Copertina
Autore Giuseppe Fiori
Titolo Vita di Antonio Gramsci
EdizioneIlisso, Nuoro, 2003 [1966], Scrittori di Sardegna 9 , pag. 364, cop.ril., dim. 125x210x30 mm , Isbn 978-88-87825-59-6
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe biografie , storia contemporanea d'Italia , regioni: Sardegna
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Pagina 13

PREMESSA



Scrisse Gramsci in una lettera a Tatiana: «Ho ricevuto le fotografie dei bambini e sono stato molto contento, come puoi immaginare. Sono stato anche molto soddisfatto perché mi sono persuaso coi miei occhi che essi hanno un corpo e delle gambe; da tre anni non vedevo che solo delle teste e mi era cominciato a nascere il dubbio che essi fossero diventati dei cherubini senza le alette agli orecchi».

Questo libro non vuole avere altra ambizione che di completare il ritratto di Gramsci, cioè di aggiungere alla «testa» (al Gramsci grande intellettuale e leader politico, meglio conosciuto) «gambe e corpo»: quegli elementi umani, dall'infanzia alla maturità, che aiutano a farci vedere il personaggio «intero», nei giorni della fame, dell'amore e del lento morirsene. È quindi specialmente il ritratto di Nino Gramsci.

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Pagina 184

CAPITOLO SEDICESIMO



Arrivò a Mosca fortemente depresso. Era malato. Scontava la tensione polemica degli ultimi tempi, amarezze e incomprensioni e, oltre a ciò, fatiche non sostenibili senza grave logorio da chi, come lui, all'infelicità del corpo aggiungeva la denutrizione e le scosse psicologiche patite da ragazzo. Presto le sue cattive condizioni di salute si fecero evidenti anche ai compagni di lavoro, e all'inizio dell'estate Grigorij Zinovjev, allora presidente dell'Internazionale, volle che si ricoverasse nel sanatorio di Serebriani Bor («Il bosco d'argento»), alla periferia di Mosca. Aveva tic, scatti «quasi feroci», tremiti convulsi. «Alcune molto gentili persone che venivano ad assistermi e a farmi compagnia», racconterà, «mi dissero più tardi che avevano avuto paura, sapendomi sardo, che io talvolta volessi accoltellare qualcuno!». C'era, tra le «molto gentili persone», un'ammalata, Eugenia Schucht, di qualche anno più grande di lui, che parlava perfettamente l'italiano; una grave forma di esaurimento psicofisico le impediva di camminare. Diventati amici anche per la possibilità di comunicazione immediata, grazie alla conoscenza dell'italiano e dell'Italia che lei aveva, in breve Antonio seppe molto di Eugenia e del suo lungo soggiorno, con i familiari, in Italia, a Roma.

Era nata in Siberia, durante la deportazione del padre, Apollo Schucht, un antizarista d'origine scandinava. Veniva dopo altre due sorelle, Nadina e Tatiana. Verso il 1890, la famiglia s'era trasferita in Francia, a Montpellier, e poi a Ginevra. Nascono nell'emigrazione Anna e, nel 1896, Giulia; sesto, Vittorio, l'unico maschio. Ai primi del secolo, la famiglia raggiunge Roma. Ricco signore versato negli studi di letteratura francese e con buona cultura musicale, Apollo Schucht, di famiglia d'ufficiali, ha un patrimonio che gli consente di vivere tranquillamente.

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Pagina 190

Tuttavia Gramsci non tornò in Italia. Serrati fu arrestato appena dopo il rientro, e Tasca dovette espatriare in Svizzera. Mentre in Italia il lavoro per la fusione veniva portato avanti, con la resistenza della maggioranza dei comunisti e dei socialisti, da Scoccimarro a Maffi, Gramsci continuava a lavorare a Mosca nell'Esecutivo dell'Internazionale. Doveva sacrificare agli impegni politici molta parte della sua vita privata. Andava spesso in sanatorio, per curarsi e per visitare Genia Schucht. Lì aveva trascorso il Natale del '22:

Io ho fatto l'ultimo albero di Natale nel '22, per far divertire Genia che non poteva ancora levarsi dal letto o per lo meno non poteva ancora camminare senza appoggiarsi alle pareti e ai mobili. Non ricordo bene se era levata; ricordo che l'alberetto era collocato sul tavolino accanto al letto ed era zeppo di cerini che furono accesi tutti simultaneamente appena Giulia, che aveva tenuto un concerto per gli ammalati, rientrò nella camera, dove anch'io ero rimasto a far compagnia a Genia.

In genere gli incontri con Giulia erano saltuari, anche a causa del lavoro politico. «Non sono ancora certo», le scriveva il 13 febbraio 1923, «se domenica potrò venire da lei. Ci convocano ad ogni momento, nelle ore più impensate, e mi dispiacerebbe assai di mancare ad una riunione senza essere in grado di giustificare la mia assenza». Metteva nel suo lavoro di funzionario dell'Internazionale grande scrupolo. Ma la giovane e dolce violinista era troppa parte di lui: «Voglio, assolutamente voglio che lei continui a volermi bene... io tutte queste cose le ho prese sul serio, molto sul serio». A distrarlo da pensieri e da occupazioni e da battaglie una volta esclusive, assorbenti d'ogni residuo d'energia intellettuale e fisica, c'era adesso, dopo conosciuta Giulia, «la più bella e più grande e più forte ragione del mondo». Così a un bel momento il disciplinatissimo e rigido funzionario dell'organizzazione che da Mosca tirava i fili della rivoluzione proletaria in mezzo mondo, passato dalla fase «orso della caverna» alla fase «lupo sentimentale», arrivò a concedersi uno strappo. Era arrivato dall'Italia un telegramma: il comitato centrale del PCd'I dava notizia dell'esistenza di un mandato d'arresto contro Gramsci, del quale dunque si sconsigliava il ritorno in patria. Andarono a cercarlo di primo mattino al Lux, l'albergo di via Gorkij dove abitava. Non c'era, e nessuno degli italiani seppe dire dove mai si fosse cacciato: Gramsci non aveva lasciato detto nulla. Girarono allora per tutta Mosca con un'automobile: inutilmente; del giovane italiano nemmeno l'ombra. Chissà quale sospetto assalì i messaggeri se, impressionati dalla scomparsa, arrivarono persino a mobilitare la Ghepeu. Quando poi Gramsci arrivò al Lux, stavano tutti lì a guardarlo come «un resuscitato», dirà lui stesso. Semplicemente aveva voluto essere, per una notte, l'innamorato e basta. In questo modo, legati a impegni che li trattenevano in città diverse, l'uno a Mosca e l'altra a Ivanovo, e quasi rincorrendosi, profittando dei non molti momenti di libertà, Antonio e Giulia vissero la loro più felice stagione. Finché avvenne il distacco.

In Italia la situazione s'era appesantita. I responsabili dell'Internazionale guardavano con preoccupazione al PCd'I, disgregato dall'ondata degli arresti (Bordiga e Grieco erano in carcere, dal 3 febbraio 1923), costretto all'immobilismo dallo spirito settario di molti suoi dirigenti e caduto in pieno marasma.

Essendo stato arrestato l'Esecutivo nelle persone di Amadeo [Bordiga] e di Ruggero [Grieco] — scrive Gramsci — si attese invano [a Mosca] per circa un mese e mezzo di avere delle informazioni che stabilissero con esattezza come i fatti si erano svolti, quali limiti avesse avuto l'azione della polizia nel distruggere l'organizzazione, quale serie di provvedimenti avesse preso l'Esecutivo rimasto in libertà per riprendere il legame organizzativo e ricostituire l'apparecchio del partito. Invece dopo una prima lettera scritta immediatamente dopo gli arresti e nella quale si diceva che tutto era stato distrutto e che la centrale del partito doveva essere ricostituita ab imis, non si ricevette più nessuna informazione concreta, ma solo delle lettere polemiche sulla questione della fusione, scritte in uno stile che pareva tanto più arrogante e irresponsabile quanto più l'autore di esse aveva con la sua prima lettera creata l'impressione che il partito esistesse ormai più solo nella sua persona... La questione fu posta brutalmente di ciò che valesse il centro del partito italiano. Le lettere ricevute furono criticate aspramente e si domandò a me che cosa intendessi suggerire... Anch'io ero rimasto sotto l'impressione disastrosa delle lettere... E perciò arrivai fino a dire che se si riteneva che veramente la situazione fosse tale come obbiettivamente appariva dal materiale a disposizione, sarebbe stato meglio farla finita una buona volta e riorganizzare il partito dall'estero con elementi nuovi scelti d'autorità dall'Internazionale.

Fu dunque deciso dall'Esecutivo allargato dell'Internazionale, nel giugno del '23, di liquidare la vecchia maggioranza bordighiana, e si giunse alla designazione, per l'Esecutivo del PCd'I di Togliatti, Scoccimarro, Fortichiari, Tasca e Vota. Fortichiari, ex astensionista, rifiutò: lo sostituì Gennari, avverso alle posizioni di Bordiga. Ma il 21 settembre 1923 anche il nuovo Esecutivo (Togliatti, Tasca, Vota, Gennari e Leonetti, che sostituiva Scoccimarro) fu sorpreso dalla polizia in casa dell'operaio Renato Scanziani, in un sobborgo di Milano, e finì in carcere. Ne venne l'incarico a Gramsci di trasferirsi a Vienna per seguire più da vicino la difficile situazione del partito in Italia. Capitava dunque al giovane sardo di passare dallo stato di relativo isolamento dell'ultimo periodo torinese alla responsabilità massima. A trentadue anni era, nel giudizio dell'Internazionale, l'effettivo leader del partito italiano.

Lasciò Mosca per Vienna verso fine novembre del '23, dopo un anno e mezzo di lavoro nell'Esecutivo dell'Internazionale. Era stata, nella sua vita, una grande svolta. Soltanto lo deprimeva il pensiero di doversi staccare da Giulia. Ma la giovane musicista era consapevole della parte di sacrificio che l'attività di Antonio le avrebbe sempre chiesto. Pochi mesi dopo, il 7 giugno 1924, Gramsci scriverà alla mamma: «La mia compagna condivide completamente le mie idee: non è italiana ma ha vissuto molto in Italia e ha fatto i suoi studi a Roma. Si chiama Giulia (Julka nella sua lingua) ed è diplomata al Liceo Musicale: è coraggiosa, di carattere forte, e sono sicuro che voi tutte l'apprezzerete e le vorrete bene quando la conoscerete. Nell'estate prossima o nell'autunno vorrei venire in Sardegna con lei per qualche giorno».

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La signora Peppina s'infastidiva non poco, per queste visite. Anche Nino, del resto, tolta qualche concessione a visitatori graditi e no, preferiva starsene a chiacchierare con la mamma ed a giocherellare con la bimba di Gennaro. Diceva ai suoi di Giulia, come s'erano conosciuti, quel che faceva, e la signora Peppina non si stancava di ascoltarlo, estatica. «Gli occhi le brillavano dalla commozione», mi dice Teresina, «perché vedeva Nino sereno come non era mai stato, felice dell'amore di Giulia e d'avere un figlio». Forse pensando a Delio, Gramsci s'intratteneva con Mea, che di quei momenti ha ricordi vaghi per alcuni aspetti e precisi per altri. «Rideva sempre», racconta, «mi accompagnava in viaggi favolosi facendomi sobbalzare sulle ginocchia e si divertiva da matto alle mie monellerie». Furono, per Gramsci, momenti di grande pace. Scriverà alcuni giorni dopo a Giulia:

Ho giocato a lungo con una mia nipotina di quattro anni; poiché aveva avuto paura di alcuni granchi lessati, le ho fatto vivere tutto un romanzo in cui entravano 530 granchi cattivi comandati dal loro generale Masticabrodo, coadiuvato da uno stato maggiore brillantissimo (la maestra Sanguisuga, il maestro Scarafaggio, il capitano Barbablu ecc.) e un piccolo gruppo di granchi buoni, Farfarello, Patapun, Barbabianca, Barbanera ecc. I cattivi le pizzicavano le gambe con le mie mani, i buoni accorrevano in triciclo armati di spiedi e di scope per difenderla; i ciuf ciuf del triciclo si alternavano con i colpi di scopa, con dei dialoghi ventriloqueschi, e tutta la casa si riempiva di una società di granchi in attività, fra lo stupore della bimbetta che credeva a tutto e si appassionava allo svolgimento del romanzo creando ella stessa nuovi episodi e nuove battute. Ho rivissuto un po' della mia infanzia e mi sono divertito più così che ricevendo le visite delle notabilità del paese.

La vacanza durò una decina di giorni, dal 27 ottobre al 6 novembre 1924. Venne infine il momento del commiato. La signora Peppina aveva dato al figlio, perché la regalasse a Giulia, una cuffietta sarda del villaggio di Desulo. Quando si lasciarono, lei non sapeva che era l'ultimo abbraccio.

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CAPITOLO DICIANNOVESIMO



La pressione fascista aumentava, e sempre più evidente si faceva l'incapacità dell'Aventino di opporvisi con efficacia. Il 12 novembre 1924, cinque giorni dopo il ritorno di Gramsci dalla Sardegna, alla riapertura della Camera, che da cinque mesi era chiusa, avvenne il primo distacco dei comunisti dall'Aventino. Un deputato comunista, Luigi Repossi, fu incaricato di entrare nell'aula di Montecitorio, ove si commemorava Matteotti, per leggere una dichiarazione. Erano in aula solo i deputati fascisti e filofascisti. Repossi non si lasciò intimidire e di fronte a una «palude» ch'era il fior fiore dello squadrismo disse: «Da che mondo è mondo, non è permesso ai responsabili d'assassinio commemorare le vittime». Due settimane dopo tutto il gruppo parlamentare comunista, staccandosi ufficialmente dall'Aventino, rientrava in aula, per condurre dalla tribuna del parlamento la battaglia antifascista.

Quello stesso giorno, il 26 novembre, Gramsci scriveva a Giulia:

Si lavora affannosamente. La situazione si è composta politicamente per il momento in una forma che ci costringe a un'attività minuta ma gigantesca nel suo complesso. Il proletariato si risveglia e riacquista coscienza della sua forza; ancora maggiore è il risveglio tra i contadini, la cui situazione economica è spaventosa; ma l'organizzazione di massa è ancora difficile e il Partito nel suo complesso di cellule e di gruppi di villaggio è lento a muoversi e a lavorare. Il centro del partito deve intervenire continuamente sui posti, stimolare e controllare il lavoro, assistere i compagni, indirizzarli, lavorare con loro. Siamo diventati molto forti: siamo riusciti a fare dei comizi pubblici dinanzi alle officine alla presenza di quattromila operai che acclamavano al Partito e all'Internazionale. I fascisti non incutono più tanta paura; già si verifica che dopo un comizio la massa si incolonni per dare l'assalto alla casa di qualche capo fascista. La borghesia è disgregata: non sa più darsi un governo di fiducia: deve aggrapparsi al fascismo disperatamente; le opposizioni si illanguidiscono e in realtà lavorano solo per ottenere da Mussolini un maggiore rispetto delle forme legali.

Non l'ottennero.

A luglio Gramsci aveva detto in una riunione del comitato centrale e poi scritto su L'Ordine nuovo del 1 settembre:

Ci sarà un compromesso tra il fascismo e le opposizioni?... Esso è molto improbabile... Il fascismo per la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa sùbito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati.

Si vide la giustezza di simile giudizio il 3 gennaio 1925. A lungo le opposizioni legalitarie s'erano illuse nel processo di «normalizzazione» del fascismo. A lungo alcuni avevano creduto che la situazione fosse sfuggita di mano a Mussolini, non direttamente responsabile dell'ondata di violenze, e che la graduale espulsione dal Partito fascista dei più settari avrebbe senz'altro chiuso la parentesi della guerra civile. Potevano bastare a togliere queste illusioni gli estratti del memoriale di Cesare Rossi pubblicati il 27 dicembre 1924 dal giornale di Amendola, Il Mondo. L'ex-capo dell'ufficio stampa della presidenza del Consiglio dei ministri, rifiutando la parte di capro espiatorio, scriveva: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità del duce». Sette giorni dopo, smettendola con la pratica solita di dire una cosa e di farne un'altra, a parole rispettoso dello Statuto e nei fatti ispiratore di violenza, Mussolini parlò brutalmente. Disse alla Camera: «Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto... Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». In tre giorni, dal 3 al 6 gennaio, furono chiusi 95 circoli e ritrovi politicamente sospetti, sciolte 25 organizzazioni «sovversive» e 120 gruppi dell'associazione Italia libera, fatte 655 perquisizioni domiciliari, arrestati 111 «sovversivi». I sequestri dei giornali d'opposizione divennero regola. Con quale risposta dell'Aventino? Ancora una astratta affermazione di princìpi. Le opposizioni legalitarie si riunirono l'8 gennaio in un'aula di Montecitorio accordandosi su una dichiarazione nella quale tra l'altro era detto: «La maschera costituzionale e normalizzatrice è caduta: il governo calpesta le leggi fondamentali dello Stato, soffoca con arbitrio inaudito la libera voce della stampa, sopprime ogni diritto di riunione, mobilita le forze armate del suo partito, mentre tollera e lascia impuniti le devastazioni e gli incendi che colpiscono i suoi avversari». Come scoperta della vocazione totalitaria del fascismo, era abbastanza tardiva. Come contromisura per riparare l'Italia dal dispotismo, era un ditale d'acqua sopra il falò delle libertà statutarie. Non si poteva certo sperare di impensierire Mussolini con simili denunzie. Il 12 gennaio Gramsci scrisse a Giulia: «Viviamo in Italia una fase che mi pare non si sia verificata in nessun altro paese, piena di imprevisti, perché il fascismo è riuscito nel suo compito di distruggere tutte le organizzazioni e quindi tutti i mezzi attraverso i quali le masse possono esprimere la loro volontà».

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Il 28 aprile era nuovamente in Italia. Il governo aveva preparato un disegno di legge che la relazione ministeriale diceva rivolto prevalentemente a colpire la massoneria; il progetto era però formulato per il più generico fine di «disciplinare l'attività delle associazioni, enti ed istituti, e l'appartenenza ad essi dei pubblici impiegati»: nel che era facile indovinare la vera intenzione dei proponenti, decisi a darsi uno strumento per colpire, con l'apparenza di operare in regime di legalità, tutte le organizzazioni antifasciste. Rispetto alla massoneria, secondo Gramsci, il fascismo aveva ragioni di concorrenza e non di lotta con obiettivi opposti; lo scopo del fascismo poteva essere di troncare le gambe alla massoneria per imporle poi, da una posizione di evidente superiorità, un compromesso; ma soprattutto contro le organizzazioni, con le quali il compromesso era impossibile, si sarebbe rivolta, dopo questa legge, la furia repressiva del governo. Il 16 maggio 1925 Gramsci andò alla Camera per denunziare lo spirito sopraffattore della legge. Era il suo debutto in parlamento. Il giovane capo dell'opposizione di sinistra (Gramsci aveva allora trentaquattro anni) e quegli che sino al '14 era stato direttore dell'Avanti! e leader della giovane generazione rivoluzionaria e adesso, a quarantadue anni, si faceva chiamare duce dalle forze d'assalto della borghesia reazionaria stavano infine l'uno di fronte all'altro. Ben si conoscevano, anche se, prima d'allora, non c'erano mai state occasioni d'incontri. Parlando il 1 dicembre 1921 dai banchi dell'opposizione, Mussolini aveva detto alla Camera: «Gli anarchici definiscono il direttore dell' Ordine nuovo un finto stupido, finto veramente perché si tratta di un sardo gobbo e professore di economia e filosofia, di un cervello indubbiamente potente». E Gramsci aveva scritto il 15 marzo 1924 su L'Ordine nuovo quindicinale:

Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il capo è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampate nei giornali, ogni giorno, diecine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al capo. Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino...

Ma chi era in realtà Mussolini? Era «il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia». Ora per la prima volta i due leaders si fronteggiavano nell'aula di Montecitorio. Due personalità opposte, due temperamenti l'uno il rovescio dell'altro.

La sonorità del tribuno non era di Gramsci; il suo discorso sembrava venire direttamente dal cervello, non da polmoni e gola. Aveva scritto Gobetti su La Rivoluzione liberale, all'indomani delle elezioni d'aprile: «Se Gramsci parlerà a Montecitorio vedremo probabilmente i deputati fascisti raccolti e silenziosi a udire la sua voce sottile ed esile e nello sforzo di ascoltare parrà loro di provare un'emozione nuova di pensiero. La dialettica di Gramsci non protesta contro i brogli o le truffe ma ne documenta, dalle pure altezze dell'idea hegeliana, la insopprimibile necessità per un governo borghese». Parole profetiche. «Mentre Gramsci parlava», ricorda Velio Spano, «tutti i deputati si erano riversati sui banchi dell'estrema sinistra, per udirne meglio la debole voce inflessibile. Una grande fotografia pubblicata da un giornale romano mostrava il capo del governo fascista con la mano tesa dietro l'orecchio in uno sforzo d'attenzione». Calmo Gramsci analizzava la sostanza di classe della massoneria e del fascismo. E ne traeva una prima conseguenza:

Il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale.

MUSSOLINI: Di una classe ad un'altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente...

GRAMSCI: È una rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere...

MUSSOLINI: Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all'opposizione, i Motta, i Conti...

FARINACCI: E sussidiano i giornali sovversivi!

MUSSOLINI: L'Alta Banca non è fascista, voi lo sapete!


Era facile a Gramsci obiettare che il fascismo si preparava appunto al compromesso con le forze non ancora assorbite nel sistema:

Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l'assorbimento di tutti i partiti nella sua organizzazione. Con la massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage, poi il sistema terroristico dell'incendio delle logge; e infine impiega oggi l'azione legislativa per cui determinate personalità dell'Alta Banca e dell'alta burocrazia finiranno per l'accodarsi ai dominatori per non perdere il loro posto; ma, con la massoneria, il Governo fascista dovrà venire a un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità... Perciò, noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre...

MUSSOLINI: Facciamo quello che fate in Russia...

GRAMSCI: In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi...

MUSSOLINI: Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo!

GRAMSCI: In realtà l'apparecchio poliziesco dello Stato considera già il Partito comunista come un'organizzazione segreta.

MUSSOLINI: Non è vero!

GRAMSCI: Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.

MUSSOLINI: Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli.

GRAMSCI: E una forma di persecuzione sistematica, che anticipa e giustificherà l'applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione... per conoscerli.

UNA VOCE: Ce ne è stato un caso solo. Lei non conosce il Meridione.


«Sono meridionale», rispose sùbito Gramsci. Le continue interruzioni gli impedivano di svolgere il discorso linearmente. Sempre riusciva però a ritrovare il filo:

Poiché la massoneria passerà in massa al partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge. Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti.

Ma, nella situazione data, era poi certo che la disgregazione dei partiti operai avrebbe ricacciato indietro per sempre le forze del proletariato italiano? A chi gli aveva gridato «Lei non conosce il Meridione», il deputato sardo diceva adesso:

In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine, specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l'urgenza di tali problemi, perciò promettete un miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda. Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale... Ogni anno lo Stato estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo, né con servizi di nessun genere. Somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali per dare una base al capitalismo dell'Italia settentrionale. Su questo terreno delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano, si formerà necessariamente, nonostante tutte le leggi repressive, nonostante le difficoltà di costituire grandi organizzazioni, l'unione degli operai e dei contadini contro il nemico comune... Voi potete «conquistare lo Stato», potete modificare i codici, voi potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso; non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin'oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi.

L'aula rumoreggiava. Per Gramsci era l'esordio, ed anche il commiato. Mai più avrebbe parlato da quel banco. Si racconta, ma non si hanno in proposito testimonianze dirette, che Mussolini, vedendolo sùbito dopo alla buvette della Camera, gli andasse incontro con la mano tesa, per felicitarsi del suo discorso. Indifferente, Gramsci continuò a sorbire il caffè, ignorando la mano che gli veniva tesa.

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CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO



Lasciò Milano l'11 maggio 1928. Il dibattimento si svolse dal 28 maggio al 4 giugno. Era la grande occasione in vista della quale Mussolini aveva sostituito alla magistratura ordinaria, colpevole di qualche resistenza al processo di fascistizzazione degli organi dello stato, una magistratura politica, il Tribunale speciale per la difesa dello stato.

All'inizio, questo tribunale aveva dovuto occuparsi di casi piuttosto modesti, essendo imputati due lavoratori romani che, secondo il rapporto d'accusa del commissario di pubblica sicurezza Epifanio Pennetta, s'erano lasciati andare ad espressioni ingiuriose nei confronti di Mussolini: l'uno: «Li mortacci sua, 'sto puzzolento»; l'altro: «Ancora nun l'hanno ammazzato». Ora però, di fronte ai giudici, sedevano alcuni tra i più tenaci avversari del regime, ventidue uomini odiati da Mussolini per il reale pericolo che essi rappresentavano: in prima linea, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda e gli ex deputati Luigi Alfani, Igino Borin, Enrico Ferrari ed Ezio Riboldi. Doveva essere un grande show giudiziario: furono impiegate tutte le forme della liturgia fascista, un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna, i giudici in alta uniforme e tutt'un rituale sinistro da corte marziale. Al tavolo della stampa erano stati ammessi i corrispondenti del Manchester Guardian, del Petit Parisien e della Tass. Poterono assistere alle udienze anche Carlo Gramsci ed i fratelli di Terracini e di Scoccimarro.

I ventidue imputati sedevano sul banco degli accusati «custoditi dalla forza militare ma liberi nelle persone», come si legge nel verbale della prima udienza. La linea comune fu di ammettere la loro attività nelle file del Partito comunista negando però una funzione dirigente. Erano calmi; il primo ad essere interrogato fu, nell'udienza del 30 maggio, Antonio Gramsci. Uno dei difensori, l'avvocato Giuseppe Sardo, ha così ricostruito il colloquio.

PRESIDENTE: Siete imputato di attività cospirativa, di istigazione alla guerra civile, di apologia di reato e di incitamento all'odio di classe. Cosa avete da dire a vostra discolpa?

GRAMSCI: Confermo le mie dichiarazioni rese alla polizia. Sono stato arrestato malgrado fossi deputato in carica. Sono comunista e la mia attività politica è nota per averla esplicata pubblicamente come deputato e come scrittore de l'Unità. Non ho svolto attività clandestina di sorta perché, ove avessi voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, così, mai lasciato solo; e, con il pretesto della protezione, fu esercitata nei miei confronti una sorveglianza che diviene oggi la mia migliore difesa. Chiedo che vengano sentiti come testi per deporre su questa circostanza il prefetto e il questore di Torino. Se d'altronde l'essere comunista importa responsabilità, l'accetto.

PRESIDENTE: Tra gli scritti sequestrati si parla di guerra e di impossessamento di potere da parte del proletariato. Cosa vogliono significare questi scritti?

GRAMSCI: Penso, signor generale, che tutte le dittature di tipo militare finiscano prima o poi per essere travolte dalla guerra. Sembra a me evidente, in tal caso, che tocchi al proletariato sostituire la classe dirigente, pigliando le redini del Paese per sollevare le sorti della Nazione.


Parlava con un filo di voce. S'eccitò solo verso la fine dell'interrogatorio. L'avevano irritato alcune interruzioni del pubblico ministero. Rivolto ai giudici, con veemenza disse: «Voi condurrete l'Italia alla rovina ed a noi comunisti spetterà di salvarla».

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Saranno alla fine 32 quaderni, 21 dei quali scritti o cominciati a Turi: nell'insieme 2848 pagine corrispondenti a quattromila cartelle dattiloscritte. La prima impressione di chi si accosta agli originali è la frammentarietà. Gli argomenti si intrecciano, chiusi nella misura della breve nota: il sunto di un articolo appena letto, un'idea altrui fissata per memoria, il primo abbozzo d'una tesi, le indicazioni per l'impianto di un saggio o la parte del saggio nella stesura definitiva: tutt'una accumulazione di materiali minuti che poi dovranno avere sistemazione organica. A distanza di mesi e persino di anni, come gli è permesso dall'irregolare arrivo dei libri, Gramsci riprende il discorso appena avviato o non approfondito a sufficienza e lo arricchisce di nuove osservazioni, riscrive, amplia, connette gruppi di note precedenti. Sono materiali adesso più solidi, meglio finiti, che però aspettano ancora d'essere disposti, legati, fusi in una costruzione ben equilibrata. A quest'ultimo lavoro di trascrizione o di riscrittura e di riordinamento delle note in un disegno organico, Gramsci non potrà attendere che per alcuni argomenti. L'apparenza di frammentarietà rimane, e tuttavia v'è un'idea centrale, di fondo, cui tutte le note sparse si riconducono.

Qual è questa idea centrale? Già la si coglie, più che in germe, nel saggio sulla questione meridionale. Lì era posto, in premessa, il problema delle alleanze di classe: il proletariato potrà vincere e garantire stabilità all'ordine nuovo solo nella misura in cui sarà riuscito a conquistare alla sua causa le altre classi sfruttate, la classe contadina in primo luogo; ma la classe contadina è integrata in un blocco storico dove gli intellettuali medi esercitano il ruolo di diffusori di una Weltanschauung borghese, della concezione di vita elaborata dai grandi intellettuali della classe dominante; per staccare il contadino dal proprietario terriero, è necessario favorire la formazione di un nuovo strato di intellettuali che respingano la Weltanschauung borghese (Gobetti, Dorso). I Quaderni sono la prosecuzione e l'ampliamento del saggio sulla questione meridionale: c'è in essi lo studio della funzione degli intellettuali nella storia d'Italia, sino alla formazione dello stato unitario; c'è la critica delle filosofie che dànno un fondamento teorico al dominio borghese; c'è il contributo dell'uomo di pensiero all'elaborazione di una nuova Weltanschauung proletaria, di una nuova concezione di vita opposta a quella borghese e sostitutiva d'essa nella coscienza delle classi sfruttate. È specialmente in queste tre direzioni che il Gramsci dei Quaderni si muove: egli storicizza i movimenti culturali del passato; sottopone a critica la filosofia di Benedetto Croce; combatte le degenerazioni economicistiche, meccanicistiche, fatalistiche del marxismo.

Ogni blocco storico, ogni ordine costituito, pensa Gramsci con originalità rispetto ad altri marxisti, ha i suoi punti di forza non solo nella violenza della classe dominante, nella capacità coercitiva dell'apparato statale, ma anche nell'adesione dei governati alla concezione del mondo che è propria della classe dominante. La filosofia della classe dominante, per una serie di successive volgarizzazioni, è diventata senso comune: è diventata cioè la filosofia delle masse, le quali accettano la morale, il costume, le regole di comportamento istituzionalizzate nella società in cui vivono. Il problema allora, per Gramsci, è di vedere come la classe dominante è arrivata ad ottenere il consenso delle classi subalterne e come queste classi potranno rovesciare il vecchio ordine e istituirne un altro, di libertà per tutti.

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Ora Gramsci si rivolgeva soltanto a Giulia, ai figli lontani. Non conosceva Giuliano, se non per fotografia. Delio aveva adesso, nel '36, dodici anni. Tra loro si intrecciavano a distanza colloqui di tenerezza infinita:

Caro Delio, ... ti ringrazio di aver abbracciato forte forte la mamma per parte mia: penso che devi farlo ogni giorno, ogni mattino. Io penso sempre a voi; così immaginerò ogni mattino: ecco che i miei figli e Giulia pensano a me in questo momento. Tu sei il fratello maggiore, ma devi dirlo anche a Julik: così ogni giorno avrete i «cinque minuti col babbo». Cosa ne pensi?

Le energie si affievolivano. Un po' lo teneva su la prospettiva del vicino ritorno alla libertà. La pena sarebbe scaduta il 21 aprile 1937. Pensava di tornarsene in Sardegna, per vivere in assoluto isolamento. Lo scrisse a casa. Come il padre seppe di questo disegno, gli salì la febbre, per l'emozione.

Era malato, vecchio, settantasette anni. Non vedeva Nino dal '24. Anche gli altri figli erano fuori casa, lontani: Gennaro a Bilbao, arruolato nella milizia repubblicana spagnola per la lotta a Franco; Mario ufficiale in Africa, dove s'era fermato dopo aver combattuto la guerra d'Abissinia; e Carlo a Milano. Si spegneva con i figli sparsi nel mondo. Ed ecco, a rianimarlo, la notizia del ritorno di Nino.

È Mea Gramsci a ricordare quei momenti:

Quando stava per spirare la pena – racconta – zio Nino scrisse a noi. Voleva che gli cercassimo una camera a Santulussurgiu. C'era stato da studente, e il clima gli si confaceva. Siamo andate io, Teresina e un'amica, Peppina Montaldo. Abbiamo trovato la camera, era una bella camera. Così aspettavamo di giorno in giorno che zio Nino arrivasse. Nonno, in quel periodo, stava molto male. Sembrava però sollevato, all'idea del ritorno del figlio. Zio Nino doveva arrivare il 27 aprile, aspettavamo di ora in ora. Finisce il giorno, e nulla. Eravamo delusi. Nonno aveva tanto sperato che quel giorno il figlio arrivasse. Sarà per l'indomani, pensiamo. Sennonché l'indomani entra a casa una donna e chiede: «Ma è vero che Nino è morto?». Noi rimaniamo di pietra. «Lo ha detto la radio, l'ho sentito alla radio», dice la donna. Poi è cominciata ad affluire la gente, tutti venivano a farci le condoglianze. Nonno stava male e nessuno aveva il coraggio di dirglielo, e quindi era necessario che uno rimanesse in camera sua, proprio vicino all'ingresso, per evitare che qualcuno entrasse e gli dicesse la verità. In camera con nonno in genere rimanevo io, che ero ragazzina, avevo diciassette anni. A un dato momento, non so come, io sono mancata. Ero in cucina, sento grida, accorriamo, era nonno che gridava: «Assassini, me l'hanno ammazzato». Questo lo ricordo precisamente. Diceva: «Me l'hanno ammazzato». E si tirava i capelli, si tirava la barba, si picchiava... Non so, era una scena impressionante, sa...

Nino era morto alle 4,10 del 27 aprile; aveva quarantasei anni. Gli fecero il funerale l'indomani pomeriggio, sotto il temporale. Seguiva il feretro soltanto una carrozza, con Tatiana e Carlo dentro.

Francesco Gramsci morì appena due settimane dopo, il 16 maggio 1937. Tante volte, prima d'andarsene, aveva riletto le parole scritte da Nino alla mamma il 10 maggio 1928, alla vigilia del processo:

Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.

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