è appassionante e paradossale. Lei osserva che, anziché insegnare la storia
coloniale, ci si fissa sul momento parossistico della guerra d'Algeria, cosicché
si dà di questa realtà un'immagine puramente criminale: la colonizzazione è la
tortura. Nello stesso tempo, nel libro da Lei diretto con Nicolas Bancel e
Sandrine Lemaire, è severissimo quanto alla
legge del 23 febbraio 2005 che esprimeva la riconoscenza
della nazione "per l'opera compiuta negli ex dipartimenti
francesi d'Algeria, in Marocco, in Tunisia e in Indocina",
e che chiedeva ai professori di storia di mettere l'accento
sul ruolo positivo della presenza francese oltremare. Come
Lei, l'insieme del corpo insegnante è insorto contro l'imposizione di una storia
ufficiale. Ma dove è, oggi, la storia
ufficiale? Lo dice Lei stesso: nella riduzione della colonizzazione ai suoi
crimini. I deputati che hanno votato questa
legge hanno voluto riabilitare per lo meno in parte i francesi d'Algeria. Hanno
fallito: il loro tentativo resterà un
buco nell'acqua perché non c'è potere politico che tenga,
oggi, di fronte al potere della
doxa.
E la
doxa
è critica, anche ipercritica, come testimonia il testo che segue, proposto
alla sagacia degli allievi in occasione della prova avanzata
di francese della maturità tecnologica del 2005. Si tratta di
Lily,
di Pierre Perret, una canzone che ha ottenuto il premio
della Licra [Ligue internationale contre le racisme et l'antisémitisme]:
La trovavano piuttosto carina, Lily Arrivava dalla Somalia, Lily [...] Credeva che si fosse uguali, Lily Nel paese di Voltaire e di Hugo, Lily [...] Ha scaricato delle casse, Lily Se n'è infischiata dei lavori sporchi, Lily [...] Amò un bel biondo ricciuto, Lily Che era prontissimo a sposarla, Lily Ma la famiglia acquisita le disse: "Noi non siamo affatto razzisti, Ma non si vuole una cosa simile da noi".
Ecco il tema di invenzione proposto agli allievi: "Lili, un
anno dopo il suo insediamento a Parigi, scrive alla famiglia
rimasta in Somalia; denuncia l'intolleranza e il razzismo di
cui è vittima". In altre parole, per avere il diploma in Francia, bisogna fare
il processo alla Francia. La legge del 23 febbraio 2005 è nata morta. Oggi non è
più il patriottismo
a essere obbligatorio, ma la denigrazione della patria; non
è più l'esaltazione ma la condanna della patria, che chiede
alla sua gioventù di sporgere istanza nei suoi confronti facendo l'enumerazione
delle sue tare. Dove è il progresso?
Dove è la libertà? Si crede che, innalzando così la francofonia a ideologia
francese, ci si aprirà finalmente alle nuove
popolazioni? Penso invece sia rigorosamente impossibile
integrare gente che ha tendenza a non amare la Francia in
una Francia che non si ama, o che si ama sempre meno.
PASCAL BLANCHARD In questa concatenazione intellettuale, abbastanza brillante, mancano tuttavia due parametri che mi sembrano essenziali. Anzitutto, i francesi di cui parliamo (i nostri genitori e i nostri nonni) hanno avuto diritto a una mitologia storica raccontata a scuola riguardo alla colonizzazione. A scuola non si fabbrica soltanto sapere, si fabbricano anche una cultura e un modo di pensare il mondo. Non si può dimenticare che ci sono state una "menzogna" e una "mitologia", in questa storia. Anche dire che non bisogna parlarne oggi perché si potrebbe creare turbamento può avere conseguenze gravissime.
Andrò più lontano. L'articolo 4 della legge del febbraio 2005 non è in
verità che la parte più visibile di
qualcosa di molto complesso. Lo si vede nelle attese degli editori di manuali
scolastici, che chiedono agli storici di sfumare il loro approccio al fatto
coloniale o di
scrivere i capitoli o le opere sulla colonizzazione. Quali
titoli ci vengono proposti? Ebbene, per esempio,
La décolonisation pacifique en Afrique noire!
Altra constatazione: a Marsiglia si costruisce oggi il Memoriale nazionale
della Francia d'oltremare, e questo progetto (previsto
in origine per promuovere l'opera francese d'oltremare
nel testo governativo del 2003 che ha prefigurato il voto
di febbraio 2005) è un "museo" che rischia di glorificare
l'azione coloniale della Francia in prossimità dei quartieri nord, cosa che oggi
non è forse molto conveniente
fare. A Montpellier, Georges Fréche ha intenzione di far
costruire un museo dell'Algeria francese. Ciò non dà la
sensazione di una neutralità di fronte a questo passato.
D'altronde, la Francia è l'unica nazione europea a non
avere un museo della storia coloniale; è un segno. I soli
"musei" che si costruiscono, e in cui andranno i nostri
figli, per il fatto della partnership con il ministero della
Pubblica istruzione, sono musei che glorificano l'azione
della Francia nel Maghreb e in Africa. M'interrogo quindi sul fatto che,
quarant'anni dopo i fatti, in un paese che
ha diciassette musei dello zoccolo, non abbiamo alcun
museo sulla storia coloniale che proponga una lettura
aperta di questo passato e non ne offra altro che una visione (quella del
colonizzatore)! In un paese che tace su
questo passato e in cui lo Stato agisce nella contromemoria, se non
nell'antimemoria, c'è un dibattito di fondo da
aprire, perché ciò rinvia a difficoltà molto concrete.
ALAIN FINKIELKRAUT Jean-Pierre Obin, Lei è ispettore generale del
ministero della Pubblica Istruzione: come affronta la questione coloniale la
maggioranza degli insegnanti? Lo fa in maniera nostalgica, apologetica o,
all'opposto, critica, persino ipercritica?
JEAN-PIERRE OBIN Avrei tendenza a dire che la maggioranza lo fa in maniera
critica, a volte ipercritica. Si sa che gli insegnanti sono in maggioranza di
sinistra, taluni di estrema sinistra. Al momento della guerra d'Algeria, si
sono massicciamente impegnati nella lotta anticoloniale. È
stato il mio caso, per esempio. Ciò spiega peraltro perché
gli insegnanti di storia abbiano reagito con tanto vigore e
tanta vivacità alla legge di cui Lei ha parlato. Credo occorra
dare tempo al tempo...
PASCAL BLANCHARD Sono quarant'anni che si è decolonizzato; sono tanti!
JEAN-PIERRE OBIN Quarant'anni sono pochi! Vuole dire che ci sono ancora molti che hanno vissuto personalmente questi episodi e che ne hanno una percezione non storica, ma personale, sensibile e molto spesso dolorosa. Non sono affatto sostenitore dell'amnesia riguardo a questi episodi della storia ma, in tutta obiettività, constato che è tanto più difficile avere un'analisi distaccata quanto più si è sofferto di questi avvenimenti. E quelli sono tentati di pesare, segnatamente attraverso le lobby che conoscete, sull'insegnamento della storia, come in una sorta di rivincita. Ciò non toglie che resti da fare una storia scolastica che informi delle cose e che cerchi di presentare la colonizzazione sotto una luce ambivalente. | << | < | > | >> |Pagina 96LIONEL JOSPIN Vorrei dire anzitutto che, sul piano dei princìpi ricordati da Maurice Agulhon (un eminente specialista della tradizione repubblicana e delle questioni legate alla sociabilità), credo come lui che si debba essere contro il foulard islamico. Occorrerebbe beninteso anche sapere fin dove si spinga questa affermazione: potrebbe condurci a considerare che bisognerebbe non tollerarlo non solo nelle aule scolastiche ma anche nelle strade! Dopo tutto, ci sono stati nel Vicino Oriente e in Asia uomini politici (penso in particolare a Mustafà Kemal Atatürk) che hanno fatto togliere il foulard a una popolazione a dire il vero molto più numerosa. A ogni modo, qui non siamo confrontati con questa questione. In ogni caso, dobbiamo essere, per una questione di principio, contro il foulard islamico. Dobbiamo essere contro la versione integralista dell'islam. Ciò non vuole assolutamente dire che dobbiamo essere contro l'islam: lo dico perché ci sono spesso, in queste materie, rischi di amalgama. D'altronde, nell'affaire del foulard si sono visti apparire singolari difensori della laicità, che non l'avevano difesa in altri momenti o per altre cause (penso beninteso all'estrema destra). Penso che dobbiamo essere contro i segni di discriminazione tra gli uomini e le donne — discriminazione che non esiste solamente nella religione musulmana, poiché la si trova anche, almeno su certi terreni, in altre religioni.
Il problema che, senza separarci, introduce tuttavia piani
differenti, è il seguente: come si fa passare questa opinione di principio negli
istituti? Sembra non sia possibile farlo
nella maniera di un divieto generale. Se François Goguel
ha ragione, se dunque basta partire dalla caratteristica di
discriminazione sessista del foulard per fondare un divieto
generale dello stesso, nominandolo all'occorrenza in maniera esplicita, allora
ciò offre una soluzione. Sarei personalmente favorevole a un tale atteggiamento,
perché non sono per il foulard a scuola. Ma non sono del tutto sicuro che
questo sia possibile: mi chiedo perché il Consiglio di stato
non ne avrebbe tratto questa conclusione. Temo invece che
dire questo sia un'interpretazione del segno religioso; in
nome della separazione tra il confessionale e il temporale,
il potere politico non può farsi interprete dello spirituale.
Temo che le nostre posizioni siano allora differenti.
ALAIN FINKIELKRAUT Come fare passare nella realtà il
principio che Lei ha affermato, Maurice Agulhon?
MAURICE AGULHON Riprendo le mie riserve: io, che
sono lungi da tutto questo, non ho la pretesa di dare consigli pratici agli
uomini che conoscono il terreno come i capi
d'istituto o gli ispettori accademici, ma mi sembra che sarebbe più agevole
risolvere il problema se le persone che sono sul terreno si appoggiassero a
un'opinione nazionale, repubblicana, del tutto lucida e non intimidita da un
rigetto di principio. Su quel rifiuto, ci sono timidezze a sinistra
che si spiegano benissimo con la ragione che Lionel Jospin
ha appena menzionato: c'è gente all'estrema destra soprattutto che è contro il
foulard per pura e semplice xenofobia.
Molta gente di sinistra è di conseguenza inibita nel suo sentimento laico,
perché non vuole avere l'aria di fare coro con
coloro che ho appena evocato. Conserviamo anche della
nostra antica posizione colonizzatrice una sorta di cattiva
coscienza riguardo al mondo musulmano e agli immigrati in generale. Tutti questi
sentimenti, comprensibilissimi,
ci paralizzano e ci impediscono di affermare un principio
giusto nella situazione attuale. Credo occorra che ciascuno
prenda coscienza di questa situazione affinché ci s'incammini finalmente verso
qualche soluzione. La soluzione nell'opinione pubblica dovrebbe in effetti
essere favorevole all'esito delle soluzioni pratiche sul terreno.
ALAIN FINKIELKRAUT Mi sembra d'altro canto che il testo
stesso della circolare rifletta il fastidio e l'inibizione di cui
parlate entrambi. Si pensa al velo e si prendono di mira tutti i segni
religiosi, mentre soltanto il velo è discriminatorio.
Ma il ministro non voleva essere accusato di stigmatizzare
una religione particolare. Fu d'altronde fatica sprecata: non
ha impedito il rimprovero di islamofobia. Sarebbe ora che
la sinistra uscisse dal senso di colpa che esprimeva ancora
recentemente un professore di filosofia, Jean-Jacques Delfour, che così scriveva
su "Libération": "Si può togliere al
foulard la sua capacità di ricordarci la nostra storia recente con l'Algeria?
Strappare il foulard islamico non è poter
rimuovere il richiamo delle penose ore del colonialismo e
della decolonizzazione?". La rituale invocazione delle
ore-più-cupe-della-nostra-storia ci fa dimenticare le ore cupe
di oggi, e in particolare le donne che nei paesi arabi rifiutano, con pericolo
della vita, di portare il velo. In questo contesto, e in virtù di ciò che
dobbiamo a queste donne, non occorrerebbe trovare un consenso che spezzi le
difficoltà di cui si è parlato poc'anzi?
LIONEL JOSPIN Non credo che il problema sia dove Lei
lo situa. In effetti mi sembra che il consenso esista in realtà. Coloro che
difendono la posizione secondo cui bisogna
autorizzare senza riserve l'uso del foulard a scuola perché
bisognerebbe avere una scuola multiconfessionale e pluralista mi sembrano essere
estremamente minoritari. Il problema mi sembra dunque altrove. Qualcuno che,
come fu il mio caso, è stato per la decolonizzazione durante la guerra
d'Algeria non ha alcun senso di colpa al riguardo e non è
affatto motivato da queste molle psicologiche. Non credo,
come Maurice Agulhon, che lo scrupolo dello storico gli
vieti di esprimersi sulle questioni del diritto. Noi lavoriamo nel quadro della
Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo, ripresa nel Preambolo della Costituzione. In
altre parole, è lo stesso articolo ad affermare la laicità della Repubblica
francese (affermazione che risale solamente
al 1946) e a stipulare che "Nessuno può essere infastidito
per le sue opinioni, anche religiose" di cui occorre poter
garantire l'esercizio — ammiro al volo questo "anche", che
traduce quello che era l'atteggiamento dei grandi repubblicani di fronte alla
religione dopo la Rivoluzione del 1789...
Lavoriamo d'altronde nel quadro dell'articolo 9 della Convenzione europea sui
diritti dell'uomo, secondo cui la libertà implica la libertà religiosa. Tutto
questo dice che dobbiamo rispettare la libertà religiosa e anche l'espressione
delle opinioni religiose. Il problema è dunque che lavoriamo in questo quadro
giuridico. Quindi non possiamo far
prendere ai capi d'istituto o alle comunità educative decisioni che sarebbero
poi cassate dal giudice amministrativo o dal Consiglio di stato.
ALAIN FINKIELKRAUT Potrebbe accadere, secondo Lei?
LIONEL JOSPIN Che cosa differenzia il mio percorso da
quello di Bayrou, la cui circolare non mi pone difficoltà,
poiché vedo le cose un po' diversamente? Che, nella mia
circolare ai capi d'istituto, abbia attirato l'attenzione sul
fatto che la situazione del diritto è molto complessa e che
non possa permettere di vietare per principio ogni segno
religioso. Ho detto loro che sarebbero giudicati su casi particolari e che, se
potessero provare che ci sia non rispetto
dell'assiduità ai corsi oppure proselitismo, e quindi attentato alla libertà
degli altri, allora potrebbero agire senza
timore di vedere le loro decisioni cassate. Frarçois Bayrou
rovescia la logica: fa credere ai capi d'istituto che dispongono ormai di una
regola semplice, poiché basta dire che
si bandiscono i segni ostentati, intendendo che i segni religiosi sono
considerati come se fossero per definizione
ostentati. Disgraziatamente, poi, lascia che se la sbroglino
per l'applicazione della regola. Temo quindi che intrappoli i capi d'istituto
portandoli a prendere decisioni che non
possono prendere, e che saranno cassate. Tali cassazioni
sarebbero evidentemente vittorie per gli integralisti radicali. L'unico mezzo
per evitarlo è provare il proselitismo,
come era già nella mia circolare e nella dichiarazione del
Consiglio di stato.
MAURICE AGULHON Lei ha sicuramente ragione. Bisogna mettersi dal lato buono dal punto di vista del diritto: bisogna cercare e sanzionare i segni di proselitismo e anche ciò che, al di là del velo, segna il rifiuto di certi insegnamenti. Detto questo, la Repubblica è vissuta per più di un secolo senza che si giudicassero incompatibili il divieto di segni confessionali nella scuola e l'espressione della libertà religiosa. Quando si è fondata la scuola laica, per esempio, ci si è presi gran cura di creare un giorno di congedo a metà settimana affinché il catechismo non avesse luogo durante le ore di lezione. È vero che il dato è oggi un po' cambiato, accrescendo la complessità delle cose: quando Jules Ferry e i suoi hanno creato la scuola laica, avevano di fronte soltanto una religione antagonista, mentre oggi ce ne sono diverse. Ciò complica la situazione, ma mi sembra che i princìpi restino gli stessi.
Riguardo alla frase del professore di filosofia che Lei
ha precedentemente citato, vorrei ricordare a che punto le
donne d'Algeria che rifiutano il velo, talora con pericolo
della vita, ci mettano in guardia contro il terzomondismo.
ALAIN FINKIELKRAUT Vorrei aggiungere una testimonianza a quello che Lei,
Maurice Agulhon, ha appena detto.
Quando frequentavo il liceo, negli anni sessanta, non c'era
alcun segno religioso: le ragazze o i ragazzi che sfoggiavano una croce, per
esempio, erano invitati dal preside a
metterla sotto il pullover. La laicità ha funzionato così per
un momento; oggi non più. Questo può forse permetterci
di allargare il problema, perché mi sembra che stiamo assistendo alla
convergenza di due fenomeni — da una parte,
l'integralismo (segnatamente islamico) che vuole sottomettere la scuola alla
legge trascendente della religione e, dall'altra, tutto un movimento che vuole
sottomettere la scuola
alla legge immanente della società. Nel primo caso, non c'è
posto per valori spirituali autonomi e distinti dal soprannaturale, e non c'è
cultura libera dalla religione. Nel secondo
caso, più moderno, non c'è, in un certo modo, al di là del sociale: la scuola
non è più un servizio pubblico, è un servizio
e basta. Da quando gli allievi sono degli utenti, addirittura
dei clienti, si prende il cliente così com'è e si soddisfa la sua
richiesta. La scuola è diventata un crocevia di bisogni, e i
professori sono diventati prestatori di servizi, assoggettati
alle richieste e alle impazienze dei genitori degli allievi, dell'economia,
degli allievi stessi, o anche dei media. Ma che
cosa resta della laicità se la scuola è lì solo per rispondere
alle sollecitazioni della società? Questo assorbimento della
scuola da parte del sociale non è anche una delle ragioni
per cui certe regole elementari, tanto a lungo praticate, sono
oggi così difficili da mettere in opera?
LIONEL JOSPIN Sono prontissimo a darLe il mio parere
sulla questione, ma Maurice Agulhon apriva poc'anzi un
possibile campo di dibattito su cui occorrerebbe forse ritornare: si tratta dei
nuovi problemi con cui ci confronta, se
non l'islam stesso, in ogni caso la sua versione caricaturale
dell'integralismo islamico. La laicità si è costituita in Francia contro la
religione, anche se ha stabilito un messaggio
e istituzioni equilibrate. In seguito, il dibattito si è pacificato e quindi non
siamo mai più stati messi a confronto
con una religione offensiva. È vero che la concorrenza tra
scuola pubblica e scuola privata o il dibattito suscitato dalla proiezione del
film
L'ultima tentazione di Cristo,
di Martin Scorsese, hanno fatto talora risorgere qua o là alcune forme
d'integralismo in certi ambienti cattolici; ma, in complesso,
non si percepisce più la religione come una vera e propria
minaccia. Più ancora, il totalitarismo ha fatto della religione non una forza
potenzialmente minacciosa per il potere
politico dello Stato, ma una corrente di pensiero di nuovo
riprovata e minacciata: di questa tragica esperienza del secolo resta quindi
l'idea che anche la religione possa essere da proteggere e che non ci sia solo
da proteggersi dalla
religione. In compenso, l'islam radicale e integralista può
essere validamente percepito come una minaccia per una
certa concezione della società. Questa minaccia è diretta,
talora fisica sulle donne algerine; prende la forma di una
pressione psicologica su un certo numero di ragazze o di
giovani, addirittura sulla scuola. Occorrerà quindi trattare
queste nuove questioni con il senso della sfumatura beninteso, nel rispetto del
diritto, ma anche con una grande fermezza di principio. Ecco che cosa volevo
dire per reagire a quanto ha esposto Maurice Agulhon.
MAURICE AGULHON Certamente, il problema dell'islam
esiste, ma non dimentichiamo che i cittadini che si appellano a una religione
sono in maggioranza cattolici. Ciò pone
alla laicità il problema seguente: quando i repubblicani degli anni 1870-1880
hanno fondato il nostro sistema scolastico, avevano di fronte un cattolicesimo
che, andando per le spicce, si potrebbe definire integralista, poiché era
comunque quello del
Sillabo.
Era un cattolicesimo tradizionalista,
spesso realista e di preferenza autoritario. Non dico che non
esistesse virtualità di evoluzione verso una democrazia cristiana e
repubblicana, ma era molto marginale. È questo che
è cambiato. E ha avuto come conseguenza, nel campo laico
e rispetto a quello che è il cattolicesimo oggi, due possibilità
di errore simmetriche. Gli uni considerano che il cattolicesimo sia cambiato al
punto che non ci siano più rischi di
conflitto maggiore con esso e che si possa regolare quanto
resta di controverso facendo le necessarie concessioni. Altri, invece,
minimizzano i cambiamenti e considerano che
il partito del male incominci ai limiti del Cds [Centre des
démocrates sociaux], il partito della democrazia cristiana,
anticamente Mrp [Mouvement républicain populaire], oggi
Udf [Union pour la démocratie frannaise], quando non è ai
limiti del delorismo, dal nome di Jacques Delors, cattolico
entrato nell'ala destra del Ps. Mi sembra che, tra i due estremi di cui faccio
la caricatura, ci siano due cose da considerare. Sì, è vero, il cattolicesimo
nella sua versione integralista
è diventato molto minoritario in Francia, e è una fortuna;
tuttavia, esiste ancora e non è affatto escluso che si possa
ancora assistere un giorno, non solamente nella più lontana Vandea ma anche a
Parigi, in pieno Quartiere latino, ad
azioni militanti sulla questione dell'aborto o della contraccezione per esempio.
All'inverso, bisogna tenere conto anche del cambiamento: si è obbligati a tenere
conto del fatto che la maggioranza dei cattolici francesi si è allineata sulla
forma repubblicana e democratica del governo, o anche di
quest'altro fatto, che è stata dal lato buono della Resistenza. Sono due
considerazioni — vigilanza da un lato, riconoscimento del cambiamento e
possibile fraternizzazione dall'altro — che occorre avere in testa.
ALAIN FINKIELKRAUT Lei, Lionel Jospin, è d'accordo con
questa duplice esigenza?
LIONEL JOSPIN Sì, certamente. L'avevo formulata alla mia maniera, ma credo andasse nello stesso senso. Semplicemente direi che, se un milione di persone sì è mobilitato nelle piazze all'inizio di gennaio per non vedere rimesso in discussione l'equilibrio a cui siamo arrivati tra la scuola pubblica e le scuole private, essenzialmente confessionali, vuole dire che i francesi restano profondamente attaccati all'idea di una scuola pubblica.
Al riguardo, e per rispondere infine alla domanda che mi
poneva, sono personalmente perché la scuola resti un servizio pubblico e non
diventi un servizio come gli altri. Sono
contrario a quello che chiamerei il consumerismo scolastico,
che ci facesse considerare i figli o i loro genitori come dei
clienti. Non sono perché l'atto d'insegnare e di trasmettere il
sapere possa essere identificato con la produzione e la distribuzione di una
merce culturale. Non sono dunque perché
la scuola sia semplicemente un "crocevia delle richieste" o
che abbia la benché minima cosa a che vedere con l'ambito
dell'ipermercato. Mi differenzio forse un po' da una tonalità
che Lei stesso, Alain Finkielkraut, ha dato spesso nei Suoi
scritti o nei Suoi interventi, nella scelta delle formule. Credo
infatti che la scuola debba essere un luogo protetto, perché
non sia solamente il riflesso dei conflitti e delle passioni della società; ma
debba restare comunque un luogo aperto o, in
ogni caso, non chiuso. Ho talora l'impressione che un certo
numero di intellettuali, di cui Lei fa parte, abbia una visione
troppo chiusa e troppo astratta della scuola.
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