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| << | < | > | >> |Pagina 9L'ultima cosa che Elner Shimfissle ricordava, dopo aver accidentalmente disturbato quel nido di vespe tra le foglie del fico, era di aver detto: "Ops". Dopo di che si era ritrovata al pronto soccorso di un ospedale, a domandarsi come diavolo ci fosse finita. Non c'era pronto soccorso nell'ambulatorio medico d'urgenza vicino a casa, quindi doveva trovarsi come minimo a Kansas City. Santissimo cielo, pensò. Di tutto quello che poteva succedere stamattina. Era uscita con l'intenzione di raccogliere qualche fico e prepararci un vasetto di marmellata per quella donna tanto gentile che le aveva portato un cestino di pomodori, e adesso eccola lì con un ragazzino in cuffia da doccia e grembiule verde che la guardava tutto eccitato parlando a velocità supersonica con altre cinque persone che correvano per la stanza, anche loro con la cuffia da doccia, il grembiule e delle soprascarpe di carta verdi. Elner si domandò come mai non portavano più il bianco. Quando era cambiata la regola? L'ultima volta che aveva visto un ospedale era stato trentaquattro anni prima, quando Norma, sua nipote, aveva dato alla luce Linda. Ed erano tutti vestiti di bianco, allora. La sua vicina di casa Ruby Robinson, un'autentica infermiera professionale iscritta all'albo, portava ancora il bianco, con tanto di scarpe e calze bianche e una simpatica cuffietta inamidata con le alette all'insù. Elner trovava che il bianco fosse molto più professionale e "dottorale" delle cose verdi, stropicciate e informi che indossava quella gente. Come se non bastasse, non era neppure un bel verde. A lei le uniformi, così belle e ordinate, erano sempre piaciute. Ricordava ancora quando sua nipote e il marito l'avevano invitata al cinema: era rimasta male nel vedere che le maschere non la portavano più. Anzi, non esistevano nemmeno più le maschere: dovevi trovarti il posto da solo. E va be', aveva pensato Elner. Avranno le loro buone ragioni. Poi d'improvviso cominciò a chiedersi se aveva spento il forno prima di uscire in giardino a raccogliere i fichi, e se aveva servito la colazione a Sonny, il gatto. Si chiese anche che cosa stessero dicendo il ragazzino con l'orrida cuffia da doccia e gli altri chini su di lei, tutti presi a tastarla. Vedeva le loro labbra muoversi, ma quella mattina non aveva messo l'apparecchio acustico e tutto quello che sentiva era un debole "bip bip"; così decise di schiacciare un pisolino in attesa che sua nipote Norma venisse a prenderla. Aveva bisogno di tornare a casa per controllare il forno e provvedere a Sonny, però non moriva esattamente dalla voglia di vedere Norma perché sapeva che si sarebbe agitata moltissimo. Pazienza. Norma era una persona molto nervosa, e dopo la sua ultima caduta le aveva detto e ripetuto di non salire più sulla scala per raccogliere i fichi. Le aveva fatto promettere di aspettare che venisse a raccoglierglieli Macky, suo marito, e adesso non solo Elner aveva infranto una promessa, ma il viaggio fino al pronto soccorso le sarebbe costato un occhio. Qualche anno prima, la sua vicina Tot Whooten si era conficcata nella gamba un'aguglia ed era finita pure lei al pronto soccorso: le avevano chiesto una piccola fortuna. A ripensarci, forse sarebbe stato davvero meglio chiamare Norma. Le era venuto in mente di farlo, ma non le era sembrato íl caso di scomodare il povero Macky per qualche fico. E poi, come faceva a sapere che nel suo albero c'era un nido di vespe? Se non fosse stato per loro, sarebbe salita con la scala e poi ridiscesa, e adesso avrebbe anche già fatto la marmellata. Tutto all'insaputa di Norma. La colpa era delle vespe: non avrebbero dovuto trovarsi lì, tanto per cominciare. Ma a questo punto, qualunque scusa non sarebbe riuscita ad arginare la nipote. Sono nei pasticci, pensò Elner, prima di appisolarsi. Chissà, forse il privilegio della scala è perduto per sempre. | << | < | > | >> |Pagina 44A ripensarci, aveva cominciato ad avvertire una leggera ansia mercoledì mattina, subito dopo il suo solito appuntamento delle dieci e mezzo al salone di bellezza. Quale può essere stata la causa? Ripassò mentalmente la mattinata.Era seduta nella solita poltroncina e si stava facendo sistemare i capelli quando Tot Whooten, la scimmia delle nevi, allungo una mano per prendere un bigodino medio dal vassoio di plastica, e poi se lo lasciò scappare. "Accidenti accidentaccio!" esclamò Tot. "È la seconda cosa che mi cade, questa mattina. Sai, Norma? Ho i nervi a fior di pelle. Dopo l'undici settembre, è come se il mondo si fosse capovolto. Andava tutto benissimo, avevo superato l'esaurimento, ero tornata al lavoro pronta a ricominciare, e poi un bel mattino, bam, mi sveglio e scopro che i musulmani ci vogliono fare a pezzi, e perché? Io non sono mai stata cattiva con un musulmano in tutta la mia vita, e tu?" "No. Non ne ho mai neppure conosciuto uno", disse Norma. "E invece scopriamo che tutto il mondo ci odia." "Ti capisco", ribatté Norma, porgendole un becco d'oca. "Sono anch'io spiazzata. Credevo ci volessero tutti bene." "Infatti. Non riesco a capire. Com'è possibile che ci odino, noi che siamo così gentili? Quando c'era un problema qualunque al mondo, non abbiamo forse sempre mandato soldi e aiuti?" "Certo. Da che io ricordi, è sempre stato così." "Non siamo forse il popolo più generoso sulla faccia della terra?" insistette Tot, conficcando un becco in un bigodino. "È quello che ho sempre sentito dire", replicò Norma. "Ho letto che persino il Canada non ci sopporta. Il Canada! E noi li adoriamo, vogliamo sempre andare a trovarli! Non immaginavo che il Canada ci odiasse. Tu?" "Figurati!" rispose Norma. "Li ho sempre considerati i nostri cari vicini del Nord." Tot aspirò una boccata dalla sigaretta e la riappoggiò nel posacenere di plastica nera. "Già è brutto quando ti odia qualcuno che conosci, ma quando sono dei perfetti estranei ti fa venir voglia di metterti una corda intorno al collo e saltar giù dalla finestra, non credi?" Norma ci pensò su. "Io non credo di volermi ammazzare, però di sicuro è una cosa che lascia basiti." Tot prese una retina. "Secondo me bisogna smetterla di cercare di aiutare il resto del mondo, perché tanto non apprezzano." "Sembrerebbe proprio di no." "Diavolo, guarda la Francia! Dopo che siamo andati a salvarli dai nazisti, hai sentito che belle cose dicono ora di noi? Sai una cosa, Norma? Questa faccenda mi ha veramente ferita." Norma era d'accordo. "Ti fa passare la voglia, vero?" "Esatto!" concordò Tot, pigiandole del cotone dietro le orecchie. "Tutte le tasse che pago con il duro lavoro se ne vanno in giro per il mondo, e c'è mai qualcuno che ti dice grazie? Avevo fiducia nel mondo, io, ma si è rivelato ancora peggiore dei miei figli, tutto un dammi, dammi, dammi... e non è mai abbastanza." Darlene, la figlia di Tot, che era larga quanto sua madre era sottile e stava lavorando nel séparé a fianco, sentì l'ultima frase. "Grazie tante, mamma!" disse. "Sta' tranquilla che non ti chiederò maí più nemmeno una forcina!" Tot roteò gli occhi in direzione della figlia, e a Norma sussurrò: "Mi resta solo la speranza". Per quanto a Norma non piacesse pensarlo, Tot naturalmente aveva ragione. Dopo gli attacchi terroristici dell'undici settembre, molte cose erano cambiate. Persino nella minuscola Elmwood Springs, tutti erano rimasti talmente scioccati che si comportavano come se fossero impazziti. Subito dopo il fatto, Verbena era sicura che la famiglia Hing Doag, quella del piccolo supermercato all'angolo, facesse parte di una cellula terroristica dormiente. "Non sono musulmani", le aveva detto Norma. "Vengono dal Vietnam, sono buddhisti." Ma Verbena non era convinta e aveva borbottato: "Io comunque preferisco non fidarmi". Ma i più erano semplicemente tristi al pensiero del mondo in cui avrebbero dovuto vivere i loro figli e nipoti. E per quelli come Norma e Macky, nati e cresciuti negli anni Quaranta e Cinquanta, era un cambiamento piuttosto drastico rispetto a un passato in cui ci si sentiva al sicuro e l'unica cosa che si conosceva del Medio Oriente era il disegno, sui biglietti natalizi, di una cometa che scendeva su una pacifica mangiatoia – nulla a che spartire con il luogo pieno di rabbia e odio che vedevano ogni giorno in tivù e di cui leggevano sui giornali. Norma sapeva solo che per lei era troppo, così tre anni prima aveva smesso di leggere i quotidiani e di guardare i notiziari. Adesso seguiva soltanto l'Home & Garden Network e l' Antique Road-show sulla PBS, e per il resto cacciava più o meno la testa sotto la sabbia, sperando che le cose in qualche modo si sistemassero. Quaranta minuti dopo, tolta Norma da sotto il casco, Tot riprese il discorso. "Tu mi conosci, Norma, cerco sempre di sorridere, ma mantenere un atteggiamento positivo sta diventando ogni giorno più difficile. Dicono che la civiltà così come la conosciamo noi sia spacciata, finita." "Chi lo dice?" domandò allarmata Norma. "Tutti!" rispose Tot, togliendole la retina. "Nostradamus, la CNN, i giornali. A sentire loro, potremmo essere annientati da un momento all'altro." "Oh, Tot, perché dai retta a tutte queste chiacchiere? Stanno solo cercando di spaventarti." "Be', Norma, secondo Verbena è scritto nella Bibbia, che questa è la fine dei tempi, e da come vanno le cose credo proprio che sia dietro l'angolo." "È da una vita che me lo sento ripetere, Tot, ma finora si sono sempre sbagliati." "Finora" precisò Tor sfilandole un bigodino dalla chioma. "Però uno di questi giorni avranno ragione. Secondo Verbena, i segni dell'Apocalisse ci sono tutti. Terremoti, uragani, inondazioni, gli incendi che sono scoppiati ultimamente, e adesso quella storia dell'influenza dei polli... La pestilenza, in pratica." | << | < | > | >> |Pagina 102Alle pompe funebri, dopo la chiamata di Tot, Neva si alzò e andò sul retro a prendere la pratica di Elner Shimfissle, quindi raggiunse il marito che, nella stanza attigua, stava dando gli ultimi ritocchi al parrucchino di Ernest Koonitz, arrivato da poco. "Tesoro, ha appena chiamato Tot. Probabilmente stasera tardi o domattina presto arriverà Elner Shimfissle. Sai, è morta per delle punture di vespa." "Ah! Due deceduti in ventiquattr'ore. Niente male per essere aprile." Era vero, aprile era sempre un mese "morto" per loro, ma Neva non sopportava quando Arvis aveva queste uscite. D'accordo, erano nelle pompe funebri, lei però aveva un cuore. Lui invece da qualche tempo sembrava interessato solo ai numeri. Se in città fosse venuta la peste e avesse falciato un centinaio di vittime, lui come niente si sarebbe messo a ballare. Si rendeva conto che ogni trapasso erano soldi che entravano nelle loro tasche, ma veder andarsene gli ultimi della vecchia generazione le dispiaceva. Gli Warren erano clienti abituali, quindi il lavoro doveva essere fatto. Lei e Arvis avevano sempre sepolto tutti i loro defunti: i genitori di Norma e di Macky, vari zii e zie e qualche cugino qua e là. Neva si rendeva conto di non dover fare favoritismi, tuttavia non poteva evitare di avere un debole per loro. L'intera famiglia era stata fedele alle sue pompe funebri per decenni e lei aveva sempre avuto un'attenzione particolare per i defunti Warren: dire che li aveva trattati come se fossero suoi era poco.
A parte il fatto che i morti le piacevano, Neva nutriva
una vera e propria passione per il suo lavoro. I tempi erano cambiati. Non erano
più le sole pompe funebri della
città. La Costco sulla interstatale si era messa a vendere bare a prezzi
stracciati, e loro avevano perso diversi clienti
quando si erano trasferiti nei locali dell'ex ristorante di pesce. Molti,
sentendosi a disagio a esporre la salma dei loro
cari dove un tempo erano andati a mangiare il pesce con le
patatine fritte, preferivano rivolgersi altrove. Le nuove
pompe funebri andavano bene, trovava Neva, per le cerimonie brevi e impersonali.
Non era certo tipo da parlar
male della concorrenza, ma la loro era un'azienda locale di
vecchia data e a conduzione famigliare, in grado di offrire
anche quel certo tipo di contorno che è tanto importante
quando si perde una persona cara. Lei e Arvis servivano
personalmente i clienti dal prelievo del defunto fino all'interramento.
Preparavano la salma, organizzavano l'esposizione, ordinavano i fiori, fornivano
i registri per le firme, avevano a disposizione ventignattr'ore su ventiquattro
un ministro, un soprano e una organista. Offrivano il pacchetto Lui e Lei al
prezzo di uno e disponevano di un ampio assortimento di bare e urne a prezzi
ragionevoli. Avevano spuntato il dieci per cento di sconto al Days Inn cittadino
per i parenti e gli amici che arrivavano da fuori città: la tariffa scontata
comprendeva la prima colazione il giorno del funerale e vino e formaggio
nell'atrio nel pomeriggio. Si occupavano anche del trasporto per e dal cimitero
e aiutavano a ordinare, misurare e collocare le lapidi quando arrivavano.
Che cos'altro puoi volere da un pacchetto funerario?
si chiedeva tra sé. A parte desiderare che
il tuo defunto non sia morto, naturalmente. Insomma, facevano tutto il
fattibile. E il loro annuncio pubblicitario
nell'elenco del telefono, che le era costato settimane di lavoro, rifletteva
esattamente i suoi sentimenti:
Il telefono dell'ufficio squillò di nuovo. Questa volta era la moglie di Merle, Verbena Wheeler, che chiamava dalla lavanderia due isolati più in là. "Neva? Hai saputo?" "Sì, ha appena chiamato Tot. Stavo giusto tirando fuori la pratica." "Non è terribile?" "Terribile, sì." "Era tanto dolce." "Veramente." "Si fatica a crederlo, vero?" "Altroché." "Secondo Rubi, non si e accorta di niente." "Me lo ha detto anche Tot. Per lo meno non ha sofferto." "Già." "Dobbiamo esserne grati al Signore." "Hai ragione. Comunque pensavo di ordinarti già i fiori, prima che arrivino tutti gli altri." "Ottima idea." Neva prese il blocchetto per gli ordini floreali. "Che cosa desideri?" "Il solito, direi." "Un'azalea media in vaso di ceramica", annotò Neva. Verbena preferiva sempre mandare una pianta, piuttosto che dei fiori. Una pianta poteva fare la sua figura all'esposizione della salma e poi ancora al funerale, e dopo, volendo, essere trapiantata sulla tomba. Le piaceva che la gente potesse scegliere, tipo: appretto o non appretto? Appendiabiti o scatola? "Solito messaggio?" domandò Neva. "Con profonda simpatia, Merle e Verbena?" "Sì, va benissimo. Non mi viene mai in mente niente di meglio da dire. A te?" "No. Mi sembra che questo dica già tutto." "Norma sentirà molto la sua mancanza." "Questo è sicuro." "Per quanto vecchi siano, e male in arnese, ti mancano sempre. Ricordo come mi sentivo io quando perdemmo mamma Ditty e il povero papà Ditty nel giro di pochi mesi." "Eh, sì." "E l'anno dopo mancò anche zia Dottie Ditty, ricordi?" "Come se fosse ieri", rispose Neva. "Perdemmo tutti e tre i Ditty in meno di due anni, e non passa giorno senza che io senta la loro mancanza." "Ci credo." "Quando si potra vederla?" "Non so. Norma non ci ha ancora chiamati e non ho idea di quando si potrà disporre del corpo. Potrebbe essere stasera come domani."
Verbena sospirò. "Be', allora ci vediamo lì da te. Detesto di dover tirare
di nuovo fuori quel vecchio vestito da funerale, ma cosa ci vuoi fare, così è la
vita."
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